Referendum, il senso della rappresentanza sociale

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti
Referendum, il senso della rappresentanza sociale
Ho sentito molte analisi strettamente politiche sull’esito dei referendum. Le più sagge sono quelle che non hanno parlato di sconfitta in termini apocalittici, ma hanno evidenziato i punti positivi, a partire da quei 13 milioni di italiani che hanno sfidato l’invito del governo (e non solo) a disertare le urne. Pochi, mi sembra, si sono concentrati sul fatto sociale in sé. La CGIL, di propria esclusiva iniziativa, ha raccolto le firme su un tema delicatissimo e centrale, quello della tutela del lavoro, e ha condotto una grande battaglia, portando alle urne, con il contributo della opposizione politica, il 30% degli elettori, un numero tre volte superiore ai propri iscritti. Fuori da considerazioni strettamente politiche, potremmo dire che la CGIL ha espresso i termini di una fortissima rappresentanza sociale, e non su una questione marginale, ma sul lavoro, questione assolutamente dirimente.
La dico meglio. La CGIL, in una fase di profonda frammentazione sociale, ha indicato un tema unitario su cui esercitare un agire politico collettivo: il lavoro, la sua tutela, la coesione sociale che ne costituisce l’effetto principale. Non è bastato l’invito del governo e quello dei suoi lacchè a frenare l’onda, che non è stata maggioritaria, ma nemmeno può passare inosservata, anzi. E poi pensateci. Se il governo non avesse lavorato per l’astensione, se le urne non fossero state boicottate, quei tredici milioni di voti oggi molto probabilmente avrebbero vinto, almeno se stiamo alle medie percentuali di votanti espresse recentemente nelle urne. O comunque si sarebbe trattato di una lotta combattuta sul filo dei voti. L’astensione non è semplicemente servita a fare fallire i referendum, dunque, ma è servita soprattutto a impedire una quasi certa sconfitta del NO, con la conseguente bocciatura del Jobs act. Avremmo in ogni caso assistito a una battaglia vera, a una campagna elettorale combattuta, che avrebbe esaltato le ragioni del SI, altro che.
Lo stesso governo farebbe bene ad abbassare i toni. L’astensione è stata solo un gesto difensivo, la cui ragione era tutta nel timore di perdere il confronto referendario. Far saltare le urne è stata una decisione dettata dalla disperazione politica, quella di chi non può rischiare di perdere in campo, e quindi se ne tiene alla larga. Perché se è vero che quei 13 milioni di elettori non sono d’emblée l’opposizione, tanto meno gli altri 30 potrebbero essere ritenuti alla stregua di voti di sostegno immediato al governo. Sono stati referendum sociali, quindi, con tutte le contraddizioni possibili del caso, di cui si è cercato, sbagliando, un senso integralmente e immediatamente politico. Forse, l’errore di valutazione più grosso.
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