Il contrappasso dei nostri sovranisti, per Trump siamo tutti “clandestini”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Flavia Perina
Fonte: La Stampa

Il contrappasso dei nostri sovranisti, per Trump siamo tutti “clandestini”

Non ci sono più Statue della Libertà, solo paure. L’Occidente ricorda il mondo oltre il Muro di Berlino

Un gioco di specchi. Svegliarsi e scoprirsi potenziali clandestini, potenziali indesiderati, potenziali espulsi, forse potenziali deportati nel carcere simbolo della detenzione a tempo indeterminato senza accusa né processo: Guantanamo, isola di Cuba. Italiani, tedeschi, francesi, europei in genere, i popoli dell’orgoglio civilizzatore, quelli che da anni accarezzano il racconto sovranista: fuori da qui i contaminati, i paria, i fuoricasta, remigriamoli anche se hanno i documenti in regola, e se non li hanno ammucchiamoli in Ruanda, in Albania, ovunque lontano dai nostri occhi e dalle garanzie legali che obbligano a faticose gestioni. Un gioco di specchi: per l’America quei fuoricasta siamo noi. Per l’America c’è o ci potrebbe essere un viaggio a Guantanamo anche per le migliaia di cittadini del vecchio Continente che sono lì senza un visto, o in attesa del rinnovo di un visto, o soltanto per la sbadataggine dei vent’anni che dopo una vacanza suggerisce di fermarsi ancora un po’ e vedere che succede. Clandestini, tutti.

Le rivelazioni del Washington Post e di Politico sugli 800 europei in via di espulsione destinati al centro di detenzione cubano sono state genericamente smentite dalla Casa Bianca – «fake news» – ma i due casi di italiani già cacciati per difetto di permesso, uno appena rientrato e l’altro chissà dove (un carcere? Una gabbia?) dicono due cose molto chiare. La prima: l’America sovranista non fa più differenze tra i disperati in fila al confine messicano e un parigino, un berlinese, un madrileno, un milanese, e ci manda a dire che avremo tutti lo stesso trattamento perché tutti siamo minacce al “Great Again” fondato sullo sgombero dello straniero parassita, senza andare troppo per il sottile. La seconda ha a che fare con la legge del contrappasso, perché questa ennesima svolta trumpiana chiama in causa soprattutto le forze europee che il “Great Again” lo hanno adottato, fatto loro. Quelli che solo pochi giorni fa hanno negato agli irregolari in Italia persino il diritto a una scheda telefonica per chiamare i parenti. Quelli che in Germania e Francia hanno sposato il concetto di remigrazione, e cioè la cacciata pure degli immigrati regolari attraverso forme di ostilità sociale e persecuzione burocratica che li induca a dire: beh, meglio andarsene.
Signori, e adesso? Matteo Salvini difende come è ovvio il diritto di Donald Trump alla salvaguardia dei confini. Ma è un caso limite, non fa storia, aveva brindato pure ai dazi come opportunità per l’Italia: è un parlare oltre ogni logica. Gli altri al gioco di specchi non possono sfuggire. E infatti ci sono ore di caos e confusione. Antonio Tajani rassicura, chiede un appuntamento telefonico a Marco Rubio, lo ottiene per oggi, nel frattempo promette che nessun italiano passerà per il carcere speciale ma fino alla smentita da Washington si capisce che la notizia di un’estensione agli europei del “trattamento Trump” viene data per credibile. Infatti anche i tedeschi si agitano, pure loro giurano che si riprenderanno tutti gli espulsi, non c’è bisogno di farli passare per un carcere famoso per la sistematica violazione persino delle regole di Ginevra sui prigionieri di guerra, e figuriamoci delle ordinarie regole del codice penale. Solo dopo quella frase – “fake news” – si tira un sospiro di sollievo, e basta questo per capire in quale stato miserando siano le relazioni atlantiche, con le Cancellerie costrette ad aspettare un tweet per capire cosa sta succedendo.

Ma le domande che ci riguardano restano. Quei due italiani, e poi gli altri 798 europei destinati a un rimpatrio coatto senza processo e possibilità di ricorso, come li giudicheremo? Clandestini, abusivi, feccia, oppure persone che hanno creduto alla libertà di provarci in un Paese che pensavano amico? Nel primo caso neanche si dovrebbero attivare le risorse consolari, hanno sbagliato, paghino, magari pure a Guantanamo che tutto sommato è soltanto un’Albania più grande, se la sono meritati. Nel secondo si dovrebbe ammettere che non tutti gli irregolari meritano la tagliola dell’espulsione, che un visto scaduto o mancante magari è solo l’effetto di un problema burocratico, di norme inadeguate, e non sinonimo di delinquenza.

Poi, ecco, si dovrebbe dire anche dell’America che una volta era la fiaccola di Lady Liberty – il suo titolo completo è “la libertà che illumina il mondo” – ed Ellis Island, dove l’Europa povera degli italiani, degli irlandesi, dei polacchi, trovò per decenni un approdo certo e una speranza. Ma sono favole d’altri tempi. Nel gioco di specchi dell’oggi noi cacciamo loro e quegli altri cacciano noi. Non ci sono più torce risplendenti nella notte ma soltanto paure, persino dove l’accoglienza regge ancora. In California arriva la Guardia Nazionale, arrivano i Marines, la tolleranza non è più consentita e il sindacalista che si siede davanti al blindato per fermarlo è arrestato, rischia sei anni di carcere (dice niente all’Italia che ha appena introdotto il reato di resistenza passiva?). Occidente, dicono. Ma comincia a somigliare ad altre cose, quelle che una volta accadevano dall’altra parte del Muro di Berlino.

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