Se otto ore vi sembran poche…

per Luca Billi
Autore originale del testo: Luca Billi
Fonte: i pensieri di Protagora...
Url fonte: http://ipensieridiprotagora.blogspot.it/2013/06/considerazioni-libere-367-proposito.html

di Luca Billi 2 maggio 2016

Domenica Primo Maggio, la Rai – che evidentemente ogni tanto ricorda di essere servizio pubblico – ha trasmesso senza pubblicità, seppure in una rete minore, il film del 1963 I compagni di Mario Monicelli. Vi consiglio di vederlo o di rivederlo.
Il film racconta le lotte degli operai di una fabbrica tessile nella Torino di fine Ottocento. E comincia con la richiesta di ridurre l’orario giornaliero di lavoro da 14 a 13 ore. Tra i molti spunti attuali forniti da quella sceneggiatura c’è quello dell’orario di lavoro, che rimane ancora un tema, anche se per ragioni diverse da quelle di oltre un secolo fa.

Risultati immagini per I compagni di Mario Monicelli

“I miglioramenti tecnici nei settori manifatturiero e dei trasporti sono proceduti negli ultimi dieci anni con tassi molto superiori a quelli registrati precedentemente nella storia. […] Nel giro di pochissimi anni, intendo dire nell’arco della nostra vita, potremmo essere in grado di compiere tutte le operazioni dei settori agricolo, minerario, manifatturiero con un quarto dell’energia umana che eravamo abituati a impegnarvi. Per il momento, la rapidità stessa di questa evoluzione ci mette a disagio e ci propone problemi di difficile soluzione. I paesi che non sono all’avanguardia del progresso ne risentono in misura relativa. Noi, invece, siamo colpiti da una nuova malattia di cui alcuni lettori possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni: vale a dire la disoccupazione tecnologica. Il che significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera.”; John Maynard Keynes scriveva queste cose nel 1930.

Se questo ragionamento valeva per il decennio tra il 1920 e il 1930, cosa dovremmo dire adesso, dopo la rivoluzione informatica? Keynes leggeva questo progresso come una dinamica positiva della storia dell’uomo, tanto da immaginare che dopo un secolo gli uomini avrebbero lavorato molto meno di quanto avveniva nella sua epoca: soltanto “turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici”. E’ passato ormai quasi un secolo da quelle parole e, con tutta evidenza, siamo ancora piuttosto lontani da quell’obiettivo, nonostante gli attuali progressi della scienza e della tecnologia sarebbero apparsi a Keynes come un racconto di fantascienza. Seguendo il ragionamento di Keynes, potremmo pensare che la disoccupazione non sia una sorta di calamità – come troppe volte siamo portati a pensare o meglio come ci fanno pensare – ma un elemento imprescindibile dello sviluppo economico capitalistico. Ossia non è soltanto colpa della crisi – che certo ci ha messo del suo – se adesso c’è un livello così alto di disoccupazione, specialmente giovanile, ma si tratta di un elemento inevitabile dei processi economici come si sono sviluppati fino ad ora. Vedete chiaramente che accettare questa tesi cambia in maniera radicale la prospettiva con cui possiamo affrontare un tema fondamentale come quello del lavoro e specialmente della sua mancanza.

In un secolo l’orario di lavoro – dove è regolamentato e quindi escludendo gran parte del pianeta – non è certo quello incautamente profetizzato da Keynes, ma soprattutto è rimasto quello di quegli anni, anche se la produttività, come l’economista aveva in questo caso giustamente previsto, è enormemente aumentata, con la riduzione dell’energia umana impiegata per unità di prodotto. Questo incredibile aumento di produttività ha alimentato i profitti e le rendite, visto che la quota destinata ai salari nel pil è scesa in tutti i paesi occidentali in questi ultimi vent’anni: in sostanza il nostro lavoro produce più ricchezza, ma di questa godono solo alcuni e certamente non noi. L’impoverimento da un lato e la necessità di mantenere comunque costante la domanda ha comportato la crescita del debito e qui siamo alla crisi di questi anni, di cui non vediamo purtroppo la fine.

E se cominciassimo a lavorare meno? Che impatto avrebbe la riduzione dell’orario di lavoro, naturalmente a salario invariato, sull’occupazione? Io non so rispondere in maniera precisa a questa domanda, ma credo sarebbe una strada da tentare. Io vorrei che il nuovo partito di sinistra a cui spero dovremo cominciare a pensare – specialmente in Italia dopo il suicidio della sinistra – provasse a ipotizzare questo tema. O che almeno ci provasse il sindacato, spero quello in cui io milito. La questione non è tanto quella racchiusa nello slogan “lavorare meno, lavorare tutti”: questa può essere la soluzione transitoria per una crisi aziendale, durante la quale per non lasciare a casa qualche lavoratore tutti gli altri possono accettare dei sacrifici, a partire dalla riduzione dell’orario di lavoro. Ridurre in maniera generalizzata l’orario di lavoro, almeno per equiparare il settore privato a quello pubblico, potrebbe favorire l’assunzione di nuove persone, che in questo modo riuscirebbero a entrare in un mondo che adesso è loro precluso.

Tutto invece sta andando nella direzione opposta. Il governo Monti – con i voti di Bersani – ha fatto una riforma del mercato del lavoro tutta tesa ad allungare i tempi del lavoro, ad esempio aumentando ulteriormente l’età in cui le persone possono andare in pensione. Inoltre le aziende chiedono interventi per tassare meno gli straordinari e si è cercato di far lavorare più ore una parte dei dipendenti pubblici, in particolare quelli della scuola. E se invece defiscalizzassimo la riduzione dell’orario di lavoro? Anche coloro che sostengono la necessità di tornare al pensiero di Keynes dicono che occorre creare nuovo lavoro, il che è possibile solo grazie all’intervento diretto dello stato, come è avvenuto negli Stati Uniti durante la presidenza Roosvelt o nei paesi europei dopo la seconda guerra mondiale. Certo questo è importante – e Keynes diceva che questa doveva essere la soluzione praticabile nel tempo più breve – ma questo da solo non risolve il problema di fondo, ossia che serve sempre meno tempo e meno energie per fare qualsiasi cosa.

C’è poi un’altra riflessione: cosa ci è servito questo progresso se non riesce a liberare gli uomini dal tempo del lavoro e dalla fatica? Se non ci permette di avere più tempo per studiare, per stare con la nostre famiglie, per divertirci o semplicemente per riposare? Che senso ha questo progresso se non riesce a distribuire in maniera equa il lavoro e la ricchezza?
Keynes pensava, sbagliando, che la crescita della ricchezza sarebbe stata equa, perché questo aumento avrebbe inevitabilmente reso “sempre più vaste […] le categorie e i gruppi di persone che in pratica non conoscono i problemi della necessità economica”. Non è andata così, anzi sta andando tutto nella direzione opposta perché la crescita del benessere si concentra in una fascia sempre più ridotta di persone. E’ qui il nodo che va spezzato, evidentemente rifiutando la logica del mercato – la logica anche di Keynes – che è in sé incapace di redistruibuire la ricchezza. Questo è un compito che dobbiamo assumerci noi.

Risultati immagini per I compagni di Mario Monicelli

Babelezon bookstore leggi che ti passa

Articoli correlati

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.