Autore originale del testo: Gianni Cuperlo
Barriere antirumore “incollate col vinavil”.
“Le manutenzioni le abbiamo fatte calare, più passava il tempo più ne facevamo meno (…) così distribuiamo più utili” (Gianni Mion, amministratore delegato dei Benetton, Edizione Holding”).
L’arresto, ieri, degli ex vertici di Autostrade porterà, come ha da essere, agli sviluppi giudiziari conseguenti, però due note si debbono poter fare.
La prima, a questo punto, è di buon senso.
Il quadro (nel senso del contesto operativo e della filosofia gestionale) che esce dalle carte rese pubbliche è incompatibile con qualunque trattativa tesa a comporre interessi totalmente contrapposti.
Da una parte c’è lo Stato che ha il compito di tutelare e preservare la vita dei cittadini, dall’altro una holding con molto potere che punta senza scrupoli a capitalizzare il profitto e i dividendi da spartire, anche a costo di trascurare consapevolmente investimenti necessari alla sicurezza delle opere loro affidate.
Se ho compreso le 140 pagine dell’ordinanza non c’entrano col crollo del ponte Morandi, giusto richiamarlo, ma neppure c’entrano con una mal posta questione di garantismo. Sulle colpe o i reati decideranno i giudici. Sulla dignità dello Stato decida la politica con la revoca della concessione.
La seconda nota ha a che fare con la natura di un certo capitalismo.
Leggendo le frasi dei manager sul mancato investimento per la messa in sicurezza della rete autostradale il pensiero è tornato lì, a una vicenda di cui tanto si è parlato e scritto. Nel mio piccolo l’ho fatto anch’io alcuni anni fa in un libretto uscito da Donzelli.
Lo avevo fatto così e altre volte qui sopra alcuni tra voi lo hanno letto, ma oggi forse è bene riproporlo perché ha molto a che vedere con la storia di ieri e l’apertura dei giornali di stamane.
“Al cimitero di Torino c’è un angolo dove stanno accostate cinque lapidi. Leggi i nomi e hanno tra i ventisei e i quarant’anni, poco più. Dovrebbero essere due in più, ma chi manca aveva una tomba di famiglia e sta lì. Erano operai di una fabbrica, lavoravano acciaio. Lo stabilimento, come loro, non esiste più. Andava chiuso e il lavoro trasferito altrove.
Il fatto è quello. Tra il 5 e il 6 dicembre del 2007, nel turno di notte, sono in otto a lavorare su un forno lungo decine di metri dove l’acciaio si deve temprare e ripulire, avviene a poco meno di milleduecento gradi. Cinque di loro sono dentro un vano schermato e da quella postazione azionano i comandi.
Poi il nastro con la materia incandescente oscilla e le scintille principiano una fiamma. Può accadere, quelli sanno cosa fare, escono con gli estintori, ma li trovano scarichi. Segue un’esplosione e l’onda invade lo spazio, se li divora. Il racconto degli attimi è il male senza aggettivi.
Si salva Antonio, riparato da un muletto, ora siede alla Camera in un banco qualche fila sopra il mio. Quando una fabbrica si dismette deve essere come vicino a un trasloco. Se il rubinetto perde dirai, “tanto tra poco non servirà “, e per quanto scarso sia il costo conviene risparmiare. Così pure l’estintore e le norme di sicurezza prescritte dalle leggi. Appunto, prescritte.
Passano quattro anni. È il 9 maggio del 2011 e a Bergamo si tiene un’assemblea di industriali. Entra l’amministratore delegato dell’impresa tedesca, lo hanno condannato in primo grado con una sentenza in certa misura storica. Per la prima volta il giudice ha riconosciuto l’aggravante del dolo. Non si applaude alle sentenze, si rispettano. Invece a Bergamo quel giorno applaudono, le gazzette parlano di ovazione. Di sostegno a chi secondo un tribunale aveva stuprato l’etica del suo mestiere colpendo vita e dignità di sette famiglie.
Quelli in piedi a battere le mani. Ma gli estintori erano scarichi.
Ecco, è tutto qui. Se davanti a questo la sinistra non ritrova la sua gente, chiamate chi volete, un genio, il papa o Che Guevara. Non salveremo nulla di quanto abbiamo ricevuto. Ma se davanti a questa e a mille altre pagine la politica avrà l’istinto di chiamare le cose col nome, ribaltare il tavolo, pretendere giustizia, urlare indignazione e lottare – lottare – allora tutte le divisioni di adesso le sapremo gestire perché qualunque sia la fonte troveremo spazio e senso da dove ripartire.
Accadrà, giuro, Perché, come al solito, la storia stupirà.”
Chiamare le cose col loro nome vuol dire anche sapere che esiste un modo di concepire il capitalismo incompatibile col principio del rispetto e della dignità umana. Dovremmo riscoprire e collocare nell’oggi alcuni fondamenti senza i quali la politica stessa si riduce a poco più che una tecnica talora oscena.
A rammentarcelo non è solo la storia, con la maiuscola. Lo fa anche la cronaca, e tanto dovrebbe bastare.


