Pochi contro Molti, il conflitto politico nel XXI secolo

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Gianni Cuperlo

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Ieri sera è stata una bella conversazione (presentavamo il saggio di Nadia Urbinati: Pochi contro Molti, il conflitto politico nel XXI secolo, Laterza 2020), quindi in primo luogo grazie a Cinzia e all’Associazione Alfredo Reichlin per il progetto importante che hanno avviato.

Nadia Urbinati ha scritto un libro che si legge facilmente anche se densissimo di note che invitano a riflettere.
Parlandone ieri a lei dicevo che se esistesse una cattedra dalla quale imporre dei precetti al gruppo dirigente della sinistra, o anche solo del Pd, sarei dell’idea di considerare questo suo come testo obbligatorio…della serie, “ti vuoi candidare alle primarie, vuoi fare il consigliere comunale, regionale, il Parlamentare, bene tra i testi per l’esame di ammissione devi portarmi questa analisi sullo stato della nostra democrazia”.

Ora, la prima ragione di questo mio slancio è che il testo restituisce dignità e funzione al concetto di conflitto. Lo fa sino dalle prime righe, ma poi lo argomenta in punta di dottrina e collocando quel termine nel cuore delle nostre contraddizioni.

Semplificando molto (cosa che Nadia non fa), se per un ventennio (anche più) distruggi le forme organizzate (e partecipate) della rappresentanza sociale nella sua proiezione dentro le istituzioni, non puoi stupirti se il conflitto (per come lo avevi ereditato nel solco delle democrazie costituzionali) non scompare, ma muta di sostanza e forma.
Letta così, la vecchia organizzazione politica era anche lo strumento che culture partigiane avevano per compensare lo strapotere finanziario dell’avversario “di classe” (tradotto volgarmente: quelli, “i padroni”, avevano i soldi, di qua c’erano le persone, da lì e per una lunga fase battezzate militanti).
Togli alle culture popolari, radicate nei gruppi sociali di riferimento, questa dimensione e il conflitto può rapidamente declinare in forme di ribellismo dove l’invidia da viatico di riscossa sociale si riduce a miccia del rancore.
Potrei aggiungere, togli a quelle forze la percezione di una identità (sentirsi parte di qualcosa che si misura, opponendosi, a interessi di altro segno) e il rischio è di annullare ogni residua identità (se la nuova discriminante non è più tra destra e sinistra, ma tra innovatori e conservatori sarà più complicato motivare il senso del conflitto).
In questo senso è curioso che si torni alla logica da anni ’90 (Si vince al Centro), e ancora più curioso che ci sia chi lo fa proprio mentre un liberal come Macron si avventura, non per caso, in una critica sferzante del capitalismo finanziarizzato dell’ultimo mezzo secolo.
La conseguenza di tutto ciò è stata anche in una perdita di valore della rappresentanza col primato spostato sul versante della governabilità (è la nostra parabola se guardiamo all’ultimo mezzo secolo).

Ma non è accaduto per caso: succede perché nello scontro ideologico a un certo punto la fase espansiva dei diritti e della crescita (i trenta anni gloriosi del secondo dopoguerra) lascia spazio a uno scambio diverso (tra consumi e debito, pubblico e privato).
A quel punto l’egemonia si sposta verso i nostri avversari: con una destra che sfida il progressismo non già e solo sul piano delle politiche, ma dei valori che ispirano un patto sociale (non voglio rendere le cose troppo banali, ma senza citare Reagan o Thatcher viene a mente il Gordon Gekko di Wall Street e la parola chiave raccomandata agli studenti del corso di economia, “avidità”).
Dentro questo schema il distacco tra i pochi e i molti (titolo del saggio) si riempie di nuove pagine.
Per un verso la domanda di rappresentanza si trasferisce fuori dai soggetti (i partiti storici) dotati di ideologie (o gerarchie di valori) ben riconoscibili e riferibili a blocchi sociali definiti (penso alla sfera della cittadinanza attiva, dalle Ong a cooperative sociali dove il confine tra offerta di servizi e partecipazione si fa sempre più labile).
L’altro effetto è una frammentazione della battaglia per quegli stessi diritti che non trova più (o fatica molto a trovare) una sua “unitarietà” (avrebbe detto Rodotà), e forse in questo sfrangiarsi della lotta per un accesso alla cittadinanza c’è anche la prima vera abdicazione alla funzione di una politica come visione, strategia.
A quel punto chi rimane estraneo al processo (cioè chi non trova o non cerca una chiave per la rappresentanza dei propri bisogni precipita nell’indistinto dei “molti”, apolidi di una appartenenza che è prima di tutto coscienza di sé, quella che per lungo tempo era stata “coscienza di classe”).
I pochi (la nuova élite) diventano gli antagonisti della democrazia perché sono i contorni, le regole del patto democratico (a cominciare dal diritto alla mobilità dentro l’organismo sociale) a vacillare.

Tutto questo in qualche modo deriva dalla rimozione di quel concetto – conflitto – che rimane alla base dell’edificio democratico.
L’effetto? Gli effetti sono molti e il libro li descrive, tra tutti pesa il fatto che le leadership sovraniste, nazionaliste, nel linguaggio, nelle posture, nella concezione della loro funzione (dunque nell’esercizio del potere) diventano rapidamente l’espressione di questo mutamento.
Per cui certo che Orban può parlare del suo modello di governo e di Stato come di una “democrazia illiberale”, ma lo può fare perché prima ha rimosso alcuni dei caposaldi di un regime democratico (libertà di stampa e di espressione, autonomia della ricerca, indipendenza della magistratura).
E siamo a noi, all’oggi: a una distanza tra gli insider e chi sta fuori, distanza che si fa “esistenziale” (sono 2 popoli che non condividono molto più dell’aria che respirano e spesso neppure quella).
Per certi versi è un po’ l’avverarsi della profezia thatcheriana sulla società che non esiste perché esistono solo gli individui”, se volete con la chiosa letteraria per cui “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”.

La conclusione?

Che se per decenni decurti le risorse del pubblico (salute, scuola, mercato del lavoro inteso come tutela di diritti) è inevitabile che tra le conseguenze vi sia un incrinarsi della democrazia se la intendiamo come ancoraggio per smuovere i rapporti di forza, contrattuali e di potere.
A quel punto subentrano rancore e frustrazione e ritrovare la bussola non è semplice, ma per la sinistra diventa decisivo (almeno riprendere la ricerca e lo devi fare tanto più se ti risvegli nel cuore dello spartiacque di tempo e storia nel quale siamo immersi noi adesso, alle prese come siamo con la prima vera pandemia della nostra vita).
Ok, scusate la lunga parentesi seriosa, ma per una volta oltre al consiglio di lettura in sé (lo ricordo ancora una volta: Pochi contro Molti. Il conflitto politico nel XXI secolo, Laterza 2020) mi pareva giusto dirvi perché è una lettura preziosa.



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