Mosca: i musi lunghi degli oligarchi rivelano le crepe nel regime

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: ANNA ZAFESOVA
Fonte: La Stampa

Mosca: i musi lunghi degli oligarchi rivelano le crepe nel regime

Chissà con quale faccia piena di entusiasmo i responsabili della difesa avevano assicurato nei giorni scorsi al Cremlino che l’esercito russo avrebbe fatto a pezzi l’Ucraina in poche ore, mentre i suoi abitanti avrebbero accolto i carri armati russi con i fiori. Chissà con quale tono convinto i responsabili del governo avevano garantito che l’economia non sarebbe stata scalfita dalle sanzioni. Chissà quanto sono stati rassicuranti i diplomatici a promettere che l’Occidente era diviso e indeciso. Chissà come saranno apparsi preparati i responsabili della politica interna che, dati dei sondaggi riservati alla mano, spiegavano che la popolazione avrebbe appoggiato all’unanimità e che, anzi, la popolarità del presidente, leggermente appannata ultimamente, ne avrebbe beneficiato.

Ieri mattina, l’unico che sorrideva alla riunione al Cremlino era Vladimir Putin. Tutti gli altri, il premier Mikhail Mishustin, la governatrice della Banca Centrale Elvira Nabiullina, il capo dello staff del Cremlino Sergey Kirienko, sfoggiavano espressioni cupe, fronti aggrottate, bocche piegate. Ma ancora più clamoroso del malumore era la didascalia del canale Telegram Ria-Kremlinpool, quello dei cronisti che seguono la presidenza per conto dell’agenzia di Stato: «L’umore si vede dalle facce», recitava, mentre quella precedente ironizzava sulla lunghezza sterminata del tavolo al quale Putin aveva fatto sedere i suoi ministri. Un tono impossibile nella comunicazione che riguarda il presidente, tanto da far pensare che dietro ci fossero gli hacker di Anonymous che in questi giorni stanno fulminando uno dietro l’altro i siti degli organismi e dei media governativi russi.

Il tono è cambiato, da trionfante a preoccupato quando non caustico, e mentre ogni giorno la polizia russa arresta migliaia di persone che scendono in piazza contro la guerra, anche ai piani alti del regime la rivolta è ormai visibile. Lo scontento forse più sorprendente è l’oligarca Oleg Deripaska, nei cui resort Putin era solito andare a sciare, e sui cui yacht facevano le crociere i responsabili della politica estera russa: «Non riusciremo a resistere stringendo i denti, come nel 2014», avverte. A spaventarlo ci sono le stesse cose che stanno facendo disperare i russi comuni: il tasso della Banca centrale balzato al 20%, quello dei mutui ipotecari salito al 15%, demolendo il mercato immobiliare, il rublo in caduta libera. Dai bancomat russi sono stati prelevati trilioni di rubli, ma soprattutto scarseggiano dollari ed euro, e la forbice del prezzo di vendita e di acquisto di valute occidentali ha raggiunto il 50%: in altre parole, nessuno vende moneta forte in cambio di rubli che rischiano di diventare i soldi del Monopoli.

Le sanzioni occidentali, e le contromisure di Mosca, stanno svuotando le tasche dei russi, oligarchi come ceto medio. Per i primi, è stato introdotto l’obbligo di vendere allo Stato l’80% della valuta incassata dalle esportazioni, quasi un sequestro forzato per sostenere quelle riserve che sembravano enormi in tempi di pace, ma potrebbero durare poco in tempo di guerra. Per i comuni mortali, arriva il divieto di bonifici all’estero, anche sui propri conti, e insieme alle carte di credito e alle app delle banche sanzionate in tilt vanno in fumo le speranze di una salvezza individuale, al sicuro di un Paese europeo. Le frontiere non sono (ancora) ufficialmente chiuse, ma l’UE ha bandito lo spazio aereo ai jet russi, la Russia ha vietato i voli degli occidentali, e chi cerca una fuga all’ultimo minuto assalta gli aerei per la Turchia o Dubai, rischiando di ritrovarsi in esilio senza nemmeno una carta di credito funzionante.

La cortina di ferro sta calando con una rapidità paurosa, togliendo a quell’élite russa che non era forse entusiasta del regime, ma ci coesisteva felicemente, l’incentivo a rimanere leali, e le bombe che cadono sulle città ucraine segnano un Rubicone intollerabile per molti. Le defezioni sono una valanga: lettere aperte di giornalisti, architetti, editori, insegnanti e musicisti raccolgono decine di migliaia di firme. I cineasti, guidati dal produttore Aleksandr Rodniansky, presidente del principale festival di cinema russo, Kinotavr, chiedono di fermare la guerra, i curatori russi della Biennale di Venezia si dimettono per protesta, l’archistar Sergey Skuratov pubblica sul suo Instagram l’ormai mitico filmato dei marinai ucraini che mandano a quel paese una nave militare russa, nonostante la procura russa minacci 12-15 anni per alto tradimento a chi sostiene gli ucraini. Perfino i figli dei fedelissimi del regime, come Ayshat Kadyrova, il cui padre Ramzan sta scagliando i guerrieglieri ceceni su Kiev, scrivono nei social “No alla guerra”. Non è più la rivolta dell’intellighenzia dissidente, che tifa Alexey Navalny: sono i moderati, i “si-ma-anche”, gli intellettuali organici, che si rendono conto del baratro che si sta spalancando. Un risveglio pieno di amarezza e delusione, anche di vergogna, un sentimento che non può non albergare ormai anche in qualche stanza del Cremlino, tra chi non aveva osato passare al capo supremo informazioni che avrebbero contraddetto i suoi desideri.

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