Amore e cibo ai tempi del coronavirus
Provo quasi piacere che i ristoranti d’haute cuisine siano in disgrazia. Ho una istintiva avversione verso lo chef, che è divenuto, come dimostrano i programmi televisivi, l’ammiraglio indiscusso della filiere eno-gastronomica e della pretesa culturale che l’accompagna, Considero l’emersione sociale di questa figura come una delle più proterve espropriazioni operate ai danni della femmina come ‘grande cuoca’. La detronizzazione della donna come dea artemidea della cucina. Lo chef è stato il veicolo di una maschilizzazione, neppure troppo larvatamente omo-sex, del delicato rapporto cenestesico e sensitivo che unisce i due generi nel rapporto col cibo.
Le cucine dei ristoranti à la page (non parlo certo delle trattorie familiari o di una pizzeria nella quale il cuoco è in realtà un semplice fornaio) sono androcei militari sottomessi a un capo (lo chef) che guida la fabbrica del cibo come impresa commerciale. La riproduzione in chiave venale del rapporto che nella dimora aristocratica legava il maggiordomo alla servitù. Una attività troppo seria per essere affidata alla donna. Virile e nello stesso bramanica, che rende il cibo sacro e la femmina una casta inferiore, ovvero impura (infatti il sistema delle caste è ostile alla commensalità intercetuale, fonte di contaminazione, tanto è vero che i bramini sono spesso anche cuochi, chef ante litteram).
Come tale il perverso rovesciamento della pretesa di parità propugnata dal femminismo. Giacchè quello che alla fine si è consumato è l’espropriazione della cucina dal dominio femminile. Senza che peraltro si aprissero per la donna ’emancipata dal ruolo domestico regni sostitutivi di analoga significanza.
Ogni buon matrimonio ha il suo centro di verifica non nel talamo coniugale, ma nella cucina. Le relazioni di coppia dove è l’uomo che sta ai fornelli sono generalmente nevrotiche, dispendiose e male assortite. Questo non significa che l’uomo non possa trovare diletto nel cucinare, diletto che si da, come nelle gran bouffe fra amici, scapoli o ammogliati, esattamente come eccezione alla regola. Una vacanza sabbatica utile semmai a confermare, nella sua cadenza, la forza del vincolo coniugale.
Una donna che ‘sa far bene da mangiare’ stabilizza e dota di spessore il rapporto matrimoniale, o di convivenza fra i generi. Contrariamente al membro sessuale che può andare incontro a lunghe latenze usuranti (a maggior ragione nella routine coniugale) la papilla gustativa è sempre eretta, attiva e bisognosa di soddisfazione. Ininterrottamente. Lo sapevano bene i nostri padri. In una chiacchera da bar mai avrebbero messo in comune le performances erotistiche matrimoniali, non solo per rispetto alla sposa, ma anche perchè nella comitiva maschile la cosa non destava alcun interesse. Tanto quanto, all’opposto, era motivo di grande orgoglio potere esibire una moglie che ‘sapeva far bene da mangiare’. Magari invitando gli amici per mostrare trionfanti quanto fosse vero.
Del resto la cucina dove la donna regna sovrana non è un ghetto servile. Solo gli uomini stupidi e poveri di spirito ambiscono di essere serviti in casa, compensando la loro inferiorità sociale. Nessuna donna maltrattata o trattata da serva farà mai bene da mangiare. Perchè il cibo servito dalla donna è un dono che ne conferma la superiorità specifica. Dare la vita, dare da mangiare, dare il corpo nella sua fertile potenza. Qualcosa di religioso. Di evangelico. Lo sa bene anche il prete che se si arroga il monopolio di somministrare l’eucarestia e solo per godere in canonica il pranzo preparato dalla sua perpetua. Quella sì una vera comunione dei sensi.
A scanso di equivoci vale precisare che la cuoca può al caso primeggiare sull’uomo in ogni altro campo sociale. Ma è in quanto cuoca che realizza la sua supremazia come genere, piuttosto che come manager, scienziata o altra occupazione di prestigio: nella società professionale si è tutti eguali e il talento e il potere non hanno sesso, se non come conseguenza statistica di discriminazioni al caso limitabili con qjualche risarcimento paritario. Come già scriveva Simmel la realizzazione della specificità femminile non può consistere nel fare nello stesso modo quello che fanno gli uomini. E’ nella cucina che la donna realizza la sua ‘differenza’ offrendo al maschio l’occasione di una conturbante sottomissione. Con ciò realizzandolo come uomo. Mai fu usata espressione più infelice di quella usata da Lenin in Stato e rivoluzione con quella cuoca chiamata per default a occuparsi di amministrazione pubblica nel comunismo compiuto. La cucina è in verità la sede della più intima delle comunioni. Il vero talamo generatore di ogni sublime commistione.
In America una delle ragioni che ha contribuito a una divorzialità patologica malgrado l’attitudine di pregare ogni volta che portano qualcosa alla bocca è che la gente non mangia più in casa ma al fast-food. Nella dimora la cucina esiste solo come elettrodomestico inerte e la donna è stata sostituita dal frigo dove si va a spiluccare in ogni momento.
Fortunato chi in questa clausura pandemica ha potuto godere di una cucina con signora. Chi nel mazzo della varietà ha pescato una cuoca esimia e perciò anche più bella di quanto già non sia. Utile per far gioire le papille anche in tempo di carestia, facendo nozze coi fichi secchi e consolandosi di ogni amarezza patita nella vita sociale. Magari anche capace di ricette afrodisiache. Non è il mio caso. Il destino ha voluto, cinico e baro, che fossi solo lo squallido sguattero di un desolato microonde. Come farsi una sega invece di mangiare, E quindi vivere. Lo dico mentre osservo una pila caotica di piatti sporchi da lavare. Buonanotte.


