di Alfredo Morganti 15 gennaio 2019
Qual è il paradosso della #sinistra? Questo. Viene accusata di non autoriformarsi, di avere una visione del sociale antica e pensare ancora alle classi, di non esprimere ‘novità’ e non essere ‘nuova’, di non avere un leader, di peccare di ‘politicismo’ e di non aver aperto alla società civile, di chiudersi nelle proprie ‘salde’ convinzioni, di non capire i media né di comprendere il ruolo che oggi svolge il ‘popolo’ rabbioso per le disuguaglianze sociali che lo affliggono. Tutte manchevolezze e incomprensioni, a causa della quali essa perde passi e colpi, avvinta in una crisi insuperabile. Ma è davvero così? Niente affatto. In realtà la crisi della sinistra, a mio ingenuo parere, dipende proprio dal fatto che la sinistra ha sposato tutte queste cause, non se n’è fatta mancare nemmeno una. Eccolo il paradosso.
Nessuno più della sinistra è stata capace di autoriformarsi. Oggi è irriconoscibile persino rispetto a dieci, venti anni fa. Ha totalmente rigettato la propria antica visione del mondo (classi, sfruttati, sfruttatori, mutamento radicale dei rapporti sociali) ed è divenuta nel tempo radical, liberal, democratica, federalista, sovranista, populista: troppo si è rinnovata, quasi sempre con scarsi risultati. Altro che pensare alle classi: dopo gli iniziali afflati radical-liberali sul tema della ‘cittadinanza’, dei referendum, delle riforme elettorali, ha decisamente virato sul corpaccione del ‘popolo’ oppure si è scoperta vicina alle élite. ‘Nuova’ lo è da almeno 30 anni: non c’è nulla di più nuovo al ‘mondo’ della sinistra (alla faccia della destra, che dopo un secolo e più ancora indossa gli scarponi chiodati). Leader ha tentato di darsene a iosa, sfruttando la spinta propulsiva dei partiti liquidi, delle coalizioni larghissime e dei maggioritari (con premio annesso). Il leaderismo (e prima ancora la personalizzazione) a sinistra sono di casa, è il senso della politica come impresa collettiva, semmai, a mancare.
‘Politicista’, la sinistra non lo è più da decenni: nel tempo si è presentata come economicista, governista, radical-chic, salottiera, movimentista, populista, coalizionista. La politica è divenuta, a sinistra, una specie di orpello, un po’ come Baricco che vorrebbe fare analisi e cambiare il mondo senza politica, politici, partiti e annessi/connessi. Così, alla ‘come viene viene’. Salde convinzioni non se ne vedono più da tempo, peraltro: ci vorrebbe a questo scopo un’etica, una morale, una cultura politica, una certa convinzione, magari un partito: tutta roba d’altri tempi. Roba attuale sono invece i media, che ci sono entrati nel DNA come le primarie, le Leopolde e le locuzioni tipo ‘ci metto la faccia’. Siamo più narratori noi di Baricco, per dire. In ultimo, si accusa la sinistra di non capire il popolo. Semmai non capisce più le classi, le contraddizioni di classe, i ceti, le figure sociali, il conflitto fondamentale, ma il ‘popolo’ hai voglia se lo capisce. Anzi, lo coccola, lo vizia, lo vezzeggia in quanto serbatoio di voti, vorrebbe privarlo di tasse e imposte, lo insegue come un mito, lo blandisce e lo lusinga chiamandolo sovrano. Non il sovrano della Costituzione, no, non quello limitato nella sovranità dalla Costituzione stessa. Ma quello tormentato e impulsivo che prende corpo nelle menti straniate degli aspiranti leader. E men che mai lo affronta e nel caso sa contrastarlo, eleggendolo a soggetto attivo di un progetto democratico che sia politico e istituzionale nello stesso tempo. Piuttosto la sinistra il popolo deve ‘conquistarlo’, come direbbe qualcuno.
Eccolo il paradosso: ciò di cui la sinistra viene accusata come manchevole, rappresenta in realtà la sua migliore realizzazione, il suo vanto più grande. Se la sinistra è in crisi è perché ha inseguito la novità e perduto se stessa. Se oggi boccheggia è perché non dice più ‘lavoratori’ ma si concentra sui gilet gialli. Se sbraca è perché si è ubriacata di società civile invece di posizionarsi saldamente in quella politica, casa sua. La sua autoriforma le è costata carissima, praticamente l’identità. L’apertura abissale verso i media l’ha pagata diventando ancella della comunicazione. I suoi sogni sono diurnamente sconvolti da quello spettro definito ‘popolo’, che oggi sono i gilet gialli, domani gli operai che vogliono cacciare i negri, dopodomani i padroncini. Tutta gente che vota, ovviamente, in cui ci si tuffa a catturare il consenso a ogni prezzo. Magari per conquistare seggi e ‘vincere’ le elezioni, lasciando ovviamente impregiudicato il tema del ‘governo’ (che tanto è roba per le élite sanguisughe). Un po’ come i gialloverdi odierni, che sbancano le urne e i sondaggi ma poi non sanno che pesci prendere a Palazzo Chigi e danno, infine, la colpa di tutto ai tremendi funzionati élitari dello Stato.
Ed eccolo il rinnovamento della sinistra, di cui si parla da decenni, eccolo qui davanti: statuario. Craxismo, occhettismo, referendum, maggioritario, svolte, scatoloni, primarie, premio, antipolitica, populismo, semplificazione, convènscio, sovranismo di ritorno, riforma costituzionale, sbornia comunicativa, guru, camper, treni, aerei, missili, sputnik. Tutto meno quel che serve. Ossia la partecipazione organizzata dei lavoratori, degli ultimi, di chi vive il disagio sociale, di chi è reietto socialmente in uno (o più) partiti impegnati a difendere le istituzioni, organizzare il conflitto, confrontarsi democraticamente, e non a cavalcare e fomentare scioccamente la piazza, la sommossa, i rancori, i risentimenti, gli odi, i razzismi, le pance, le urla, le grida, il casino sociale in nome di chissà quale riforma o rivoluzione spettrale o di comodo. Anzi a dirla tutta, questi rancori sono l’epifania e la testimonianza diretta, palmare, della fine della politica, della sua capacità di dare forma al conflitto, di potenziare la democrazia con la lotta e la partecipazione invece di scassarla del tutto tanto per fare bingo alle elezioni e dimostrare chissà quale stolida ‘potenza’ politica.


