L’Amore per posta – Cesare Pavese e Fernanda Pivano

per Gian Franco Ferraris

Tema: Descrivete come passate le vacanze e quali sono i vostri propositi per l’avvenire

Come sono belle le nostre passeggiate in bicicletta per i dintorni di Torino! Telefono tutte le mattine appena sveglio al mio amico Nando, e ci vediamo poi alle dieci e mezzo, ora nella quale scende infallibilmente. Mi piace quando lo vedo sbucare dal portone, quasi sempre con un vestito diverso dall’ultima volta, ma i colori che in lui preferisco sono il bianco e il rosso vivo, e trovo che gli stanno tanto bene. Allora inforchiamo le biciclette, e Nando, che è più ordinato di me, si rimbocca sempre i calzoni con cura. Ci dirigiamo verso i dintorni di Torino, e pedalando con quanto fiato abbiamo in corpo parliamo soprattutto dei nostri studi, perché noi durante le vacanze riprendiamo sovente in mano i libri, e a Nando in modo speciale piace ritornare con il pensiero ai bei giorni che trascorremmo in scuola. Io frequento Nando perché so che da lui posso imparare mille cose buone: mai dalla sua bocca escono frasi sconvenienti né quelle sudicerie che purtroppo avvelenano l’anima di tanti ragazzi della nostra età. Con Nando parliamo invece di ricordi di scuola e dei nostri professori, e, pur sapendo, che non bisogna godere del male di nessuno, qualche volta facciamo grandi risate insieme, al pensiero di quei nostri compagni che, non avendo studiato durante l’anno, ora devono trascorrere le vacanze in una stanza buia a preparare gli esami di riparazione. Com’é bello essere stati promossi! Ma Nando mi fa anche delle confidenze, specialmente dopo una lunga pedalata, quando balziamo di sella sul ciglio della strada, e ci sediamo su un muricciolo al margine del bosco, che é ormai il “nostro” muricciolo. Restiamo così sul margine della strada, e bene in vista, perché che cosa direbbero i passanti se ci vedessero scomparire tra le piante? Del male bisogna evitare anche l’apparenza, e la gente é già troppo disposta a malignare. Se due ragazzi si nascondono, “ecco” dice il mondo “ne combinano qualcuna, chi sa una monelleria o anche qualcosa di più grave”. E noi abbiamo deciso, una volta per sempre, di non nasconderci e di fare ogni cosa alla luce del sole.
Ma dicevo che Nando mi fa delle confidenze e io gli faccio le mie, e questo ê uno dei momenti più belli dell’amicizia. Nando mi dice cose che mi lasciano sbalordito, perché intelligente e pieno di cuore com’è, vorrebbe tranquillizzare i suoi genitori e mettere se stesso al riparo dai pericoli della vita. Insomma, parla di sposarsi e gli pare di aver perso già troppo tempo. Io gli dico che aspetti almeno un altr’anno e finisca prima la scuola, ma Nando comincia ad affannarsi e dice che vuol fare come dice. Io so bene che tutti noi ragazzi abbiamo di queste idee bizzarre perché stiamo appunto attraversando l’adolescenza che è già un’età piena di pericoli e di tentazioni, e fortunato chi se la può cavare come c’è la caviamo io è Nando! Ma l’idea di sposarmi, a me non era mai venuta. Gli domando allora sorridendo se già sa chi vorrebbe sposare e cerco di distrarlo come vuole l’amicizia, ma Nando si fa pensoso e i suoi occhi castani si abbassano al livello stradale: “È una scelta difficile, – mi dice, – si tratta di tutta la vita”. E mi espose una sua idea che mi colpì. Egli vorrebbe che nella scuola accanto ai corsi soliti, che frequentiamo ce ne fosse anche uno di fidanzamento, con un professore buono e paterno, come quello che c’impartisce le lezioni d’italiano o come il nostro signor preside, e che il programma fosse distribuito in modo che, senza distrarre gli scolari dalle altre materie, alla fine dell’anno chi si è applicato con profitto e volontà si trovasse sposato. “Pensa come sarebbe bello!” Mi dice. Non vorrebbe però professoresse, e qui lo approvo, perché le donne di qualunque condizione o età non possono che fare del male ad un adolescente. Qui devo confessare un mio pensiero, e lo faccio perché il nostro professore non si stanca di inculcarci la sincerità, soprattutto con noi stessi. Il pensiero è questo: che vorrei cambiare sesso ed essere una compagna di Nando per poterlo sposare io, tanto gli voglio bene. Ma penso che, se fossi una ragazza, non avrei l’occasione di andare con lui in bicicletta, e allora è meglio che sia così e che siamo amici. Tanto più che Nando cambierà certo idea, perché ha tanta vita ancora davanti a sé, e gli dico allora di pensare a studiare, che così compenserà la famiglia ed i professori dei sacrifici che fanno per lui, e un bel giorno saranno i suoi genitori a trovargli una moglie. Allora Nando fa le boccacce, ma è tutto contento.
Com’è bello attraversare in bicicletta la campagna! Le margherite dei prati ci ammiccano e c’invitano, la strada corre liscia tra il verde, e il cielo azzurro riflette la serenità dei nostri pensieri. Qualche volta passano altri gitanti – soldati, operai o famigliole – e sempre quando ci vedono gettano un urlo giocondo che ha il potere di far chinare Nando sul manubrio e di farlo arrossire di felicità.
Ma mi accorgo che voi non conoscete ancora Nando e, prima di concludere, voglio descriverlo. È un ragazzo simpatico e intelligente che, visto di profilo, pare già un uomo fatto, e di faccia invece è giovanissimo, perché ha due grandi occhi che si stupiscono sempre. È sempre molto pulito e ravviato, non come me che dimentico qualche volta di pettinarmi. Solamente a vederlo, io mi sento più buono e volenteroso, e prometto che per essere degno di lui sarò sempre studiosissimo e quest’altr’anno, se il diavolo non ci mette la coda, farò un esame coi fiocchi! Così potremo di nuovo trascorrere insieme le nostre vacanze e impareremo tante cose e saremo felici.

Cesare Pavese – Torino, 22 agosto 1940

Scherzoso tema scolastico, scritto da Pavese su fogli protocollo a righe coi margini, che mette in gioco le conversazioni con Fernanda (Nando) Pivano conosciuta/frequentata quella estate. Traspare l’affettività di Pavese e anche quella “sessuofoba” di Fernanda Pivano. Anni dopo Pavese chiese a Fernanda Pivano di sposarlo, senza aver mai tentato di baciarla nè di sfiorarle la mano.

Pavese nominò per la prima volta Fernanda Pivano nel suo diario il 26 luglio del 1940 con il nomignolo di Gognin, che in piemontese vuol dire “musetto” , ma in realtà si erano già conosciuti nel 1935, quando il ventiseienne Cesare Pavese viene nominato supplente di italiano del Liceo Classico “D’Azeglio” di Torino, tra le allieve c’è Fernanda Pivano. È lei stessa a raccontare nei Diari 1917 – 1973 (editi da Bompiani) il primo incontro con quel professore «giovane giovane» . “Era diverso dagli altri: lui ci faceva leggere i canti di Dante e ce li spiegava, gli altri insegnanti ce li facevano solo imparare a memoria. Ricordo, come se fosse ieri, le lezioni su Guinizelli. Lui era talmente innamorato della trasformazione artistica di questo autore che spiegandocelo ci lasciava senza fiato. E io mi sono appassionata, in modo forse sproporzionato, agli autori che Pavese leggeva. Li leggeva ad alta voce, in modo incantevole, fino a farli entrare nel cuore.” Accusato di antifascismo, Pavese venne arrestato il 15 maggio del ’35 e poi condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro. Si incontrarono di nuovo nel 1940 sempre Fernanda Pivano nel diario scrive: “…Vivevo dalla cintura in su, anche se poi avevo schiere di pretendenti, sapete, ero bella, virtuosa, e ancora non si diceva che virtuosa era uguale a donna noiosa.
Insomma un giorno Cesare Pavese viene a trovarmi in piscina con Norberto Bobbio. Avevo un bel costumino di seta rossa, carino, che veniva da Vienna, e loro mi hanno chiesto che cosa facevo. E io: “Sono stata bocciata insieme a Primo Levi”. E giù a ridere come pazzi tutti insieme, perchè era una cosa ridicola. Da loro prendevamo voti alti, e poi vederci bocciare con dei due e tre, era una cosa strana. Allora Pavese mi ha chiesto: “Cosa avete fatto, come mai? Cosa ha scritto lei?”. E io: ” Ho detto che quando i soldati tornano dalla guerra non è vero che dobbiamo ringraziarli perchè hanno ammazzato il nemico. Ho detto che bisognava mettere dei fiori nei loro fucili, così non potevano più uccidere nessuno”. In pieno impero etiopico non era il caso di fare un tema così. E poi Pavese ha detto: “Che cosa ha fatto all’università?” Ed io: “Ho chiesto una tesi di inglese. Me ne hanno dato una su Schelli, noiosa”. E lui: “Ma perchè non l’ha chiesta di letteratura americana?”. Ed io ho fatto la domanda fatale, che mi ha fregato per tutta la vita: “Che differenza c’è?” Allora lui si è messo a ridere e mi ha detto: “Lei non sa che io sono quello che ha introdotto in Italia la letteratura americana?” E io lì come un’oca.
Quella sera lui mi ha lasciato in portineria quattro libri che erano: Addio alle armi di Ernest Hemingway, Antologia di Spoon River di Edgard Lee Masters, l’autobiografia di Sherwood Anderson e Foglie d’erba di Walt Whitman. Lui non poteva fare una scelta più precisa, più giusta. E io quella sera ho aperto il libretto dell’Antologia di Spoon River alla pagina di Francis Turner dove diceva… non mi ricordo adesso la poesia a memoria… ma insomma diceva: “Io da bambino non potevo nè correre nè giocare perchè avevo avuto la scarlattina”. Oppure: “Un giorno baciando Mary con l’anima sulle labbra, l’animo d’improvviso mi volò via…” E io mi sono innamorata di questa cosa, Dio santo. E non sapevo niente di questa antologia, però me ne ero pazzamente innamorata. E senza dire niente a Pavese, mi ero messa a tradurla. Mai, in quel momento, avrei potuto immaginare di vivere facendo il lavoro del traduttore, non sapevo neanche che esistesse questo lavoro…”.

Iniziò così la lunga amicizia tra lo scrittore e la futura traduttrice. Per Pavese fu anche la storia di un amore non corrisposto, anche se pare soprattutto un amore per corrispondenza, un amore sublimato. Tra le numerose lettere che Pavese scrisse alla Pivano in quegli anni ne spicca una in cui, con acutezza e ironia, descrive se stesso:

Analisi amorosa di P.

P. è senza dubbio un uomo insolito, ciò che non vuole ancora dire un uomo che valga.   Ha i tratti più evidenti del raté – mancanza di una routine sociale e facilità a disancorarsi — ma ha insieme una capacità di concentrarsi su un singolo oggetto – lavoro o passione – che gli ha permesso, pur nel disorientamento intermittente, di realizzare qualche risultato e qualche sicurezza di sé.   La sua tendenza fondamentale è di dare ai suoi atti un significato che ne trascenda l’effettiva portata; di fare dei suoi giorni una galleria di momenti inconfondibili e assoluti. Nasce di qua che, qualunque cosa dica o faccia, P. si sdoppia e mentre pare prendere parte al dramma umano, altro intende nel suo intimo e già si muove in una diversa atmosfera che traspare nelle azioni come intenzione simbolica. Questa, che parrebbe doppiezza, è invece un inevitabile riflesso della sua capacità di essere – davanti a un foglio di carta – poeta. Per quanto P. sia convinto che arte e vita vanno tenute nettamente distinte, che scrivere è un mestiere come un altro.   come vendere i bottoni o zappare, non gli riesce di prendere la sua esistenza altro che come un gigantesco spettacolo che lui recita. Ma chi paragona la vita a uno spettacolo, solitamente sottintende che lo spettacolo non va preso sul serio, che la vita è una menata, e cose simili. A P. succede invece di recitare terribilmente sul serio, di scatenare in ogni scena importante della sua vita tanta pienezza passionale e tanto fervore di chiarezza rivelatrice, che in sostanza ha tutta l’aria di un poeta tragico che salga tra i suoi personaggi a uccidere o farsi uccidere.   Ma chi dice spettacolo, dice pubblico. Qui è la tara oscena e inconfessata di P. Da studente P. in una sera di sbornie, si senti cosi trascurato e non applaudito, che per strada fra un gruppo di amici scelse di lasciarsi cadere in terra come un sacco, al solo scopo di essere lui il centro dell’attenzione. Ricordo che, rimesso in piedi e sostenuto, piangeva per la rabbia di non essere stato abbastanza « pietoso ».   Ora, P., che senza dubbio è un solitario perché crescendo ha capito che nulla che valga si può fare se non lontano dal commercio del mondo, è il martire vivente di queste contrastanti esigenze. Vuol esser solo – ed è solo -, ma vuol esserlo in mezzo a una cerchia che lo sappia. Vuole provare — e prova – per certe persone quei profondi attaccamenti che nessuna parola esprime, ma si tormenta giorno e notte e tormenta queste persone per trovare la parola. Tutto ciò è, senza dubbio, sincero, e per disgrazia s’intrica con l’esigenza espressiva della sua natura di poeta. P. chiama anzi tutto ciò bisogno di espressione, di comunicazione, di comunione; e la sua mancanza, tragedia della solitudine, incomunicabilità delle anime, e via dicendo.   Che potrà fare un uomo simile davanti all’amore? La risposta è evidente. Nulla, cioè infinite cose stravaganti che si ridurranno a nulla. Una volta che sarà innamorato, P. farà esattamente ciò che gli detta la sua indole e che è appunto ciò che non va fatto. Lascerà capire, innanzi tutto, di non essere più padrone di sé; lascerà capire che nulla per lui nella giornata vale quanto il momento dell’incontro; vorrà confessare tutti i pensieri più segreti che gli passeranno in mente; dimenticherà sempre di mettere la donna in posizione tale che essa lasciandolo si comprometterebbe. Questa, che è la prima elementare precauzione del libertino (il solo che applichi con impeccabilità la strategia amorosa), in P. invece si rovescia addirittura. P. si dimentica d’innamorare di sé la donna in questione, e si preoccupa invece di tendere tutta la propria vita interiore ver¬ so di lei, d’innamorare di lei ogni molecola del proprio spirito, di   tagliarsi insomma tutti i ponti dietro le spalle. Cade qui a proposito la sua confessione che, quando è innamorato, lui vive nella fisica impossibilità di avvicinare altre donne – debolezza questa che nessuna donna, neanche l’amata perdona. Perché tanta ingenuità? £ evidente: P. fa sul serio, recita sul serio, e si monta come l’attore di vecchia scuola o come quel trageda dannunziano che voleva che nemmeno la maschera dorata di un suo Atride fosse di « metallo vile ». Ecco la mania di assoluto, di simbolismo, che si diceva in principio. P. gioca ( plays ) fino in fondo la sua parte amorosa, primo per il suo bisogno feroce di usare dalla solitudine, secondo per il bisogno di credere totalitariamente alla passione che soffre, per il terrore di vivere un semplice stato fisiologico, di essere soltanto il protagonista di un’avventuretta. P. vuole che ciò che prova sia nobile-, significhi, simboleggi una nobiltà sua e delle cose; diventi un idolo, insomma, cui valga la pena di sacrificare anche la vita, o l’ingegno – che sa di avere grande.   Ma chi gli chiede di sacrificare l’ingegno o la vita? Quale donna, chiede a un uomo di perdere assolutamente ogni staffa e ogni puntello, e amarla con l’intensità cosmica e inutile di un temporale d’agosto? Quale donna se non la vamp? E difatti P. ha il dono di trasformare verso se stesso in vamp ragazze che non se lo sognavano neppure. In un primo tempo, le trasforma in vamp e si fa rovinare tutto il rovinabile; poi, quando le macerie sono cadute e lui si ritrova solo, gli accade che la vamp prova rimorso e torna a cercarlo, con un gesto malinconico e materno. P. allora si vergogna e s’infuria, e ritorna alla sua solitudine. Naturale tragedia: tutti gli amori ottiene, o può ottenere, P. dalle donne, meno l’unico cui, come tutti i ratés, lui anela veramente dal fondo del cuore: l’amore di una moglie.   Questo desiderio feroce di una casa e di una vita che non avrà mai, affiora in un’orgogliosa sentenza che P. pronunciò un giorno nel forte della sua nota e ormai famosa passione. « Le uniche donne che vale la pena di sposare, sono quelle che non ci si può fidare a sposare». Qui dentro c’è tutto: la vamp e la furia, la moglie e il sogno incrollabile. A questo sogno P. è, come dire, crocifisso, e niente è più patetico degli scossoni che dà per schiodarne le mani. È perché si sa inchiodato in questo modo, nell’impossibilità sia di muoversi che di ripararsi, che ogni avvisaglia di nuova passione lo fa tremare. P. ha una forte fantasia e gli basta rappresentarsi se stesso in un’immagine dolorosa – come questa – per risentirne fisicamente le torture. Solitamente accade che l’esasperata sensibilità dei tipi come P. ha però il fiato corto, e sia le fantasie che l’intera passione divampano e finiscono presto. Ma P. non è un tipo comune. Anni fa, quest’immagine della croce se la portò nei nervi per più di tre mesi continui, insieme a quella che lui chiama dello sradicamento – il senso di avere il petto e il cuore lacerato e sanguinante per lo strappo violento delle mille radici che una donna vi aveva messo. Così accade per la passione nel suo decorso, ed è del resto naturale. La stessa esigenza di simbolica nobiltà che vale nella genesi degli affetti di quest’uomo, si fa valere nella loro forza di durata e, del resto, P. getta loro inconsapevolmente tali basi, che a fatica li può distruggere l’acido stesso della loro dimostrata inutilità. Qui occorre tener presente che in P. una passione s’intrica con la sua poesia, diventa carne di poesia, e come tale gli s’identifica col linguaggio, con lo sguardo, col respiro della fantasia.   In un lungo periodo, P. raggiunse una sua stoica atarassia attraverso la rinuncia assoluta a ogni legame umano, se non quello, astratto, dello scrivere. Si sentiva come intontito e chinava il capo, e cercava di scrivere. Ma di mese in mese e di anno in anno scriveva sempre meno la vita in lui si prosciugava. Diventava un fantasma. Pure P. teneva duro, perché sapeva che un franamento verso le creature, verso qualunque creatura, sarebbe stato soltanto una ricaduta, non una rinascita. Altro suo detto memorabile è « tutto o niente » – « Aut Caesar aut nihil » – P. non si ferma a mezza strada.   Invece avvenne il franamento, e P. cercò di fermarsi a mezza strada, e non ci riuscì. Adesso sconta ogni istante della fittizia solitudine che si era creata. La vita si vendica con una solitudine vera. Sia come vuole la vita.

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Cesare Pavese
Nella foto: Lo scrittore CESARE PAVESE fotografato sulla collina torinese.
NEG- 11751?

Nella minuta a questo finale è stata aggiunta per tre volte e per tre volte cancellata la frase « sia come vuoi tu».

Questa lettera porta la data del 5 novembre del 1940, Pavese confessa a Fernanda Pivano “Racconto, in questi fogli, cose vergognose, che lei capirà bene che non glieli do per nessun secondo fine. Glieli do per amicizia, perchè sono anche, e molto, Suo amico.” Aggiunse che “le docce fredde” bisogna darle soprattutto a se stessi. Di fatto è stata una maniera per giustificare e scusarsi di una lettera di qualche giorno prima che aveva inviato alla Pivano:

[Torino,] 20 ottobre 1940

Analisi amorosa di F.

Una ragazza che non conosca ancora l’amore – siamo franchi, il sesso – ha un segreto che nessuno, nemmeno lei, può penetrare. E’ come un uomo che non abbia mai conosciuto il pericolo e ignori quindi le proprie reazioni alla paura e all’entusiasmo: è una castagna chiusa. Ma è vero che F. non conosce l’« amore »? Certamente non ne conosce l’ultima istanza, ma un suo atteggiamento davanti al problema esiste, e con ciò s’intravede qualche lineamento del suddetto segreto. Dai suoi discorsi si coglie imo sforzo continuo, penoso, di raffigurarsi un’esistenza in cui il sesso non esista. Se fosse una comune ragazza « en fleur » si potrebbe dire che il suo è soltanto il brivido prima del tuffo, e pace. Ma F. non è ima ragazza comune. Anzitutto ha una lunga esperienza – cercata? – di cose d’amore sociali, e – ciò che più conta – si è costruita un’esistenza dove vale il suo senso della responsabilità, dove prende posizione e fa e decide e svolge una parte non passiva. Non penso all’esistenza « mondana » che a tutte le ragazze della sua condizione tocca in sorte, ma a quella organizzativa, a quella selettiva di gusti e attività spirituali (sport, musica, lezioni), a quella affettiva (dramma familiare). Nelle sue uscite c’è una costante. Dice di sé che è mascolinizzata, dice che il padre va messo in collegio, sostiene che tra uomo e donna esiste amicizia, ragiona di casi amorosi altrui con spregiudicata chiarezza, canzona la « femminilità ». Tutto ciò non è baldanza da « fillette », per la ragione che, benché ostentato, non esclude la tranquilla confessione di altre cose notevoli: «Non tengo gatti, perché soffrirei troppo a perderli »; « Tre sono gli uomini che mi hanno voluto bene veramente»; «Sono fragile, umida, e so che qualcuno mi deve plasmare. Sarà questo quell’uomo»; ecc. C’è una seria e onesta comprensione femminile in queste frasi; non si possono liquidare come sentimentalismo scherzoso. Più del resto significativa è la confessione sui gatti. C’è qui il tentativo — e il bisogno sincero – di crearsi un « mito »: tanto che parla di chi le ha voluto bene, col tono con cui parla di queste bestie. Naturalmente scherza, ma gli scherzi – che sono istanti di distensione e insieme di « routine » – dicono più che non le frasi meditate. F. ha il terrore di attaccarsi a una creatura. È importante. Ecco intanto confermato che il suo « shrinking » non è un lezioso derivato sessuale della verginità, ma una penosa confessione di debolezza, di paura che per lei amore voglia dire perdita delle staffe, tuffo non nell’ignoto (è qui il punto) ma nel meditato calcolato fantasticato vortice della passione. Non è que¬ sta la voce dell’inesperienza, ma piuttosto consapevolezza della ca¬pacità di una dedizione assoluta. Siccome all’amore è da lei riconosciuto un valore altissimo, totalitario, si trema all’idea di cascarci. Se F. fosse ima « viveuse », la sua sarebbe un’applicazione dell’exw oi>x — « habere, non haberi ». Ma F. non è ima « viveuse ». O sì? E questo il problema che soltanto il gran passo potrà risolvere. Ci sono argomenti nettissimi contro quest’idea: la sua educazione anzitutto, la sua serietà interiore, il suo senso del valore totalitario di una persona, ecc. Ma ce ne sono anche in favore: la sua tendenza a fare degli schiavi (quell’aneddoto della figlia della pettinatrice di Gen. ! ), la sua vivacità intellettuale, il suo gusto del gioco, e anche proprio il senso del grande valore di sé unito a una sfiducia nella « realizzabilità » di questo valore. Come finirà F. ? Per lei, più che per un’altra, ciò dipende da chi incontrerà. Nel senso che più ima macchina è complessa più è delicato il gioco delle sue risposte a un agente esterno. Una comune ragazza di famiglia si sa benissimo come finirà – potrà essere più o meno beata o infelice, ma ciò non cambierà di nulla il « senso » della sua persona, la sua figura sociale. F. no. F. potrebbe diventare una dolce padrona di casa, magari birichina o seccante, così come potrebbe farsi solitaria virago, o donna dello scandalo, o vergine – rossa o nera, non importa. Sinora, la sua soluzione che « il sesso non esiste » – mentre pure ne parla sempre – è una prima confessione di fallimento, di scontento. È evidente che F. cerca un uomo che le sappia tener testa, e che per ora – nessuno dei suoi amici escluso – non l’ha trovato. La delusione appare persino nella sua vita di casa. Suo padre è il tipico uomo che non le sa tener testa, e niente è più malinconico dello stupore che le fa […] \ La sua pena gaia e continua è di ritrovare nel ricordo – e nel presente – tutti innamorati che chiedono esclusivamente di abbandonarsi, di abdicare dalla loro virilità, di esserle schiavi. Ma F« impasse » in cui si trova, risulta dal fatto che i pochi non disposti ad abbandonarsi si sono dimostrati superficiali o violenti, […] 2. In questa vicenda la figura più enigmatica è la madre. In essa forse F. vede una prefigurazione della sua stessa possibile sorte dopo un eventuale matrimonio col « wrong man ». E la madre, non lagnandosi mai del suo stato, convince, senza saperlo, F. che dunque questa è la sorte naturale delle donne sposate; e di qua si rafforza la decisione di F. a non abbandonarsi mai a nessun uomo. Come dire: « se la mamma che è cosi buona, cosi comprensiva, cosi soggetta, è riuscita cosi poco col suo matrimonio, come potrò riuscire io che sono convinta di essere cattiva, unilaterale e ribelle? » Una semplice frase detta una sera dalla madre mi ha colpito. « Gli uomini fanno tutti le corna alla moglie ». Lo diceva con quel tono rassegnato e persuaso che è privo anche di risentimento – cosi parlava anche la mia mamma – e molto dell’inquietudine e del dissidio di F. deve nascere da questi placidi e malinconici toni della madre. Come succede a chi è affezionato veramente a qualcuno, F. confronta tutti i suoi progetti dell’avvenire all’idea che si fa della madre, e la reazione è sempre deprimente. Cosi è nata la caratteristica posa « attiva e pazzerellona » che pare il programma di F.: difesa istintiva contro l’estraneità del mondo, e specialmente del mondo maschile. Ma qui è implicito un errore che tutti questi « miti della condotta » recano con sé. Ecco: in sostanza cerca di vivere e fare di sé un personaggio che incarni la possibile figura dell’uomo che domani potrebbe amare. Lo vorrebbe spregiudicato, pazzerellone, squisito, « virile » come s’immagina di esser lei, ben sapendo che le più solide virtù (capacità di soffrire, tenerezza, comprensione, ecc.) come non mancano sotto la scorza a lei, cosi non potranno mancare sotto sotto nemmeno a lui. In questo modo cerca di placare la paura istintiva della grande passione supponendo un essere per cui la grande passione sia una virtù segreta come per lei, e il cui esterno le sia gradito come senza dubbio a lei piace un mondo sé stessa nello specchio e nell’esame di coscienza serale. Ora, l’errore implicito in tutto ciò è che F. scambia per qualità virili, delle deliziose e in lei irresistibili qualità femminili. F. crede che gli uomini siano nati per l’azione, e cerca di imitarli. Crede che siano esseri utilitari e pratici, e cerca di imi¬ tarli. Crede che tendano a organizzarsi e vivere « socialmente » e cerca di imitarli. Succede invece che i veri uomini non sono attivi ma contemplativi, non sono pratici ma sognatori dell’azione, non sono « sociali » ma — almeno i migliori — sono solitari. Potrà succedere cosi, che sposi – il più tardi possibile – un pupazzo, magari un’aquila, che non sa che cosa sia la solitudine – virtù essenzialmente maschile – e proprio per questo non s’accorge del tesoro che ha in casa.

Se ho sbagliato, mi scusi.

CP (Autografo presso la destinataria)

Le paure di F.

F. lascia intendere sovente di aver avuto due periodi nella sua vita, un prima e un poi, un allora e un adesso, e naturalmente non spiega di piu. Ama molto dualizzare, cioè lasciar scorgere in ogni faccia in ogni periodo della sua indole e attività due momenti contrastanti, segnati da una crisi: quand’era a Genova e adesso che è a Torino, quand’era ricca e adesso che è povera, quand’era intellettuale e adesso che è attiva, quand’era sciocchina e adesso che è mascolinizzata, ecc. La crisi in questione è da lei sostanzialmente taciuta, ma si capisce subito che, per sua natura, questa crisi non può essere un evento singolo localizzato nel tempo. Con apparente noncuranza F. parla della subita trasformazione, e ci vuole un certo tempo per accorgersi che questa, piuttosto che un ricordo, è un desiderio, ima decisione, un programma, imo stato d’animo attuale che si proietta sul passato e glielo sdoppia.   Nonostante certe apparenti intimità F. non si confessa con nessuno (lo prova il fatto che dei suoi molti amici probabilmente tutti ricevono da lei confessioni, che fatte a imo solo sarebbero dedizione fiduciosa – fatte a molti sono soltanto conversazione « interessante »). Bisognerà quindi auscultare i suoi « discorsi a vanvera », caso mai qualcuna delle parole desse un’eco di cavità ignota. Chi, messo in sollucchero dalla facilità con cui F. abborda argomenti erotici, si fermasse su questo campo, sbaglierebbe: sbaglierebbe per la ragione che evidentemente qui F. si sorveglia, si inibisce con piena coscienza e ben poco lascia intendere della sua vera natura. La chiave – se chiave esiste – andrà cercata altrove. Per esempio, nella paura. Una delle cose più vere che abbia detto F., fu una volta, d’estate in campagna, davanti a certi alberi immobili nella sera: « Quando le piante sono perfettamente immobili fanno paura ». Dice poi che ha tuttora paura del buio; e un giorno alluse rabbrividendo alle angosce che provava da bimba discorrendo dietro una tenda, in solitudine, con un interruttore della luce. Chi poi l’ha vista soffrire vere smanie di terrore all’idea che in casa stesse accadendo qualcosa di odioso e sussultare come un topo sbarrando gli occhi e smarrirsi, ma insieme ricorda la sua allegra protesta che non le riesce di aver paura di un allarme aereo, comincia a scoprire in questi caratteri una costante. Questa, cioè: più che spaventi, le paure di F. sono angosce. Con ciò si viene a dire che la vita interiore di F. (e ciò fin dall’infanzia) è tutta intrisa di stati d’attesa, di penosa attesa, di un « ignoto » che è insieme desiderato e respinto. Tutti e quattro gli esempi dati s’incontrano in questo che suppongono un’avidità affettiva, una tensione smaniosa verso un oggetto un’intimità un ambiente, che appaiono al soggetto tanto intense e assolute da capovolgersi, per la solita ambivalenza di questi istinti, in un vivo e diffuso terrore del loro scopo. Si parla qui naturalmente di un carattere psichico acquisito nella primissima infanzia, quando ciò che più tardi si differenzierà come istinto sessuale, vive ancora e lievita confuso nei primi conati affettivi e fantastici. Importa insomma osservare come in F. non affiorino grandi spaventi – forse gli spaventi provati lei li trasforma in altro, vale a dire li dimentica – ma la vita sensitiva si sia invece allargata in un limbo & angosce, di capacità cioè d’inventare e aspettarsi misteriose sventure solitarie, le cui sofferenze sfuggono a una chiara definizione e consistono appunto di un’atmosfera, di una tonalità dell’anima. È ancora necessario ricordare che, benché intellettualmente non inerte, F. ha di proposito limitato la sua vita contemplativa al godimento della musica – gusto che suppone appunto la capacità dell’angoscia, e secondo alcuni ne è il correttivo, secondo altri la sublimazione?   Ora, in accordo col quadro delle sue angosce, F. confessa di aver provato fino ai dodici anni una scontrosa repulsione per ogni « estraneo ». Come mai dalla bimba scontrosa e sensitiva (ciò che rende duri e violenti è la sete di tenerezza), solitaria e fantastica, impacciata e domestica, ha potuto nascere la donna « repandue » e disinvolta, positiva e attiva, cristallina e cordiale, con cui credono di scherzare scultori, musicisti e poeti? E soprattutto come mai la bimba che s’incantava come il pollo davanti alla riga di gesso, e che oggi ancora è rimasta la vergine che rabbrividisce all’idea dello stupro – come mai proprio costei vive un ideale di socievolezza virile e non ha amici che tra gli uomini e li ricerca con baldanza e li domina senza sforzo, tanto che chi non la conosce con amore sospetta in lei la « viveuse » e la tratta in sostanza come tale? La chiave del segreto sta in una sua ingenua confessione che si ha torto a considerare semplice petulanza di signorinetta (Bobbio) o incauta scusa di « devergondée » (le rivali mondane e, pare, i musicisti). E la confessione è la banale frase, mille volte da F. ripetuta, che lei è una donna mascolinizzata. Essa viene a dire che F. tende a identificarsi con gli uomini, anzi con un determinato tipo d’uomo che evidentemente rappresenta il suo ideale. F. in questa sua vita diffusa e attiva è abbastanza ingenua da lasciar intendere che la conduce per disperazione, per assurdo, o per scelta calcolata – che torna lo stesso. È questo in sostanza il secondo periodo della sua vita, quel periodo che si contrappone, nel desiderio di F., a un non ben confessato né precisato primo periodo in cui pare facesse tutto l’opposto.   Ecco spiegato perché l’idea di una data crisi e conversione alla nuova vita è inaccettabile. Quando si dice identificazione , si dice complesso psichico represso che cerca il suo sfogo in un nuovo mito della condotta. E si dice quindi sdoppiamento, non successivo ma contemporaneo. F. è tuttora la bambina delle angosce, proprio mentre vive il suo mito della dinamica praticità.   Ecco come è andata. Come tutte le adolescenze di questo mondo, quella di F. si è compiuta nella penosa e umiliante consapevolezza del sesso. Poche cose sono altrettanto tristi che la sudicia, smaniosa e inesorabile scoperta del destino sessuale della carne, in quegli anni che nulla ancora dei suoi possibili compensi si conosce. Inoltre, F. non ebbe in quegli anni l’inevitabile crisi mistica che distrae dal sesso (in realtà ne è una semplice tappa) e scarica la piena delle indignazioni e delle rivolte in una dolce atmosfera del cuore e della coscienza. Non è strano che con tanta capacità di sentire V angoscia – lo stato tipicamente prereligioso – F. non abbia sentito almeno per un anno, per sei mesi, il trasporto religioso? Non è affatto strano e, se vorremo ricordare la sua esperienza dei dieci anni – il confessore che la rivoltò insegnandole le sudicerie – capiremo come proprio la sua angoscia sia nata e restata nella sfera sessuale, naturalmente come ambivalenza – orrore e insieme smania del contatto umano, scontroso riserbo fisico e insieme sofferenza della solitudine. Oggi ancora, che pure conosce meglio sé stessa e gli altri, F. continua a rabbrividire all’idea dello stupro – naturalmente in forme romanzesche e caricate. Questa è insieme la più antica e la più nuova delle sue angosce. Parlandone, diventa persino sincera e dimentica il mito della mascolinizzazione. O meglio, scopre di questo mito il volto vero: identificazione nata da istinto represso. Che cosa teme F. nello stupro? Scherzando, lo immagina con tutto un corteggio di orrori – rivoluzione e guerra civile -, ma io sospetto che essa lo tema allo stato puro nella sua semplice necessità fisiologica. Essa è insomma nella condizione di quei giovanotti che non sanno risolversi a « livrer leur force à une femme », nella condizione cioè di un suo amico di cui parla sovente, V. La strage, il sangue, le mitragliatrici, che nelle sue sarcastiche fantasie dovrebbero accompagnare la cerimonia, sono anche qui un mito di una più semplice e umana ripugnanza: F., cosi come V., non può rassegnarsi all’idea di subire su di sé la rivelazione della realtà di un altro sesso. Ciò è per lei pura angoscia.   Bisogna insistere. F. non ha paura , non teme il dolore (ricordare la faccenda degli allarmi), se anzi pensa a sposarsi pensa subito ai figli (altra prova che non è ancora riuscita a vedere nel sesso una possibile realtà voluttuosa): quello che teme è l’insulto fatto al suo narcisistico riserbo, è il violento infrangersi della sfera di angoscia solitaria che possiamo rintracciare fin nella sua avventura infantile con l’interruttore o nella sua comprensione per il metafisico orrore delle piante immobili. Un altro esempio: lo stesso orrore F. l’ ha provato per un certo bacio violento, che forse fu per lei il solo.   A questo punto si comprende meglio, nella sua malinconica realtà, il movente di quell’identificazione con l’altro sesso. Un giovanotto che entri nella vita cercando sistematicamente compagnia femminile, non per farci all’amore ma per farsene un modello e risentendone l’influsso nei gusti, nelle pose, negli umori, è un omosessuale che si ignora. Potrà più tardi magari sposarsi e diventare marito e padre felice, ma ciò non toglie che in partenza egli tendesse a tutt’altro. Si sarà salvato forse senza saperlo – per un caso, per un incontro fortunato; ma sulla lama di rasoio c’è passato, e il suo destino era un altro.   Bisognerà dire lo stesso di una ragazza che mostri un gusto risoluto della compagnia maschile e se ne faccia un ideale di vita asessuale. Nei due casi è cominciato un processo d’identificazione col sesso opposto, ed è ovvio come – scoppiando l’occasione che infranga le ultime inibizioni della coscienza e dell’abitudine – accadrà die il giovane femminizzato e la ragazza mascolinizzata troveranno concepibile liberare attraverso un commercio omosessuale l’istinto invertito – dato che il sesso a loro complementare sarà ormai il proprio. Va da sé che gli individui che giungono alla dichiarata omosessualità sono altrettanto rari rispetto ai tendenziali come sono rari i casi di assassinio consumato rispetto agli assassini potenziali (chi di noi non ha sognato almeno una volta di ammazzare qualcuno?) Quest’indagine – sia chiaro – non mira a scoprire in F. un destino inesorabile, ma soltanto a rintracciare in lei una tendenza, a chiarirle il possibile significato, che forse le sfugge, di un suo atteggiamento di per sé innocente.   Tuttavia, l’inversione omosessuale è cosa tanto violenta che non basta a provocarla uno stato d’angoscia diffusa, ma – insegna la psicanalisi – le occorre un trauma psichico ben definito. Esiste questo trauma nel passato infantile di F. ? Tutto il problema è qui, e naturalmente potrà rispondervi soltanto F. scavando in sé stessa.   Se vorrà farlo, F. dovrà ficcare gli occhi chiari — questo coraggio non le manca – nella nebulosa infantile dei suoi rapporti coi genitori. La sua attuale sistemazione familiare è, sotto questo rispetto, ambigua. Predilige la madre e osteggia il padre. Se si scoprisse che al tempo delle prime angosce F. cominciò con un attaccamento morboso per il padre […] si avrebbe chiara la ragione della sua attuale frigidità — ostentata? – verso tutti gli uomini. Ma bisognerebbe in questo caso ammettere che l’ideale maschile di F. è tuttora inconsciamente rappresentato dal padre dei suoi primi an¬ ni — ammissione azzardata, […] .

Queste lettere sono lievi come il piombo e sviano sulla natura della corrispondenza tra lo scrittore e l’allieva, in realtà ho contato più di 50 lettere pubblicate di Pavese dal 22 agosto 1940 al luglio 1945, e si può presumere che quelle inviate siano molto più numerose. La maggior parte di queste lettere sono brevi, una fotografia degli anni della guerra vissuti nelle retrovie. Lo scambio epistolare tra i due risulta prezioso per ricostruire il disagio (soprattutto di lui) e la voglia di indipendenza di genere (di lei) in un contesto storico ben delineato: quello della censura fascista e della guerra. Traspare nel 1943, la preoccupazione di Pavese di essere chiamato alle armi:

«11 gennaio 1943 – Cara Fernanda, ricevo le due lettere, quella della malinconia, e quella su Spoon River e sul mio richiamo. Per S. R. farò tutto io qui, ma non s’illuda troppo presto perché vorranno vedere le bozze e potranno ritornare sulla decisione. Per il richiamo è una notizia del giornale, che dal 1° al 15 febbraio chiameranno tutti i laureati in congedo del 1923 e precedenti, per utilizzarli. Io, a buon conto, ho già cominciato a muovermi per sapere, primo, se sarò chiamato; secondo, se lo sarò davvero; terzo, per guarire dall’asma. Stia certa che i miei desideri coincidono coi Suoi (…)». «Mi preoccupa di più la Sua malinconia e il tono di bestia condotta al macello da Lei assunto. Perché? È sola e disagiata, ma può studiare e lavorare; non se l’intende coi Suoi, ma studiando e lavorando si prepara il modo di farsi un’indipendenza; non Le sono vicino a farle prediche, ma gliele faccio da lontano, e tanto più meditate e inesorabili, e assisto i Suoi lavori e insomma non sono in Polinesia (…)». «Pensi che qui soffro il freddo come a Mondovì. Siamo in quattro in una casa, anzi cinque, tre uomini e due donne; viviamo studentescamente; si mangia non male; io giro tutto lacero e scalcagnato, e a Torino dovrò venire certo uno di questi giorni, non fosse che per rifornirmi di abiti. Da Torino passerei a Mondovì (…)». «Faccia sì che il primo incontro avvenga tra noi due soli, perché vorrò abbracciarla e baciarla. Ho deciso. Ho trovato molti complimenti per «Il Mare» – (racconto scritto da Pavese, incluso in Feria d’agosto) – che pare abbia colpito tutta Roma, ma io vivo isolatissimo, anche perché a girare di notte su questi maledetti autobus e circolari, dove non si capisce niente, non mi pigliano certo. Cara Fernanda, si sta meglio con Lei a Torino, e anche a Mondovì. Stia allegra. Pavese». Dalla caserma il 9 marzo scrive: Cara Fernanda, sono sempre qui in attesa di passare all’ospedale. Dopo la guerra- lampo, abbiamo ora le pratiche-lampo: ma soprattutto, ma bien-aimèe, io amo il coup de foudre… Bello è specialmente andare in libera uscita. L’altro giorno ho comperato due mandarini, dato noia alle ragazze e infine bevuto una enormità. Se, come mi auguro fervidamente, sarò presto vestito, farò un soldatino magnifico. Oh Fernanda, non c’è un mezzo per passare subito ufficiale? Pensi che bello se fossi anche ufficiale! Oserebbe ancora rifiutarsi? Intanto si ricordi di chi pensa a Lei tanto, tanto, tanto.

Cesarino

Se la carta puzza di rigovernatura non ci badi, ho lavato (male) la gavetta. Baci.

Il 17 marzo scrive di essere uscito dall’ospedale militare e di essere stato messo in convalescenza a causa dell’asma per sei mesi. Mesi cruciali perchè Mussolini venne destituito il 25 luglio dal re, si insediò il governo Badoglio e l’otto settembre ritornò Mussolini a capo della RSI.

Nella maggior parte delle lettere di Pavese, Fernanda Pivano viene spronata e incoraggiata allo «studio e diligenza». Molte lettere terminano con l’esortazione allo «studio, studio, studio» oppure con «traduca, traduca, traduca» .

Il 7 gennaio del 1943 scrive “Cara Fernanda, l’inverosimile è avvenuto. Hanno autorizzato Lee Masters….”  mentre in questa lettera del 25 maggio 1943 riporta le lodi di Emilio Cecchi alla traduzione di Spoon River.

Cara Fernanda,

che Lei è cattiva ed egoista l’ho sempre saputo, ma neanche io non scherzo e quindi sono disposto a correre il rischio.
Ma parlando di cose più decenti, si è decisa o no a studiare? Si ricordi che a Roma non si viene senza sapere una lingua. […]
Sono stato da Cecchi che ha lodato molto la traduzione di Spoon River: è quindi certo che questo libro La renderà celebre. […]
Chi sono questi giovanotti che Le fanno le domande strane per entrare in conoscenza, vorrei sapere. Io non ho mai fatto domande strane alle ragazze, ed è per questo che le ragazze non mi hanno voluto nè poco nè tanto. Mi correranno dietro quando avrò settant’anni, ed io dirò con gusto: avete visto? Bisognava decidersi prima.

Cara Fernanda, quando ci si rifiuta di sposarmi, almeno si ha il dovere di risarcirmi facendosi una cultura e imparandola più lunga di me. Non aspetti a saper leggere un libro quando sarà vecchia come il bacucco e per sedurre i giovanotti non servirà più a nulla essere una raffinata intenditrice di poesia. O, almeno, sposi subito il capostazione e la smetta. […]
Fernanda, si mangia poco a casa nostra e, su cinque, tre hanno preso la tosse asinina. L’attendo anch’io, e in questa certezza La saluto caramente, non senza augurarmi che noi due siamo insieme, in una casetta di mare, entrambi con la tosse asinina, a darci i colpetti sulla schiena e confondere i nostri ruggiti. Suo.

 «Pavese cercava di farmi diventare un’intellettuale» annota la Pivano nei Diari. Pavese dimostra nelle lettere di cogliere il passaggio dall’italietta del fascismo a un futuro prefigura il modo in cui la donna italiana, non solo Fernanda, dovrà uscire dai ruoli mediocri imposti dall’epoca e dal fascismo: «È sola e disagiata», scrive Pavese, «ma può studiare e lavorare», le spiega. E ancora: «Non se l’intende coi Suoi, ma studiando e lavorando si prepara il modo di farsi un’indipendenza».

A Fernanda Pivano, Mondovì Breo. [Roma,] domenica 30 [maggio 1943]

Cara Fern,

la Sua lettera mi ha molto commosso e se potessi prenderei subito il treno per provarLe che non è vero che la circondi il gelo e l’ostilità. Ma non capisco perché si trovi tanto male proprio adesso che sa di poter lavorare nove ore al giorno e quindi pressoché mantenersi. Non ha sempre aspirato all’indipendenza? A meno che Le succeda come a tutti: una volta ottenutala, non sa più che farne. Si ritorna cioè a quanto Le ho sempre consigliato: si faccia una vita interiore – di studio, di affetti, d’interessi umani che non siano soltanto di «arrivare», ma di «essere» – e vedrà che la vita avrà un significato. Io non ho potuto muovermi anche perché abbiamo avuto i questurini in casa per parecchio tempo – una nostra impiegata è stata arrestata – e s’immagini le grane. Cara Fern, la solitudine che Lei sente, si cura in un solo modo, andando verso la gente e «donando» invece di «ricevere». (È la solita sacrosanta predica). Non che io aneli di essere quello a cui Lei dovrebbe donare – tanto più che i doni che Lei potrebbe farmi non sarebbero ancora la soluzione ma aumenterebbero il pasticcio. Si tratta di un problema morale prima che sociale e Lei deve imparare a lavorare, a esistere, non solo per sé ma anche per qualche altro, per gli altri. Fin che uno dice «sono solo», sono «estraneo e sconosciuto», «sento il gelo», starà sempre peggio. È solo chi vuole esserlo, se ne ricordi bene. Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri, bisogna umiliarsi e servire. E questo è tutto. La nostra posizione qui è molto precaria. Il padrone ogni tanto fa progetti per riportare la baracca in Piemonte – che non mi dispiacerebbe. Ma intanto – tira e molla – non faccio più niente e non ho più pace. La smetta con quella stupida storia dell’assegno. Pensi piuttosto a tradurre l’Addio, e con l’assegno si comperi un monopattino. Coraggio e arrivederci. Il lavoro renderà indipendente Fernanda Pivano, non solo diventerà una protagonista della cultura, scopritrice di talenti, ponte tra l’America della Beat Generation e l’Italia, e molto altro. Un futuro che prima di esistere nella realtà, esiste già nelle poche righe di uno scrittore che lievemente, ma fermamente, dà l’esortazione e la fiducia che può venire solo da un maestro. La collaborazione tra i due inizia con la traduzione dell”Antologia di Spoon River. Sono i primi anni ’40, la futura “Nanda” ha 26 anni, e il libro superproibito, come lo definirà lei, glielo ha passato proprio Cesare Pavese, che si occupa dell’opera di Edgar Lee Masters dal 1930. «L’antologia» di Edgar Lee Masters risale al 1915 è destinata a diventare uno dei libri di culto in tutto il mondo, ispirata dagli epitaffi dell’ Antologia Palatina, raccontava le storie di uomini e donne di un paese del Midwest rievocati dalle loro lapidi del cimitero tra virtù e bassezze, infelicità dei giusti e impunità del potere. Una lunga popolarità, quella di Spoon River, che ancora nel 1971 è stata all’ origine di uno dei dischi più belli di Fabrizio De André: «Non al denaro non all’ amore né al cielo». Pavese lo lesse nel 1930, incitò Fernanda Pivano alla traduzione, la Pivano fece la parte più grossa del lavoro, traducendo in modo lessicale tutti i testi per conto suo; Pavese, che da anni voleva farne un’ edizione italiana, si occupò della revisione sulla struttura e sulle scelte stilistiche tanto che davvero la traduzione può essere definita « frutto di un lavoro a quattro mani”». «L’Antologia» miracolosamente venne pubblicata nel 1943 con il solo nome della Pivano, grazie all’ impegno profuso da Pavese, dirigente dell’ Einaudi, che per aggirare la censura fascista trasformò l’Antologia di Spoon River in “Antologia di S. River”, facendo passare il testo per un’opera religiosa.

Pavese scrive alla Pivano il 26 febbraio 1943 “Spoon River è già in stampa”.

La verità venne presto a galla e le poesie che minavano le fondamenta dei principi fascisti vennero proibite in Italia. L’altro libro che nel 1940 Pavese lasciò nella portineria della casa della Pivano era: Addio alle armi di Ernest Hemingway che Fernanda Pivano tradusse. Il testo era proibitissimo dal fascismo: un romanzo antimilitarista, antiretorico, e la descrizione della disfatta di Caporetto è considerata lesiva per l’onore delle forze armate italiane. Le SS naziste quando, durante una retata presso la sede di Einaudi, trovano il contratto di traduzione per Addio alle armi. Commettono però un errore: il contratto è erroneamente intestato a «Fernando Pivano» e le SS arrestano Franco, il fratello di Fernanda. Appena ricevuta la notizia, lei si fionda all’Hotel Nazionale, il quartier generale nazista dietro piazza San Carlo, e riesce, pur tra mille difficoltà, a chiarire l’equivoco. Scagionato il fratello, rimane in carcere per dodici ore, subendo interminabili interrogatori, continue minacce, feroci intimidazioni, in una corrida, così la definirà, «in cui io sono un povero torellino inesperto e loro matadores che da anni passavano la vita a mandare la gente nei lager» (PIVANO, 2008).

Il libro così uscì in Italia nel 1945 alla fine della guerra, ma l’episodio dell’arresto venne raccontato a Hemingway poiché, una volta finita la guerra, invita la Pivano a raggiungerlo all’hotel Concordia di Cortina, Lei all’inizio pensa ad uno «scherzo di cattivo gusto», poi si precipita sul «trenino da favola ora scomparso delle Dolomiti» (PIVANO diari) e lo raggiunge.

È il 10 ottobre del 1948: Quando mi aveva vista lì sulla porta della sala da pranzo, coperta di fuliggine e di polvere e troppo emozionata per entrare, si era alzato e aveva attraversato il salone con le braccia aperte richiudendole su di me in uno hug come quelli di cui avevo letto nei suoi racconti; poi mi aveva preso per mano e accompagnandomi al tavolo mi aveva detto in uno di quei bisbigli coi quali mascherava la sua leggera balbuzie: “Tell me about the Nazi” (raccontami dei nazisti) ((PIVANO, 2008).

«Cara Fernanda – le scrive il 13 febbraio 1943 – durante il viaggio ho pensato molto alle mie cose e mi sono accorto di non essere più un ragazzino, perché se fossi un ragazzino avrei goduto e sofferto molto e pensato bei pensieri e schizzato poesie. (…). Anzi, mi sento padre. Di che cosa o di chi, non so bene, ma mi sento padre, responsabile e noioso e superato. Com’ero più mascalzone e intelligente a venticinque anni. Allora ho scritto un libro che nessuno stima un soldo, ma comunque non sarà più superato da nulla che io scriva.(…) La verità, Fernanda, è che divento egoista (…). Allora vada tutto all’inferno: vuol dire che neanche volendo si può più scrivere una bella cosa, né “essere felici” in compagnia. Fernanda, sono molto infelice. Tuttavia L’accarezzo con riserbo, e la prego di ringraziare ancora la mamma per quella levataccia delle 5 1/2 e l’uovo e tutto. Pavese».

La storia, l’amicizia finisce nell’immediato dopoguerra, Pavese nel diario il 26 ottobre del 1946 scrive per l’ultima volta: “Do dentro al romanzo. La Piv. si è sposata stamattina. Sono raffreddato. Bene.”

Ps Qualche pettegolezzo, è curioso il fatto che nella biografia di Fernanda Pivano, dappertutto (o quasi) si legge che nel 1949 ha sposato l’architetto Ettore Sottsass Junior, il grande amore tormentato della sua vita. Pare che quando Sottsass entrò nella casa coniugale scoppiò a piangere al pensiero che avrebbe dovuto vivere con lei tutta la vita. L’unione durò 27 anni poi lui la lasciò con grandissima infelicità di lei. Pavese invece annota la data del 26 ottobre 1946, il piccolo giallo si spiega con un precedente matrimonio, quando la Pivano sposò un ufficiale americano conosciuto lavorando alla radio e di cui la scrittrice non ne ha mai voluto parlare. “Che cosa le è riuscito meglio nella vita? Non mi è riuscito proprio un bel niente. Sono passata da un disastro all’altro. Diciamo che quel che mi è riuscito forse è resistere al disastro.”

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1 commento

Mauro Gozzi 25 Settembre 2022 - 11:09

Bellissimo carteggio, merita la pubblicazione su carta di Fabriano, assolutamente. Prima di suicidarsi P. cercò F. In un disperato tentativo di desistere ma lei non l’ha raggiunto all’Albergo Roma dicendo che il marito, Sottsass, era ammalato e doveva assisterlo. P. pensò ad una scusa e ingerì le19 o 20 bustine di fenobarbital (o simile) il 27-08-1950.

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