di Fausto Anderlini – 13 novembre 2018
La casa di cura
Noi di Mdp, tanto per farla breve, siamo la retroguardia affettiva di una armata andata dispersa. Ciò che resta di un quartier generale composto di ex generali e sottufficiali (essendo che gli ufficiali sono in gran parte dove sappiamo) più qualche reparto scelto della truppa. Dico retroguardia affettiva perchè ciò che ci tiene legati è essenzialmente un insieme di affinità empatiche: vicende, storia, cultura politica, sensibilità, stile di vita, senso dell’humor.
In sintesi: una comunità aliena. Il cui qui ed ora a dispetto di ogni contro-indicazione e circostanza avversa è stare avvinghiati, pur’anche in modo solo elettivo. Non perderci. E tanto più perchè ci sentiamo soli più che mai. Se adesso Speranza ci dice che vogliamo diventare un partito io mi farò comunque intendenza di questa cosa. Tuttavia, se devo essere sincero, terrei la cosa sottotono. Eviterei ogni enfasi, proprio tenendo conto di quell’idea maieutica alla luce della quale il nostro modo di pensare ci porta a trattare il ‘partito’. Anche per evitare di dover constatare amaramente, al caso, di essere diventati non altri che un frammento della galassia del gruppuscolame, melange di micro-burocrazie e istrioni senz’arte nè parte. Mentre darei il massimo di attenzione creativa a ciò che definirei come ‘l’infrastruttura fisica dell’affettività’.
Luoghi dove albergare una affettività densa, emotiva, quanto ragionevole e raziocinante. Perchè viviamo in un mondo che essendo in crisi è anche necessariamente isterico, e questa è la prima necessità. Non esserne travolti e contaminati. Perciò mi punge questa idea: una rete di ‘Case di cura’. Sia chiaro, non di riposo. Non un gerontocomio. Semmai una start up fervente di attività dove anche l’anziano si trovi a suo agio. Una casa di cura, non dico ad ogni campanile, ma in ogni capoluogo. Questo è stato il difetto di Leu dopo il 4 Marzo: l’idea surrogatoria di voler trarre dal fallimento di una ‘lista’ un ‘partito’. Idea bizzarra. Perdendoci in chiacchere laddove avremmo dovuto impegnarci nell’edificazione di una rete infrastrutturale dove acquartierare le nostre membra. Attualizzando la grande tradizione delle case del popolo (non essendo più il ‘popolo’ un’idea fungibile) nelle ‘case di cura’. Anche solo appartamenti o magazzini. Magari sfruttando le pratiche e il sapere dimostrato dai gruppi autonomi nello sfruttare gli anfratti del maggese sociale in ambito urbano.
Case, dunque, nelle quali ci si prende cura, degli altri, possibilmente, ma mai dimenticando sè stessi. Una rete di ritrovi secondo un format multicaratterizzato assolutamente analogo al passato: bar, cucina, sale da gioco, incontri, dibattiti, spettacolo, fitness spirituale, decontaminazione, studio, terapia, formazione, corpo di ballo ecc. ecc. La casa di cura certo non casa di bambola, ma alternativa a ogni forma liquida o fluida, realtà pietrificata e solidamente togliattiana dell’I care veltroniano. Invece che perder tempo a tiziare con la varia compagnia di Leu fra sovranisti globalisti fratoianni civatisi e altri ‘capi’ di partito.
Peraltro essendo questa la domanda e il bisogno da corrispondere. Domanda vasta, proveniente da un mucchio di gente che non si sente bene (io fra questi). Che non è detto la frequenterebbero davvero, ove ci fosse, questa casa di cura, ma che è utile e bello sapere che c’è. Fornendo la sicurezza, in sè già rasserenante, del ricovero estremo, se non di una clinica accogliente. Certo non rinunciando all’idea del ‘partito’, se l’aura, le circostanze, l’evolversi del caos forniranno il destro allo scopo. Intanto, edificate le ‘case di cura’, basterebbe un comitato centrale che le coordini secondo un protocollo unitario, rinunciando a ogni leader prestanome, ma con Bersani come ‘primario’ della Ditta, data come detentrice del logo la compagna Mauthe.


