Nella sua ultima sera mio padre, che più non parlava nè vedeva, ormai del tutto immobile, mi prese la mano. Non la strinse, nè si aggrappò ad essa come in uno spasmo vitale. Fu come una carezza. Mi toccava. Sento ancora quel contatto come una colpa per non avere fatto caso che era l’ultimo. Una imperdonabile noncuranza.
La cosa più atroce di queste dipartite non è lo sbrigativo stoccaggio delle salme nè l’aggregazione dei morenti in un orrorifico bollettino statistico. E neppure l’assenza di funerali per la gestione del lutto da parte di congiunti e conoscenti. Una volta usciti dalla guerra pandemica ci sarà modo di recuperare queste bare alla memoria collettiva come si fa col ‘milite ignoto’, Ci saranno funerali di Stato e poi si farà festa. Prima di affrontare il duro e incerto calvario della ‘ricostruzione’. E comunque la fossa comune è anche il destino degli eroi.
Immagino queste persone agonizzanti che cercano una mano. In quelle caotiche stanze di rianimazione frequentate da operatori frenetici, sfiancati dalla fatica, bardati e irriconoscibili. E non la trovano. L’ultimo desiderio, la mano, il bacio, la carezza, la voce amata, la sigaretta. Questo è atroce.


