Autore originale del testo: Fausto Anderlini
La fine della signoria
Ancora due anni fa c’erano entrambi e almeno fino alla metà del 2016 erano quasi autosufficenti. Fino ai 99 suonati mio padre non ha usato alcun pannolone ed armato di un bastone provvedeva da sè all’igiene corporea. Sebbene costretta a trascinarsi con un ausilio avendo perso l’efficienza di una gamba mia madre ancora armeggiava ai fornelli. Deambulavano per il piccolo appartamento in affitto e si apostrofavano con toni affettuosamente giurassici. Lei diceva: “Mario siamo come i dinosauri”. Col tempo mio padre aveva arredato il tinello e il corridoietto che dava al bagno come una specie di hall of fame se non un mausoleo. C’erano, e ci sono ancora adesso, gli attestati aziendali, le bergamene (come le chiamava) compilate dagli amici nei vari genetliaci e due rari documenti ‘storici’: il conferimento della medaglia d’argento con firma autografa di De Gasperi e il ringraziamento del generale Montgomery per aver salvato un ufficiale americano. Per quanto non abbiano mai posseduto una casa nè alcun bene ereditario, entrambi hanno sempre vissuto la dimora come il regno dell’ordine e dell’identità. Lo spazio, per quanto semplificato ma efficiente, della loro ‘signoria’. La famiglia nucleare operaia affettiva, sublime concentrato di dignità ed autonomia, perfetto equilibrio nella cooperazione di genere e scuola di una vita intima socialmente responsabile, cioè inserita nell’orgoglio civico e di classe di una nuova condizione urbana, è stata un episodio limitato ai trenta gloriosi. Un lampo nell’interregno che succede alla fine del mondo agrario patriarcale con la sua famiglia allargata e si chiude con lo sfacelo demografico dell’epoca post-moderna. La famiglia-tipo della città industriale, si potrebbe dire anche la famiglia ‘costituzionale’, composta da contadini inurbati e affrancati dalle servitù agrarie. Rovesciando la tesi weberiana sono questi inediti attori sociali di una spettacolare transizione sociale che hanno reso ‘libera’ l’aria della città. Il nuovo lavoratore salariato è sovrano nella società, col partito e il sindacato, ed è sovrano a casa propria. La famiglia, per quanto alloggiata alla belle meglio e con inauditi sacrifici per pagare la pigione (mia madre, coadiuvata da tutti noi, integrava il reddito con un gravoso sfruttamento a domicilio) è sede della dignità personale. Per le scale del condominio, in strada come sui pianerottoli, ci si saluta come ‘signori’. Alle donne ci si rivolge con deferenza come la ‘signora’ tal dei tali e ci si da del ‘lei’. I cafoni meridionali che migrano a Bologna sono stupefatti di trovarsi elevati d’un colpo a questa dignità e diventano comunisti all’istante. Per riconoscenza. I figli sono amati, ben tenuti, curati, vestiti con decoro, mandati a scuola, seguiti nei compiti a casa. Per loro s’immagina un futuro migliore. Ed è lì che noi siamo stati allevati. La famiglia nucleare operaia provvede da sè alla propria riproduzione nel mentre è solidale nella propria specie. Scambiare favori alla pari, fra parenti, amici, coinquilini, compagni di lavoro, è nella sua natura di origine contadina. Il lavoro servile è bandito, sia nella forma attiva che passiva. Chi per la povertà è costretto alle attività domestiche per altri si sente inibito a una vita decorosa. Ma è letteralmente inconcepibile avvalersi di lavoro servile. Per convinzione ideologica prima ancora che per necessità. La famiglia operaia non ha reddito per ingaggiare una donna alla pari e se deve acconciarsi a qualche forma allargata o multipla è solo perchè è così povera da dover coabitare con una famiglia di consanguinei. Diventare ‘signori’ significa saper provvedere a sè stessi. Nessuna nuova ‘signora’ ambisce a diventare una signora borghese che non sa fare nulla (cucinare, lavare, stirare, cucire….) e si avvale dei servigi altrui. Esattamente come il lavoratore autonomo di quel tempo, profondamente inserito nella vita sociale del quartiere operaio, non si sente un ‘padrone’, bensì un lavoratore emancipato dal padrone. La casa è il regno di questa nuova signoria familiare e non sono ammesse intrusioni: una forma peculiare di privatismo sociale egualitario basato su una orgogliosa autosufficienza. Infatti quando sono arrivati alla fine e si è dovuti ricorrere ai servigi di qualche donna a ore e infine alla badante dell’est i miei hanno sempre guardato di traverso la nuova presenza. Non per per alterigia. Tutt’altro ! Ma perchè sentivano i nuovi venuti come degli intrusi nel loro spazio sovrano. L’epitaffio amaro di una eclisse esistenziale. La fine dell’epopea della loro emancipazione. La morte della dignità sovrana. Della loro ‘signoria’. Convinti, come erano, che l’unica persona libera è quella che sa provvedere da sè alla propria riproduzione.
In quel mondo sono stato allevato. E sebbene abbia in grande stima ed affetto tanti amici che hanno conservato con amore il ricordo della loro ‘tata’, non posso non pensare a come abbia avuto la fortuna, pur se malamente sciupata, di avere condiviso un ‘privilegio’. D’essere stato il cadetto dell’unica aristocrazia degna del nome.





