Pd e soliti sospetti. Su tradimenti, scissioni e vincoli di mandato

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fausto Anderlini

Si dibatte sul vincolo di mandato. E al centro dell’attenzione c’è il deprecabile fenomeno dei saltafossi. Tema paradossale non solo perché un ‘sacro principio’ (il deputato come libero interprete della rappresentanza della ‘nazione’ tutta intera) trova la sua verifica nella parte più blasfema delle umane convenienze. Ma perché trattasi di rappresentanti selezionati per via imperativa. Cioè nominati in via diretta da specifici monopolisti politici. Che dunque, legittimamente, ne rivendicano il ‘possesso’. Sicchè si giunge all’estremo paradosso per il quale la libertà espressiva del rappresentante viene incarnata da clienti in cerca di un migliore offerente.

Ma in questa strampalata querelle, nella quale il parlante meglio disposto ha quantomeno la rogna, c’è un aspetto stranamente trascurato che chiama a un supplemento d’indagine. Tutta l’attenzione è infatti concentrata sul ‘deputato’ che tradisce la lista nella quale è stato eletto. Ma come la mettiamo quando è il partito stesso che cambia natura e tradisce il programma di mandato assegnato ai rappresentanti? Una questione di sostanza come poche.

Il Pd costituisce in materia un caso di scuola. Nel 2013 i suoi rappresentanti vengono eletti su un programma ‘Italia bene comune, guidato dal segretario Pierluigi Bersani. Dopo breve scorcio di tempo il partito viene conquistato da Renzi il quale stravolge l’impianto programmatico e persino identitario del partito impegnandosi nella rottamazione (cioè nell’espulsione di fatto) della parte divenuta minoranza. Il gruppo parlamentare si mette al seguito, tradendo il mandato, ma restando fedele al partito che nel frattempo ha cambiato leadership, programma e identità, tradendo sé stesso. Di fronte all’accusa di ‘scisssionismo’, divenuta uno stigma di uso consuetudinario, ha ragione Bersani a inalberarsi indignato. Lui non ha tradito nessuno. E’ rimasto dov’era. E’ stato il partito renziano a secedere dal luogo politico che era storicamente del Pd. Una scissione di maggioranza.

A ben vedere anche Renzi può con qualche ragione rivendicare una analoga coerenza. Lui i deputati li ha fatti eleggere su una linea (la sua) che adesso il partito ha messo in mora. Non è lui che esce ma è il partito che è uscito da lui.
Però la somiglianza finisce qui. Perché il dato di fatto che qui vale rimarcare è che rispetto al corso degli eventi Bersani (e noi con lui) aveva ragione (Renzi no). Giusta era la linea di cercare un approccio coi 5S, giusto il richiamo alla ‘mucca nel corridoio’, giuste le posizioni assunte in merito alla politica sociale e istituzionale messa in atto dal Pd renziano. Giusta la posizione assunta da D’Alema all’atto del referendum. Tanto è vero che adesso il Pd si muove in materia su una linea che allora D’Alema interpretò con estrema chiarezza.

Si pone oggi, per molti di noi, il problema se rientrare nel Pd mondatosi di Renzi. Personalmente non ho problemi. Ma con una precisazione. Ri(entrare) sarebbe un atto fiduciario e razionale e come tale richiederebbe chiarezza di intenti. Che nel caso è una valutazione scevra di pregiudizi sui trascorsi della vecchia unità familiare. Cioè l’assunzione di responsabilità di chi veramente ha abbandonato il tetto coniugale. Per ri(entrare), in sintesi, dev’essere il Pd di Zingaretti a chiederlo riconoscendo chi furono i veri scissionisti. Chi effettivamente tradì il mandato. E’ una questione simbolica, che però (specie per chi non è beneficiato di un ministero e un sottosegretariato) è tutto.
Per quanto mi riguarda o mi si spalancano le porte della cattedrale (evento improbabile, come la montagna che si muove verso Maometto) o resto nel minialloggio. Sono troppo pieno di quel che resta di me per rientrare di soppiatto dalla finestra. Cosa per la quale sarebbero richieste doti acrobatiche che difettano. Se non altro per l’età.

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