La vera emergenza del nostro tempo è il lavoro

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Gianni Cuperlo

di Gianni Cuperlo, 7 gennaio 2017

Se cliccate su Google la parola lavoro otterrete 91 milioni e 600 mila risultati. Se lo fate con la parola occupazione arriverete a 4 milioni e 200 mila, disoccupazione poco meno di 2 milioni. Insomma la parola lavoro è uno dei termini più cliccati in assoluto.

Abbiamo circa 22 milioni di occupati con un tasso di occupazione del 55%. Abbiamo 3 milioni e 200.000 disoccupati, il 13% (650.000 disoccupati hanno tra i 15 e i 24 anni). Stiamo polverizzando tutti i record. In negativo.

Su 22 milioni di occupati quasi 17 milioni sono dipendenti, stabili oppure a termine. 5 milioni e mezzo sono lavoratori indipendenti. Sui quasi 17 milioni di lavoratori dipendenti, 12 milioni sono quelli a tempo indeterminato, i veri posti fissi.

Nel mondo il lavoro è in continua crescita, per la spinta dei paesi emergenti e la domanda conseguente di diritti fondamentali che porta alla luce il lavoro nero. Insomma tra Malthus e Marx potrebbe vincere il secondo.

Comunque il problema dell’occupazione non è stato risolto dalla mano invisibile del mercato e dall’equilibrio perfetto tra domanda e offerta. Anzi, il ruolo dello Stato torna a rappresentare una delle variabili decisive per capire come uscire dalla crisi.

Come creare lavoro e nuove occasioni di crescita. Sarà la prossima Guerra dei trent’anni. Nessuno l’ha dichiarata ma è cominciata. Una guerra planetaria, continentale, nazionale, regionale, ma anche locale, che arriverà nei piccoli territori, nelle città, una guerra contro i migranti accusati di venire qui a rubare il lavoro.

Una guerra dei tedeschi contro i greci, gli spagnoli, gli italiani. Quella degli europei contro gli americani o degli americani contro i cinesi. Una guerra di tutti contro tutti. È questo il destino quando parliamo della sfida del lavoro oppure è possibile ricostruire un progetto unitario e riprendere in mano il filo di questo caos apparente?

Nel mondo ci sono 7 miliardi di persone, di cui cinque sono adulti di oltre 15 anni, cioè in età lavorativa. Di questi 5 miliardi,3 lavorano o vogliono lavorare ma qui nasce il primo problema. In questo momento nel mondo ci sono solo 1,2 miliardi di posti di lavoro con queste caratteristiche (full time, regolari e formalmente riconosciuti). Si apre così una voragine di 1 miliardo e 800.000 posti che mancano e andrebbero creati. Le stime dicono che il 50% di queste figure potrebbero non trovare una risposta al loro bisogno. Da questa realtà nasce la sfida per la stabilità del mondo. Come si fa a creare 1 miliardo e ottocento milioni di posti di lavoro?

Pensare che la soluzione sia nel dire: lavoriamo di meno e distribuiamo il lavoro che c’è rischia di essere una risposta parziale, che forse fa bene alle nostre latitudini ma non può essere la risposta globale. Delocalizzazione delle economie e spinte dei flussi migratori sono due variabili decisive.

Le delocalizzazioni sono il frutto di un mondo che si è fatto mercato e di un mercato che occupa tutto il mondo. In una prima fase la delocalizzazione rispondeva a una domanda di dumping economico (costo del lavoro più basso) e sociale (divieto di sciopero). Oggi quella domanda è rivolta alla ricerca di nuovi mercati di sbocco.

L’Europa conta il 7% della popolazione mondiale; i suoi scambi commerciali con il resto del mondo rappresentano circa il 20% delle esportazioni e importazioni mondiali, nella sola zona euro i disoccupati sono 20 milioni e arrivano a 27 in tutta l’Unione Europea. 4 milioni sono giovani sotto i 25 anni.

Se parliamo dell’Italia, la Cina ci ha superati nel 2000, il Brasile nel 2010 e quest’anno ci supera la Russia. 150 anni fa i primi paesi al mondo per produzione di ricchezza erano la Cina e l’India. Poi venivano il Regno Unito, gli Stati Uniti, la Russia. In poco più di quarant’anni la Cina è cresciuta di 30 volte, l’India di nove, gli Stati Uniti di sei, i paesi europei di circa quattro volte.

La tesi di Enrico Moretti è che l’economia americana ha retto grazie alle città high-tech (San Francisco, New York, Washington), al suo capitale umano, all’innovazione. Lui parla di tre Americhe. Quella tecnologica, la più ricca innovativa.

La vecchia America dell’industria manifatturiera.

L’America di mezzo, la più vasta, il cui futuro è a metà strada tra la crescita e la scomparsa economica e che deve scegliere se imboccare la strada dell’economia della conoscenza basata su altissimi livelli di istruzione e un uso intenso delle tecnologie.

Per ogni posto di lavoro high-tech (per esempio alla Apple) ne vengono generati altri cinque nei settori tradizionali. Non è questione di luoghi ma di ingegno, iniziativa, capitale umano. E sistema produttivo.

Noi non abbiamo tre Italia, ma almeno due. Nord e Mezzogiorno. Il fattore che fa la differenza oggi è quello dell’innovazione e della conoscenza, contano le persone e le loro idee.

Se è così la prima diseguaglianza da contrastare è quella che riguarda l’istruzione. La distribuzione geografica del lavoro si configura in base al profilo professionale.

Il diritto all’oro del futuro sarà sempre di più il diritto-dovere di servizi per il lavoro. Questo vale soprattutto in un paese dove ancora le relazioni personali e amicali contano più della certezza del diritto.
Bisogna pensare a un modello misto pubblico-privato che garantisca il miglioramento netto dei risultati. Serve un vero e proprio rinascimento dei centri pubblici e privati per l’impiego. Con nuovi modelli organizzativi.

I centri per l’impiego pubblici in Italia possono contare su 500 strutture portanti e più di 250 sportelli decentrati. L’obiettivo finale è in una unificazione di politiche attive e politiche passive che oggi sono separate.

In questo senso la separazione ha staccato gli ammortizzatori che sono diventati puramente passivi e le indennità quasi esclusivamente risarcitorie, dalle politiche attive e di ricollocamento vere e proprie. Mentre in altri paesi la tradizione vuole che politiche passive e attive, indennità e comportamenti anche individuali siano strettamente legati tra loro.

Il personale dei centri per l’impiego pubblici in Italia è rappresentato da 7-8mila operatori complessivi. In Germania ce ne sono 115.000, in Francia 49.000, nel Regno Unito 77.000.

In Italia il numero di disoccupati per operatore è 162 che diventano 564 se si considerano anche i Neet.

In Germania è uno ogni 27, in Francia uno ogni 59, nel Regno Unito uno ogni 43.

E’ clamorosa la sproporzione delle risorse investite per contrastare la disoccupazione.

Presso le agenzie private per il lavoro operano in Italia, con circa 2500 sportelli diffusi su tutto il territorio, circa 10.000 addetti. Manca spesso ogni forma di coordinamento tra la struttura privata e quella pubblica.

Ogni sportello dovrebbe offrire un colloquio di orientamento e un primo bilancio di competenza della persona. Indicare i percorsi possibili sia occupazionali che formativi. Ogni sportello dovrebbe anche avere a disposizione un monitoraggio dei posti di lavoro disponibili per qualifica nel territorio di competenza nei territori vicini, l’articolazione di percorsi incentivati e l’esistenza di norme agevolative per tutti i soggetti senza lavoro (incentivi fiscali, contributivi), insieme alle opportunità concrete di lavoro temporaneo o a tempo indeterminato. E anche percorsi di imprenditorialità praticabili. Serve una regia locale e una regia nazionale con l’ausilio di un portale a cui le persone e le imprese si collegano per avere servizi e informazioni utili.

Nelle graduatorie siamo piuttosto in basso per competenze linguistiche, alfabetiche, e matematiche. Delle competenze alfabetiche degli adulti italiani arriviamo solo a 250 (la scala va da zero a 500) contro una media OCSE di 273. Investire sulla formazione: bisognerebbe considerarlo o un totem e investire soprattutto della formazione continua.

Dal 1993 a oggi abbiamo assistito a una compressione di salari e stipendi rispetto al valore delle prestazioni lavorative rispetto al costo della vita.

Tra il 2001 e il 2011 oltre il 60% dei nuovi posti di lavoro è arrivato dalle piccole imprese con meno di 50 addetti, le grandi aziende hanno prodotto solo il 30% del totale dei nuovi assunti.

Le realtà con meno di 50 addetti costituiscono il 99,5% del totale delle aziende presenti in Italia e occupano oltre 11 milioni di addetti. Al netto dei lavoratori del pubblico impiego e dell’agricoltura, il 67% del totale degli addetti italiani presta servizio in una piccola o micro impresa.

L’Italia è prima al mondo per competitività in 3 settori (tessile, abbigliamento, pelli-calzature) e seconda, sempre dopo la Germania, in altri tre settori (meccanica non elettronica, manufatti di base, metalli, ceramiche e altri prodotti manufatti come occhialeria, gioielleria, articoli di materie plastiche). Siamo sesti nei prodotti alimentari trasformati. In queste categorie di prodotti realizziamo un export complessivo di oltre 300 miliardi di dollari con un surplus di 116 miliardi di dollari. A conferma che nonostante tutto abbiamo ancora delle eccellenze competitive a livello mondiale.

Insomma, c’è materia per mettere a punto un piano concreto di azione sulla vera emergenza del nostro tempo. Insisto: se la sinistra non riparte da qui da dove dovrebbe ripartire?

Ps di Gianni Cuperlo – 7 gennaio

Grazie dei commenti. Ok anche le critiche alla lunghezza, ma sapete che continuerò a usare questo spazio nel modo sbagliato. Scusatemi e leggete solo se vi va.

Ieri mattina sono andato alla Sapienza dove familiari, amici, colleghi rendevano omaggio a Tullio De Mauro. Poi ho sfogliato di nuovo la sua “cultura degli italiani”, l’intervista raccolta da Francesco Erbani e uscita da Laterza nel 2004. E’ ancora (sempre più direi) una miniera di suggestioni. Ne rubo un richiamo a don Lorenzo, “è la lingua che ci fa eguali”.

Volevo riprendere qualche nota sul tema lavoro e farlo a partire appunto dalla lingua. Ho recuperato degli appunti di vecchie letture e li metto in sequenza.

Buona giornata

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