Autore originale del testo: Vincenzo Dambrosio
IL PECCATO ORIGINALE (E NON SOLO) DELLO STATO ITALIANO
“Fatta l’Italia. Ora pensiamo a fare gli italiani” (Massimo d’Azeglio)
Credo, con tutta modestia, che quanto auspicato dal grande statista piemontese non si sia ancora realizzato. Questo giudizio su considerazioni, fatte “ col senno di poi, ” non vuole essere e non può considerarsi come sommaria condanna per tutto quello che è successo in Italia dal 1861 a oggi.
Le considerazioni, che mi accingo a fare, hanno lo scopo essenzialmente di capire il passato, spiegare il presente e soprattutto pensare al futuro!
Sul finire del’700 l’Italia era solo un’entità geografica. La necessità di unificare politicamente la Penisola in uno Stato nazionale era sentita soprattutto nella borghesia del Nord che, dopo il fallimento dei velleitari tentativi rivoluzionari, finì con appoggiare l’azione del piccolo Regno Sabaudo. Regno, che visto come argine al predominio in Italia dell’impero Austro Ungarico, poteva contare sull’appoggio della Francia e sulle simpatie inglesi, interessati alle rotte del Mediterraneo.
Con l’impresa dei Mille nel 1860, favorita anche dalla gattopardesca adesione della borghesia del Sud, l’unificazione del bel Paese, da Nord a Sud, era quasi compiuta. Mancavano Roma e alcune parti nel Nord, che sarebbero state aggiunte in seguito.
Come sopra accennato, artefice dell’unità d’Italia fu soprattutto la borghesia; quella del Nord, già alle prese con la rivoluzione industriale. e quella del Sud, ancora di stampo feudale, interessata a di difendere i propri privilegi. Non ci fu una grande partecipazione popolare, specie nel Meridione. Non ci fu e non sarebbe potuto esserci perché gli interessi della borghesia risultavano in contrasto con quelli delle masse contadine analfabete, che in particolare nel Sud sognavano soprattutto un pezzo di terra da coltivare per i bisogni della famiglia).
I primi provvedimenti adottati dallo Stato unitario allargarono ulteriormente questo contrasto. La distribuzione delle terre ai contadini, ventilata durante l’impresa garibaldina, non fu attuata perché ciò avrebbe significato inimicarsi la borghesia terriera. Fu istituito per contro un servizio di leva obbligatorio di cinque anni da svolgersi in terre lontane e questo spinse tanti giovani a darsi “alla macchia”. Nel Sud scoppiarono rivolte popolari, Inizialmente fomentate dallo spodestato re di Napoli e dallo Stato Pontificio per scopi facilmente intuibili. La dura repressione, con cui il nuovo Stato reagì, le trasformò in una vera e propria guerra civile. La Storia “ufficiale” la etichetta ancora oggi come “lotta al brigantaggio” Fu invece vera guerra combattuta aspramente per dieci lunghi anni dal 1861 al 1870, intrisa d’inganni e tradimenti. L’esercito regio si macchiò di crimini orrendi, anche a danno di gente inerme, tanto che non sembra esagerato affermare che fu perpetrato un vero e proprio genocidio.
Se per questo pessimo inizio sarebbe pure possibile individuare delle attenuanti, per quello che si fece o non si fece dopo, è difficile trovare giustificazioni. Come giustificare una legge elettorale, che riconosceva il diritto di volo solo a una esigua minoranza? Potevano votare, infatti, solo ai maschi adulti, alfabeti, previo il pagamento una elevata tassa, abolita poi con la riforma del 1882. Alle elezioni del nuovo Parlamento nel 1861 gli aventi diritto di voto furono solo il 2% degli italiani, che diventarono il 6% con la revisione della legge di 20anni dopo. Come giustificare le avventure coloniali in Africa mentre tanta gente, per la fame, si accalcava sui “bastimenti” diretti verso le Americhe? Come giustificare le conseguenze disastrose di due guerre mondiali, sia pure con esiti diversi e la pagina nera del fascismo? Come giustificare le repressioni delle lotte contadine degli anni’50? Le stragi di Stato e la strategia della tensione dell’era repubblicana, avvenute mentre le classi lavoratrici lottavano per importanti conquiste sociali?
Una serie di eventi, che finirono per creare una profonda spaccatura tra le massi popolari e lo Stato. Uno Stato, che imponeva obblighi e non riconosceva diritti, che trattava le persone da sudditi e non da cittadini, che escluse fino al 1946 la quasi totalità del popolo dal governo del Paese.
L’avere creata questa spaccatura è stato “ il peccato originale” dello Stato unitario. Difetto o peccato cui non si sarebbe posto mai rimedio, neanche col passaggio dalla forma monarchica a quella repubblicana del 1946.
In questo clima, nel tempo si sono sviluppati fenomeni, che, come erbe infestanti, gradualmente si sono diffusi dappertutto; come tarli hanno corroso tutti i gangli dello Stato; come cellule cancerogene ne hanno attaccato tutti gli apparati. La sfiducia nei confronti dello Stato ha portato i cittadini a cercare la soluzione ai propri problemi in ambito familiare o nel giro delle amicizie; a ricorrere alla corruzione per ottenere facilitazioni non dovute o subire vessazioni della Pubblica Amm.ne per vedere riconosciute prestazioni di cui si aveva invece diritto; a non sentirsi obbligati a contribuire al mantenimento dello Stato; a subire al Sud la “protezione” di gruppi malavitosi, i quali hanno finito con l’attrarre nelle loro file anche tanti giovani, lasciati allo sbando.
Fenomeni, come quello del “familismo amorale” (o più brutalmente della raccomandazione, del pensare solo ai propri interessi), dell’evasione fiscale, della corruzione, del grado di pericolosità delle “mafie” hanno raggiunto negli ultimi decenni livelli non più sostenibili. Come macigni stanno lentamente ma inesorabilmente affondando il Paese
Attenzione però! Questi non sono la causa ma gli effetti. La causa vera va ricercata in quella spaccatura, tra popolo e Istituzioni, tra popolo ed elite, di cui sopra.
In 160 anni ci sono stati tanti eventi e accadimenti, (rivoluzione industriale, fenomeni migratori, due guerre mondiali, progresso economico e tecnologico, il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica, la caduta del Comunismo ecc.), che hanno modificato di molto le componenti sociali del Paese. Sono evaporate prima le masse contadine e poi anche le subentrate masse operaie. E’ stata accantonata la secolare e mai risolta “questione meridionale” E’ mutata pure la consistenza e la qualità della borghesia. Ora il Paese è spaccato tra un’elite, che si va lentamente restringendo ma che, nel frattempo, si arricchisce sempre di più e una massa di cittadini, che invece diventa sempre più numerosa ma che vede aumentare tra le sue file la povertà.
Che cosa fare per arrestare il declino del Paese? Rifondare, riformare lo Stato?.
Se ne parla da almeno 40anni, con scarsi risultati. Chi ha voluto nel frattempo mettere “le mani in pasta” è finito o sconfitto o a fare di peggio. Valga, per tutto, le modifiche al cap. quinto della Costituzione e l’inserimento nella Carta del pareggio di bilancio. La consapevolezza che fare le riforme fosse in Italia “campo minato”, credo sia stata alla base della scelta della classe politica al governo negli anni ‘80/90, di vedere una possibile via d’uscita per il Paese in un vincolo esterno. Con l’adesione al trattato di Maastricht e a quello della moneta unica, per i quali sono stati ceduti pezzi importanti di sovranità, più di un vincolo, sembra si sia formato piuttosto un nodo scorsoio, che lentamente sta strangolando la nostra economia..
E allora? Rimanere inermi? Mai!
C’è qualcosa da fare! Si può fare tutto il necessario per rendere effettivo il principio del primo comma dell’articolo 4 della nostra Costituzione che recita: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ecc.” L’attuazione di questo così elevato principio consentirebbe di avere finalmente un popolo unito e solidale. Sempre e non solo quando in l’Italia si vincono i mondiali di calcio o in occasione di grandi calamità naturali .Appare emblematica, al riguardo, una delle frasi storiche di Sandro Pertini: “Si può considerare veramente libero un uomo che ha fame, che è nella miseria, che non ha un lavoro, che è umiliato perché non sa come mantenere i suoi figli e educarli? Questo non è un uomo libero!
Faccio fatica, però, a pensare, (ma non dispero), che quanto qui sopra auspicato, possa trovare attuazione perché si scontra con un ostacolo, che appare assai difficile da superare: ” la natura avida dell’uomo”.
L’uomo, di fronte a questa sua caratteristica, ritenuta dai più eticamente riprovevole, tende a rimuoverla dalla sua coscienza. E’ quello che fa l’elite nostrana. Per giustificare i suoi privilegi e l’eccessiva ricchezza accumulata, parla con categorie tipo“ capacità, merito, competizione” , in linea col pensiero unico ormai dominante dopo l’epurazione del Marxismo. Temendo la contrapposizione tra chi “ha” e chi “ha sempre meno o nulla”, pensa di confondere i cittadini, sollevando un presunto scontro generazionale. Secondo i nostri furbastri o ingenui, l’attuale generazione avrebbe fatto e starebbe facendo tanti debiti, che sarebbero caricati sulle spalle di figli e nipoti. E’ vero, il debito pubblico dell’Italia è arrivato a circa 2700/miliardi. Dimenticano, però, di dire che nel Paese ci sono circa 5000/miliardi di ricchezza finanziaria e almeno altri 5000 di ricchezza immobiliare. Basterebbe tassare tutta questa ricchezza a un modesto 1% (100/Mdi) per ridurre gradualmente il debito o di non farne altro e nello stesso tempo creare le condizioni per milioni di posto lavoro. Il motivo di questa loro dimenticanza è che la ricchezza del Paese è per oltre il 60% è nelle loro mani mentre l’80% dei cittadini deve accontentarsi delle briciole!
La realtà è invece un’altra!
- Gli uomini non nascono con lo stesso potenziale intellettivo e questo non dipende da chi nasce né dai suoi genitori ma da una legge di natura;
- Le condizioni ambientali sulla faccia della Terra, in cui si sviluppa di tale potenzialità, sono molto diversificate e in molti casi, avverse;
- La strada della vita per alcuni è lunga, tortuosa e irta di difficoltà, per altri , risulta spianata, per altri ancora corre in piano o in discesa
. Quello che un uomo riesce a realizzare nella sua vita dipende essenzialmente da “ un dono” (se non lo si vuole chiamare fortuna), che si riceve alla nascita e dalle condizioni ambientali più o meno favorevoli in cui si cresce. Questa consapevolezza dovrebbe portarlo almeno a mitigare la sua innata avidità. In questo consiste la mia speranza.
Creare le condizioni previste dall’art. della nostra Costituzione, sopra riportato, non significa che si debba necessariamente mangiare tutti “pane e cipolle” ma fare in modo che, anche i meno dotati o meno fortunati possano trovare un lavoro o avere quanto basta per una vita dignitosa.
Vincenzo Dambrosio


