Autore originale del testo: Alfredo Morganti
Il redde rationem del PD: o di qua o di là.
Ci siamo. La guerra, anche solo evocata, anche solo immaginata, anche solo retoricamente sdoganata, non lascia più nulla com’era. I nodi vengono al pettine, le contraddizione esplodono, le chiacchiere non bastano più. Il voto al Parlamento europeo, con l’ammutinamento di mezzo gruppo parlamentare (“riformisti”, centristi, pezzi di territorio) è solo il culmine finale, il segnale ultimo, di una slavina politica che ha origini ventennali. C’è poco da fare, fin quando la politica è amministrazione, tecnica, schermaglia, spartizione, va tutto bene, tutto può riplasmarsi, hanno tutti ragione, i testa a testa si gestiscono. Poi però arriva il bivio della guerra (che non significa solo conflitto senza se e senza ma, ma anche economia di guerra, anche dirottamento di fondi di bilancio dalla spesa sociale al riarmo, anche subbuglio sociale e culturale e nuove povertà, anche rottura di vecchie forme e annuncio di nuove) e a quel punto c’è poco da imbellettare e persino da immaginare scenari chissà quali. La guerra implica decisione, rottura, scissione (letterale). Si alzano muri, si aprono abissi, si ragiona nell’immediato, si scelgono le vie brevi. Per dire. Una tale Picierno ha detto ieri, all’incirca, che il momento delle decisioni irrevocabili è arrivato, e «la linea di demarcazione della politica europea è definita dalla difesa delle democrazie liberali e dall’europeismo. O di qua o di là». Più chiaro di così, si muore. E difatti.
La decisione ha tagliato in due anche il PD, con il gruppo parlamentare europeo scisso al voto. Un taglio netto che ha distinto con immediata chiarezza i “riformisti” dagli schleiniani (termine complicato anche solo da pronunciare), ribadendo con chiarezza quello che serpeggia da sempre nel partito – e che sul tema caldo, fondamentale, della politica internazionale e della guerra è emerso con prepotenza. Il PD è un non-partito, elegge il proprio segretario alla bene e meglio, facendo partecipare chiunque voglia al voto, ed è anche per questo che il mandato popolare non coincide con la cerchia istituzionale-parlamentare del partito stesso e con quanto esprimono i cosiddetti “territori”. Sicché c’è il PD vox populi del segretario, ma-anche quello dei gruppi parlamentari, quello dei cacicchi delle tessere, quello degli eletti locali, quello rappresentato nei media, quello della Schlein e quello della tal Picierno di cui sopra. Una frammentazione deleteria quando si tratta di fare politica davvero, non nell’ambito di un condominio, ma nel mare magnum dei rapporti tra gli Stati, delle relazioni internazionali, della pace e della guerra appunto. Alla prima ventata di disordine internazionale e di ridisegno dei poteri tutto si è sciolto, anzi scisso tra le componenti base dell’organizzazione e nei suoi costituenti chimici, mai davvero combinati assieme. E badate che non si trattava nemmeno radicalmente di un sì contro un no, ma di un sì contro un nì. E questo tanto più lascia esterrefatti.
Che fare? Continuare nella retorica dell’unità di partito, affidarsi ancora alle mediazioni estemporanee, o peggio all’orgoglio di organizzazione? Oppure sciogliere i nodi, pervenire a un redde rationem, che è già nelle cose ed è assurdo ignorarlo? Ci sono voluti quasi venti anni e una guerra in corso per pervenire a un chiarimento. Meglio sarebbe stato averlo fatto prima, ma tant’è. Anche perché qui non si tratta di un semplice scontro ideologico tra culture politiche diverse e mal assortite. No, qui la scissione è pratica, di posizionamento politico in senso trasversale rispetto alle vecchie culture politiche novecentesche, qui (semplifico per capirci) abbiamo centristi versus sinistra democratica. Con ex DC ed ex PCI collocati sia da una parte sia dell’altra della barricata. Punto. Che convivono alla bene e meglio quando si tratta di spartire dei posti in lista, ma che si azzannano nell’ora delle decisione irrevocabili sulla pace, sulla guerra, sui destini dell’umanità, sul riarmo, su chi debba vincere e chi debba morire, e sul conflitto di base tra ricchi e poveri, e dunque sui valori della solidarietà, della cura, dell’accoglienza, sul dialogo o sui muscoli, sulla fratellanza e il negoziato, oppure sulla individuazione dell’Hitler di turno per poter fare un macello come in Iraq, ammazzare 600.000 disgraziati e poi sedere al tavolo della ricostruzione con la delega in tasca di qualche impresa, mentre attorno è un deserto di umanità.
Che fare? Un congresso vero, di quelli dove si chiamano gli iscritti a discutere e decidere, dove non si invitano i passanti ricompensati con un pacco di pasta, dove è tutto nelle mani dei militanti. È nell’interesse di tutti che esista un partito vero, non una variegata accozzaglia, tipo la manifestazione-specchio del 15 marzo. Basta passanti, basta “società civile” o cos’altro, giocatevela in casa vostra, parlatene tra voi per davvero, discutete davvero, decidete davvero, ma fateci capire di che fine deve morire la sinistra italiana, almeno dal vostro punto di vista. Noi saremo attenti ad ascoltare e a giudicare. Ma basta avvitamenti, chiacchiericcio, caminetti, segretari spuntati dal nulla, Pine Picierno che tuonano come se ne avessero davvero l’autorità e “riformisti” che anelano al riarmo come già cento anni or sono, mentre la sinistra interna balbetta spaesata. Sennò vorrà dire che non avrete avuto nemmeno un minimo sindacale di amor proprio. E che la pace e la guerra vi spazzeranno via. Ok, va tutto bene, ma allora ditelo!