di Stefano Casarino, 22 agosto 2018
I.
Chi si occupa di cultura classica sa bene quanto in essa sia costante, imprescindibile la “presenza del vino” e quanti versi e quante pagine memorabili le abbiano dedicato tanti importanti autori.
A ben riflettere, tutta la storia dell’umanità è storia del vino, anche se va notato che quest’ultimo, a differenza della birra e dall’acquavite, si può produrre naturalmente, senza che sia necessario l’intervento umano. La fermentazione degli zuccheri e la loro trasformazione in alcol può, infatti, cominciare già nell’acino dell’uva matura, grazie all’opera dei lieviti naturali che si trovano nella buccia.
Gli antichi credettero allora che l’invenzione di tale bevanda non fosse umana ma divina: un dono degli dei, in particolare del figlio di Zeus e Semele, Dioniso.
Linguisticamente, il termine “vino” forse deriva dal sanscrito vedico “venas” (amore), da cui proviene anche il nome “Venere”: ecco già attestato l’indissolubile binomio “vino-amore” che tanta parte ha nella letteratura (e non solo) di sempre.
Storicamente, la domesticazione della vite viene però fatta risalire alla metà del IV millennio a.C. nell’area che comprende l’Armenia, la Turchia orientale, l’Iran, l’Iraq e la Siria settentrionale;
In Mesopotamia, la sua coltivazione prosperò soprattutto al nord: le regioni meridionali erano troppo calde e umide per la viticultura, tanto che nei testi mesopotamici si parla del vino come di una bevanda delle montagne. Le prime attestazioni provengono dalle tavolette d’argilla ritrovate nelle città sumere di Lagash e Ur, datate al 2800-2500 a.C.: la vite veniva coltivata in piccoli vigneti, incorporati in complessi templari. Oltre al vino si produceva anche la birra, destinata, però, probabilmente alle classi sociali meno elevate;
Furono la religione ebraica e la sua liturgia a promuovere il consumo di vino, trasformandolo in un prodotto per tutte le classi sociali; dalla Mesopotamia, la coltivazione della vite e la produzione del vino si diffusero nel corso del III-II millennio a.C. in tutta l’area del Mediterraneo, dapprima in Egitto, poi, soprattutto grazie all’opera dei mercanti fenici, in tutto il bacino occidentale del mare nostrum.
I Greci diedero un enorme contributo – hanno dato un enorme contributo a tutto! – allo sviluppo delle conoscenze e delle tecniche agronomiche ed enologiche (l’etimo “eno” deriva dal greco “oinos”, che significa, appunto, “vino”) e continuarono l’opera di diffusione della cultura del vino in tutto il Mediterraneo occidentale.
Fu però con Roma ed il suo impero che la vite ed il vino si propagarono, al seguito delle legioni e dei coloni, in tutta l’Europa continentale, Francia, Germania e Spagna settentrionali in primis. Con l’estendersi dell’impero, la vitivinicoltura si estese anche a tutta l’Europa occidentale, incentivata dallo stesso governo centrale; si voleva, infatti, che nello stesso tempo in cui la vite metteva le radici e diventava produttiva (tre anni), anche i legionari si radicassero nelle province, stabilizzando e rendendo duraturo il dominio di Roma: il vino, quindi, è stato responsabile anche della “romanizzazione” e quindi della civilizzazione. L’adagio “in vino veritas” potrebbe anche subire una sensata deformazione e divenire “in vino cultura”.
II.
Giacché nell’antica Grecia il vino era considerato di origine divina, il suo consumo era soggetto a precise regole che diventavano un vero e proprio rituale: la norma principale era che non si doveva bere da soli, ma in gruppo (“simposio” significa proprio “bere assieme”).
Durante il pasto non si beveva vino: prima si mangiava, poi si beveva.
Il simposio si svolgeva così: i convitati, adorni di ghirlande di fiori e di foglie di mirto (sacro a Venere) e di edera (sacra a Dioniso: si noti, ancora una volta, il binomio prima ricordato di “amore e vino”), si disponevano a due per volta su divani, stesi col braccio sinistro sotto la nuca e il destro libero.
A causa dell’elevata gradazione alcolica, il vino non veniva mai consumato “puro”, tranne che per la libagione iniziale: nel resto della serata lo si beveva sempre mescolato con acqua. Dopo la libagione, si cantava un inno a Dioniso, il peana: dopo il canto, veniva nominato o estratto a sorte il simposiarca (cioè, “il capo del simposio”). Era lui a stabilire e far osservare le regole: le proporzioni da osservare nella miscelazione del vino, la quantità spettante a ciascuno, le modalità di svolgimento della festa.
Le proporzioni della miscela potevano variare da 3 misure d’acqua e 1 di vino alla più usuale proporzione di 3 a 2 fino alla miscela alla pari, considerata però troppo forte. La mistura era preparata nel “cratere”, un grande recipiente con due manici: da qui i servitori attingevano con mestoli e riempivano le coppe che venivano fatte girare da sinistra verso destra tra gli ospiti.
La coppa era offerta con le parole: “Prendi anche tu la bevanda di Igea” (la dea della salute, da cui deriva in italiano la parola “igiene”) e chi la riceveva rispondeva appunto “alla salute”: quindi, anche quando brindiamo, siamo eredi degli antichi Greci, continuiamo la loro tradizione.
Il simposio era caratterizzato dal “sorseggiare” (usanza di cui i Greci andavano orgogliosi e che li contraddistingueva dai barbari, come segnala Anacreonte, fr. 356 W: non beviamo tra urla e chiasso, come fanno gli Sciti, ma sorseggiando tra bei canti) con accompagnamento di pasticcini, frutta secca, miele, formaggi.
Il simposio si teneva dopo il tramonto: ma Alceo incita, come vedremo, a bere sempre, in presenza del sole o meno. Vi erano giovani donne, appositamente convocate, che suonavano l’aulòs (il più importante strumento a fiato, molto presente nelle raffigurazioni vascolari, ad ancia doppia come il moderno oboe) e danzavano: le etere, le uniche donne ammesse al simposio.
Il consumo in comune del vino era, infatti, riservato ai soli uomini.
Oltre all’aulòs si suonavano la lira e la cetra, talvolta anche il crotalo (l’attuale tricchetracche) e piccoli tamburi. Non cantavano solo i musicisti ma spesso, a turno, gli stessi convitati: la condivisione del vino si fondeva con la condivisione del canto e della musica, in una dimensione di festa che è rimasta una delle caratteristiche più belle e diffuse di tutta la nostra cultura occidentale.
III.
Sin dall’VIII sec. a.C. Omero ed Esiodo cantano il vino: nell’Odissea (IX, 345) è grazie all’ottimo (e fortissimo quanto a gradazione alcolica) vino di Ismaro che Odisseo riesce ad aver la meglio su Polifemo. La lirica greca a partire dal VII sec. a.C. fa del vino un protagonista assoluto, come leggiamo già in Alceo:
Beviamo, perché aspettare le lucerne? Breve il tempo. / O amato fanciullo, prendi le grandi tazze variopinte,/ perché il figlio di Zeus e Sémele/ diede agli uomini il vino per dimenticare i dolori./ Versa due parti di acqua e una di vino;/e colma le tazze fino all’orlo: e l’una segua subito l’altra.
Condividere tra amici le bevute è l’unico antidoto possibile allo scorrere inesorabile del tempo, fa dimenticare la nostra condizione di esseri effimeri in balia ai dolori dell’esistenza: il simposio diventa così un rituale apotropaico.
Anacreonte lo ribadisce in modo ancora più esplicito:
Con il bere annullo tutti i miei guai;/che importa se sono povero?/Quando bevo sono ricco come il ricco Creso./Mi viene una gran voglia di cantare /mentre me ne sto sdraiato, coronato d’edera./Ecco: sono padrone del mondo /e se tu vuoi, o soldato,/va pure alla guerra./Quando sarai caduto, trafitto,/io sarò ubriaco, sì, ma ben più vivo di te.
Il vino diventa un formidabile livellatore sociale, rende ricchi di una ricchezza diversa, più vera di quella che deriva dal denaro o dalle proprietà; rende allegri, fa venire voglia di cantare e di lasciare scontri e guerre agli altri; si caratterizza persino come un elemento antimilitarista ed antibellico. Chi beve non trascende a gesti di violenza, si sente pacifico ed appagato, addirittura “padrone del mondo”.
Forse il più bel frammento descrittivo del simposio è questo di Senofane:
E’ pulito il pavimento e le mani di tutti e le tazze. Uno ci incorona di ghirlande, un altro ci porge balsamo profumato; il cratere è pronto, colmo di beatitudine. Altro vino ci aspetta – che non ci tradirà – dolce nei boccali, profumato di fiori. C’è nell’aria aroma puro di incenso, e c’è l’acqua, fresca, dolce e lucente; e biondo pane e la tavola sontuosa ricca di formaggi e miele denso. In mezzo c’è l’altare coperto di fiori e la musica e la festa invadono la casa. Subito rendiamo onore a dio – noi, uomini pii – con parole devote e discorsi puri; poi la libagione, e la preghiera di poter seguire sempre la giustizia – questo è indispensabile – e non la violenza. E adesso beviamo, ma in misura da poter tornare a casa da soli, se non si è vecchi.
Misura, equilibrio, raffinatezza, eleganza, condivisione della festa, della preghiera, della musica, di valori importanti (la giustizia e il rifiuto della violenza) connotano il simposio e stringono legami forti di autentica amicizia tra tutti i partecipanti.
Anche nel mondo latino la presenza del vino è una costante imprescindibile. Mi limito a ricordare il brindisi di benvenuto e la cerimonia di accoglienza organizzata da Didone per i profughi troiani nel primo libro dell’Eneide (I, 723 sgg.)
Appena finito il banchetto, i servi levarono
i cibi dalle mense e vi posero grandi
vasi colmi di vino sino all’orlo. Il palazzo
rimbomba di gioioso strepito e i convitati
fan risuonare le voci per le stanze spaziose;
lampade accese pendono dai soffitti dorati,
le fiamme delle torce vincono la notte.
Allora la regina chiede la coppa d’oro
e di gemme in cui Belo ed i suoi discendenti
hanno sempre bevuto e la riempie di vino;
si fa dunque silenzio: “Giove – dice Didone –
tu che proteggi gli ospiti, consenti che questo giorno
sia lieto per i Tiri e per gli esuli troiani,
che i nostri discendenti ne serbino memoria.
Ci assistano Bacco creatore di gioia
e la buona Giunone. E voi Cartaginesi
con animo lieto celebrate il convito!”
Così dicendo versa qualche goccia di vino
in onore di Giove sulla mensa, poi sfiora
il vino con le labbra e porge la coppa
a Bizia, incoraggiandolo a bere; Bizia vuota
a gran sorsi la tazza spumante, che poi passa
di mano in mano a tutti. Jopa, dai lunghi capelli,
allievo del grande Atlante, suona la cetra dorata.
Canta la luna errante e le fatiche del sole,
l’origine delle bestie e del genere umano,
l’origine dei fulmini e della pioggia.
I Tiri applaudono, seguiti dai Troiani.
Anche qui ritroviamo tanti elementi di chiara derivazione greca: vale la pena, però, di rimarcare che la dimensione del convivio si presta particolarmente ai doveri (e al rituale) dell’accoglienza. Ancora una volta sacro e profano si fondono nella libagione e nella condivisione del bere, nella preghiera e nel canto del poeta che si accompagna con la cetra.
Dei tanti carmi che Orazio dedica al vino, ricordo solo quello che ha come protagonista un vino “alla buona”, offerto con spontaneità all’amico più caro, il potente Mecenate (Odi I, 20):
Vinello di Sabina in semplici boccali tu berrai: di quello che in un’anfora greca ho io stesso imbottigliato, con tanto di sigillo, il giorno in cui ti tributarono, a teatro, un’ovazione, caro cavaliere Mecenate, di tale intensità che le rive del fiume dei tuoi avi e la festosa eco del colle Vaticano ti restituirono, all’unisono, l’applauso. Sarai certo abituato a degustare Cecubo e Caleno d’uva spremuta con il torchio; i miei bicchieri no, non sono mitigati da vitigni di Falerno o di Formia collinare. (trad. M.Beck)
Non è necessario alcun commento: tra veri amici basta un “vinello” e semplici boccali, non vini di alto lignaggio e coppe preziose. Conta la sostanza, non l’apparenza. La sincerità di quel vino corrisponde perfettamente all’autenticità di quell’amicizia.
Abbiamo iniziato parlando del connubio Bacco/Venere (cioè vino/amore): possiamo ora concludere con i versi di un grande poeta del Novecento, che meriterebbe a mio giudizio di essere molto meglio conosciuto: William Butler Yeats (Dublino 1865 – Mentone 1939; ottenne nel 1923 il premio Nobel per la letteratura)
CANZONE AL VINO
Il vino raggiunge la bocca
E l’amore raggiunge gli occhi,
Questa è la sola verità che ci è dato conoscere
Prima di invecchiare e morire.
Sollevo il bicchiere alle labbra,
Ti guardo e sospiro.
Stefano Casarino






