L’ITALIA STA PERDENDO LA GUERRA D’UCRAINA

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Federico Petroni
Fonte: Limes

L’ITALIA STA PERDENDO LA GUERRA D’UCRAINA

Stiamo ingaggiando un conflitto decisivo con la Russia, ma non vogliamo ammetterlo. Emergono i limiti del nostro economicismo. Draghi è emarginato in campo alleato. L’arma del debito pare relativizzata. Come ridefinire le nostre priorità e reinventare l’Esercito.

1. L’invasione dell’Ucraina peggiora nettamente la già fragile sicurezza strategica italiana. Il ritorno della violenza in Europa spiazza un paese culturalmente e istituzionalmente impreparato. Squaderna la sua agenda, centrata su logiche che la guerra rende inattuali e secondarie. Ostacola il suo percorso di lento e faticoso recupero di credibilità. Mette in dubbio la deterrenza americana. Fa tramontare l’obiettivo di un ordine stabile e condiviso nel continente. Rende evidenti le divisioni fra i paesi europei, al netto dell’ovvio afflato di unità derivante dall’immediatezza della minaccia russa. Depotenzia, pur non cancellandole, risorse per noi strategiche come la posizione geografica e il potere di ricatto derivante dal debito.


La guerra ci cambia perché non si limita a Mariupol’ o a Kharkiv. Non si combatte soltanto in Ucraina e non soltanto per poste in gioco locali. In ballo ci siamo noi, ci sono tutti gli europei, l’America e l’intero mondo che conta o quasi. Illudersi che resti confinata sulle rive del Dnepr uccide il pensiero quanto dare per scontato che necessariamente salirà al livello nucleare.


È presto per stilare un bilancio definitivo di un conflitto in corso e che può prendere pieghe impensabili e impensate. Alcune novità oggi date per assolute domani sembreranno eccessi d’enfasi. Ma a prescindere dall’evoluzione delle ostilità, proviamo a fissare alcuni fattori non nuovi ma che sono destinati a plasmare il prossimo futuro. Ricorrere al ragionamento geopolitico serve non a vendere certezze ma a offrire un contributo al dibattito pubblico sulla necessità di una strategia per l’Italia.


2. La guerra d’Ucraina ha declassato il nostro paese. Un’Europa in cui ritorna la guerra è un’Europa in cui l’Italia conta meno. Lo si è visto allo scoppio delle ostilità.


Nel preguerra Roma stava giocando bene le proprie carte 1, accodandosi alle iniziative diplomatiche con i paesi (Francia e Germania) con cui stava nel frattempo imbastendo un nucleo di rapporti privilegiati e ottenendo un’interlocuzione di Draghi con Putin a Mosca. Il problema è che un paese dal margine di manovra risicato ha anche opzioni risicate. In quel caso, una sola: il ripristino degli accordi di Minsk, che evidentemente al Cremlino interessavano soltanto per confondere le acque e riguadagnare il fattore sorpresa oppure hanno smesso di interessare di fronte a imprevisti eventi propulsori. Sia come sia, non hanno portato a nulla. Peggio, siamo stati trattati come infedeli sia dagli americani sia dai russi.


L’invasione dell’Ucraina ci ha emarginati. I nostri dirigenti sono rimasti tagliati fuori dai colloqui di BidenPutin e Xi Jinping con i leader europei. Il governo è stato sottoposto a immani pressioni per approvare un embargo energetico contro la Russia. Un’occasione per diversi paesi tradizionalmente spaventati dal Cremlino per rinfacciarci non tanto l’aver accresciuto la dipendenza dai suoi idrocarburi bensì la nostra corrività verso la Russia, giudicata eccessiva. Anche la Germania ha subìto pressioni analoghe, ma rispetto a essa non avevamo granché da mettere sul piatto per placare gli animi, non certo i 100 miliardi di euro da spendere immediatamente per la difesa (noi potremmo metterne 10-15, non subito e non è detto che ci riusciremo). Con quella mossa, il cancelliere Scholz ha guadagnato tempo per scrollarsi di dosso accuse di lassismo.


Quanto poco ci si aspetti dall’Italia a livello internazionale è risultato evidente dal messaggio al parlamento del presidente ucraino Zelens’kyj. Il quale, contrariamente ai messaggi al Bundestag o alla Knesset, non ci ha rivolto accuse di non fare abbastanza per Kiev. Né ci ha richiesto niente di granché diverso da quanto stessimo già facendo – a parte un appello all’embargo petrolifero (ma non sul gas) talmente veloce che l’interprete non ha fatto in tempo a tradurlo in italiano 2. Zelens’kyj si è molto più speso sul congelamento dei conti e dei beni dei miliardari russi, ai quali il governo nel primo mese di guerra ha già bloccato l’equivalente di 800 milioni di euro. Draghi ha dovuto ricordare che l’Italia invia armamenti e s’impegna per l’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea. Diventiamo il primo sponsor di Kiev nell’Ue in Europa occidentale.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


Questo e altri sforzi ci sono valsi, dopo un mese di isolamento, a rientrare nei colloqui con Biden e Putin e a essere inseriti nella lista dei dieci possibili garanti della neutralità ucraina. Meglio che in passato, non siamo inerti. Ma abbiamo comunque dovuto spendere energie a recuperare credibilità, solo per dimostrare di esserci. Ci è stato duramente ricordato che la percezione di noi conta, si accumula negli anni e non bastano appelli all’atlantismo per lavarla.


La caratura internazionale del premier non è bastata a garantire peso al nostro paese quando il gioco si è fatto duro. Non stupisce: l’attuale governo ha un mandato prettamente economico. La reputazione di Draghi serviva a dimostrare che l’Italia inginocchiata dal Covid era in grado di salvarsi da sola. Un commissariamento interno per scongiurare il commissariamento estero. Una garanzia davanti ai mercati che il denaro raccolto su impulso tedesco e distribuito con il Recovery Fund sarebbe stato speso per riformare il paese e dotarlo di strutture statuali degne.


Un’Europa in guerra riduce, senza azzerare, quel valore. Prima dell’invasione dell’Ucraina, Draghi era punto di riferimento di quegli interessi nell’Ue che puntavano a perennizzare la condivisione del debito, ad abbandonare l’austerità. Se ora a Bruxelles si parla più di deterrenza nucleare, riarmo e al massimo di economia di guerra, l’autorevolezza del presidente del Consiglio viene confinata a questioni divenute secondarie. La voce di Draghi suona più lontana, ovattata.


3. L’Italia conta meno ma è già in guerra. L’opinione pubblica pare non averlo chiarissimo, eppure siamo parte del conflitto in Ucraina. Come? Forniamo armi a Kiev e partecipiamo alla guerra economica contro la Russia, in qualità di satellite nella sfera d’influenza dell’America.


L’invio di armamenti è un’operazione complessa, multinazionale, di taglia industriale e per nulla estemporanea. Ogni paese decide in autonomia che cosa mandare, ma l’Unione Europea ha svolto un ruolo di facilitatore con l’annuncio e il finanziamento delle spedizioni, sottraendolo alla Nato per non dare ai russi il pretesto di accusare un’organizzazione militare di intervenire nelle ostilità. È comunque una conferma di come l’Alleanza Atlantica non sia l’unica struttura a rispondere agli interessi di Washington. 


La stampa americana racconta con dovizia di dettagli 3 quanto siano strutturate le forniture di armamenti, con decine di migliaia di missili anticarro e anti-aerei, milioni di proiettili, centinaia di droni e di veicoli, oltre a razioni per i soldati, vestiario e strumenti di comunicazione. Arrivano via terra attraverso Polonia e Romania, a volte partendo dalle repubbliche baltiche, con convogli lunghissimi. Inoltre, da molti paesi dell’Occidente giungono sostegni dei reparti cibernetici e volontari inquadrati nella Legione straniera ucraina, oltre alle informazioni d’intelligence statunitensi che servono alle forze di Kiev a colpire il nemico. L’Italia è inserita in questo tipo di sforzo bellico.


Anche Roma ha spedito equipaggiamenti letali: missili Stinger e Milan, pare. Pare, perché la lista è segretata. Timore di rivelare ai russi informazioni sensibili? Così hanno detto i nostri e gli stessi ucraini. Altri paesi però hanno dato ampia pubblicità agli elenchi 4. I più precisi: Svezia, Danimarca, Norvegia, Finlandia, Canada, Regno Unito. Pure la Germania, solitamente cauta, ha diffuso la lista. Un’ingenuità? Non si direbbe, visto che pure una potenza abituata a queste operazioni e a classificare quasi tutto (gli Stati Uniti) ha abbondato nei dettagli. Invece, Polonia e Romania sono state molto più generiche. Il fattore discriminante sembra essere il tipo di messaggio che si intendeva mandare. I nordici, gli anglosassoni e i tedeschi volevano trasmettere risolutezza alle proprie opinioni pubbliche, a Kiev e a Mosca. Polacchi e romeni, essendo in prima linea e soprattutto porta d’ingresso di questi flussi d’armi, temevano di finire nel mirino russo. Per gli italiani hanno pesato due paure: ricadute politiche domestiche a causa del nostro tradizionale pacifismo e rappresaglie da parte di Mosca.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


La seconda preoccupazione non è del tutto malriposta. L’Italia ha finito per essere usata come materasso per inviare messaggi minacciosi all’Occidente. Come con le «conseguenze irreversibili» evocate dal ministero degli Esteri russo in caso di ulteriori sanzioni da parte italiana. Oppure con l’ambasciatore di Mosca a Roma preoccupato che le armi italiane siano «usate per uccidere i nostri militari» 5. O ancora con le voci della possibile divulgazione del «rapporto segreto» sulla missione militare-sanitaria russa nella primavera 2020 durante la prima ondata di Covid, capace di rivelare chissà quale intesa fra il governo Conte e il Cremlino. 


È la conseguenza della partecipazione allo strangolamento della Russia mediante sanzioni, ben descritto dal ministro francese Bruno Le Maire come «guerra economica e finanziaria totale» – l’interessato ha ritrattato sul termine «guerra» (solidarietà con Putin e col suo divieto di usarlo?), non su «totale» 6. L’Italia sembra nel mirino di queste dichiarazioni non perché particolarmente propositiva – anzi, ha più volte smorzato le richieste di estromettere dallo Swift le banche russe e di applicare un embargo immediato di gas e petrolio, limitandosi a congelare 800 milioni di euro di beni ai miliardari. Semmai, per un misto di senso di tradimento e di opportunità. Un Cremlino adirato per il venir meno della nostra tradizionale russofilia deve averci visto come anello debole in Europa occidentale. I circa trecento parlamentari che hanno disertato il discorso di Zelens’kyj alle Camere possono aver spinto i russi a provare a sfruttare la litigiosità della nostra politica e l’assenza di filtro degli apparati statali (in questo paese tutto è politica) per moderare il campo americano. In ogni caso, lo scontro di prossimità tra influenze russe e statunitensi in Italia rischia di generare instabilità più aspre che in passato perché a differenza della guerra fredda non è organizzato rigidamente fra i partiti.


Il binomio armi+sanzioni l’Italia non l’ha adottato per scelta politica. È il risultato della posizione degli americani e delle indisponibilità dei loro alleati europei, noi compresi. Nessuno voleva morire per Kiev, di conseguenza si sono armati gli ucraini. Washington non intendeva nemmeno spendere il proprio potere di deterrenza contro la Russia, dunque ha ripiegato sull’arma economica. Gli europei si sono accodati, con italiani e tedeschi a escludere di tagliare subito il gas. Gli statunitensi hanno stabilito che Putin non può vincere e bisogna approfittarne per indebolirlo (fatalmente?), con moderazione, però, senza rischiare un intervento diretto se non in caso di uso di ordigni bio-chimico-nucleari. Questa linea tuttavia favorisce lo stallo, dunque il prolungamento della violenza, avvicinando pericolosamente il momento in cui Mosca teme per la propria sopravvivenza e il rischio di allargare il conflitto.


L’Italia nella guerra d’Ucraina, in formula: siamo cobelligeranti di fatto, senza contare molto, terribilmente spaventati dei nostri gesti, ma impossibilitati a incidere su una traiettoria che può volgere al peggio.


4. La guerra ha effetti sistemici sull’architettura euro-atlantica in cui è inserita l’Italia.


Innanzitutto, cancella per qualche generazione l’illusione di un ordine stabile e condiviso in Europa perché, comunque vada, la Russia sarà isolata e ferita. Nello scenario a oggi più plausibile, Mosca ripiega per salvare la faccia. Per non far sembrare l’operazione militare speciale una disfatta, si tiene il corridoio per la Crimea via Mariupol’, e magari le repubblichette del Donbas allargate ai confini delle oblast’ originarie. Questo impedisce di pensare a una pronta rimozione delle sanzioni, rendendo definitiva la cesura con l’Occidente. Tuttavia, con il cuore demografico nel bassopiano sarmatico, la Russia continuerà ad avere la necessità di mantenere pesantemente armati, dunque in fibrillazione, i confini occidentali, quelli europei. 


La guerra d’Ucraina sancisce anche il tramonto della Pax Americana. Non del primato statunitense, ma del ruolo di arbitro della prima potenza del pianeta. L’èra che si è aperta il 24 febbraio 2022 promette un mondo più pericoloso, bellicoso, disordinato, in cui lo strapotere di Washington non è più sufficiente a stabilizzare. Non siamo noi a dirlo bensì Joe Biden. Così il presidente degli Stati Uniti lo scorso 21 marzo davanti a un gruppo di facoltosi amministratori delegati: «Siamo a un punto di inflessione, non solo nell’economia mondiale, nel mondo. Capita ogni tre o quattro generazioni. Sessanta milioni di persone sono morte tra il 1900 e il 1946. Da allora, noi abbiamo istituito un ordine mondiale liberale e ciò non è più successo per lungo tempo. Tanta gente è morta, ma niente di simile al caos. Ora è venuto un tempo in cui le cose stanno cambiando. Ci sarà un nuovo ordine mondiale e noi dobbiamo guidarlo. E dobbiamo unire il resto del mondo libero» 7. Al netto dell’ottimismo, un concetto è chiaro: la Pax Americana era l’alternativa al caos.


Queste parole suggellano la mutazione dell’atteggiamento americano avvenuta nell’ultimo quindicennio. Di fronte a risorse più scarse e avversari più capaci e numerosi rispetto al passato, gli Stati Uniti sono indotti a tracciare più nettamente i confini della loro influenza. L’Occidente strategico (Europa+soci dell’Indo-Pacifico) inizia ad assumere i contorni di un blocco, pur con tutti i caveat che tale espressione ha nell’interconnesso XXI secolo. L’Europa americana comincia a trasformarsi in un fortino da slacciare il più possibile dalle interferenze dei nemici e da usare contro i nemici stessi. Per aver mano libera con la Cina, Washington vuole che in quel fortino i paesi del Vecchio Continente si riarmino e presidino il fianco orientale della Nato.


Tutto questo ha innescato profondi negoziati con gli europei. Per ora, è emerso che Washington è disposta a coprire parte dei costi derivanti dalle sanzioni e dal riarmo attraverso incentivi energetici (petrolio e gnl 8) e, forse, nuovi accordi commerciali sulla falsariga del Ttip. A suggerire quest’ultimo sviluppo è l’intesa Usa-Ue per permettere alle compagnie digitali americane di tornare a conservare i dati degli utenti europei anche negli Stati Uniti 9.


L’effetto per l’Italia è un aumento della dipendenza digitale e commerciale dall’area atlantica. Essere inserito più nettamente in un campo specifico produrrà difficoltà per un paese come il nostro che per decenni si è baloccato con l’idea di andare d’accordo con tutti. Difficile inoltre che si torni alla chiarezza delle regole della guerra fredda in cui prosperammo, perché la postura dell’America resta quella degli ultimi anni, fondamentalmente reattiva.


La guerra, inoltre, ha messo in discussione la capacità dell’America di dissuadere il nemico, evidentemente fallita in Ucraina, anche perché volutamente tolta dal tavolo dall’amministrazione Biden 10. La Casa Bianca si sta cospargendo il capo di cenere. «Le sanzioni non fanno mai deterrenza», ha spiegato il presidente al quartier generale della Nato a fine marzo, plateale retromarcia rispetto al preguerra 11. I suoi funzionari poi hanno riaffermato che l’arsenale nucleare statunitense può essere impiegato in circostanze estreme per dissuadere attacchi convenzionali e non, comprese operazioni cibernetiche 12. È un ritorno al principio in vigore per tutta la guerra fredda: nell’idea di Biden era un precetto superato, la Bomba doveva servire soltanto per scongiurare attacchi atomici. 


È un monito a Putin a non intensificare o allargare il conflitto, ma è frutto della pressione degli alleati, che rivela una diffusa paura che l’ombrello protettivo statunitense non copra più nessuno. Gli americani sperano sia sufficiente, assieme al ritorno dei loro militari in Europa sopra quota 100 mila per la prima volta dal 2005. A patto però che le ripetute picconate alla volontà di difendere l’Europa impartite sotto Obama, Trump e lo stesso Biden non abbiano già prodotto disillusione nei rivali dell’America. Mosca ha risposto che userebbe l’arma assoluta soltanto in caso di attacco alla Russia (o alle infrastrutture nucleari). E se la guerra economica mettesse a rischio la tenuta del regime? Sarebbe considerato un attacco alla Russia?


5. L’aggressione all’Ucraina ha prodotto un comprensibile momento di unità fra i paesi europei sulla pericolosità della Russia. La Nato ritrova linfa e l’Ue lancerà tante iniziative vitali e utilissime per l’autonomia alimentare, tecnologica, energetica dei suoi membri. Ma restano due fondamentali fonti di discordia che impediscono un’autentica risposta comune: come affrontare la Russia e come finanziare il riarmo, cioè chi paga.


Come in tutte le crisi, le faglie interne all’Europa si fanno più evidenti. I paesi dell’Est premono per sanzioni più dure a Mosca e per armamenti più pesanti a Kiev rispetto alle disponibilità dei paesi dell’Ovest. Sono disposti a gesti spericolati come la visita dei primi ministri di Polonia, Cechia e Slovacchia in treno a Kiev sotto i missili. Si è poi riproposta la divisione Nord-Sud. Francia e Italia vorrebbero condividere le spese del riarmo, mentre Paesi Bassi, Austria, Finlandia e Svezia hanno risposto: non se ne parla neanche. Il cancelliere Scholz è stato inequivocabile: i 100 miliardi servono a «proteggere il nostro paese» (non l’Europa).


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


La guerra ha acuito la faglia tra Est e Ovest perché ha completato lo spostamento del baricentro strategico del continente verso oriente, lungo la nuova cortina di ferro. In particolare, il teatro più instabile è la linea di contatto più lunga tra sfera americana e Russia, cioè il quadrante nordico-baltico tra Artico e Kaliningrad. La Nato ha completato lo schieramento di battaglioni in tutto il fianco orientale, aggiungendo ai tre baltici e alla Polonia anche Slovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria. Inoltre, la Danimarca ha messo a disposizione il proprio territorio alle truppe americane in caso di necessità. La Norvegia lo ha già fatto negli anni scorsi. Svezia e Finlandia sono state fra le più entusiaste a inviare armi a Kiev e sono membri di fatto della Nato. Risultato: si è compattata la prima linea del contenimento della Russia. Inciso: si capisce l’ostinazione con cui Mosca ha corteggiato Budapest in questi anni, individuandola come anello debole per spezzare (senza grossi successi) la continuità territoriale dei paesi dell’Intermarium.


Nessuno di questi sviluppi è favorevole all’Italia. La nostra difesa inizia anche lungo la nuova cortina di ferro, è indubitabile. Ma ci pone davanti a sfide particolarmente impegnative.


Primo, lo sbilanciamento geografico declassa il Mediterraneo. Le nostre acque restano collegate a un teatro di guerra, il Mar Nero. E restano una rotta medioceanica tra Atlantico e Indo-Pacifico di rilevanza strategica per l’America. Ci sarà sempre l’esigenza di vegliare sui movimenti dei sottomarini russi, cosa che ci consente di immaginare un ruolo di Norvegia mediterranea per la nostra Marina. Ma il nostro è un teatro semplicemente secondario, di scaduta priorità. Avremo più difficoltà a usare risorse altrui per garantire i nostri interessi in quest’area, per noi esistenziale. Ciò aumenta la nostra responsabilità. 


Secondo, l’attenzione euro-americana sul Mediterraneo cala mentre crescono i rischi sulle sponde Sud ed Est. La dipendenza di molti paesi africani e mediorientali dai cereali russo-ucraini solleva lo spettro di crisi alimentari che possono generare rivolte e ondate migratorie peggiori che nel 2010-11, perché avverrebbero in contesti già fortemente destabilizzati. L’obiettivo italiano di ridurre il gas russo accresce l’importanza del fornitore algerino, un paese da contendere con Turchia, Francia e Spagna e in conflitto sempre meno latente con il Marocco. Gli effetti della guerra d’Ucraina potrebbero riverberarsi sulle Libie e sulle Bosnie, dove l’influenza russa è un fattore.


È nostro interesse strategico evitare l’esplosione del caos e se possibile cogliere l’occasione per recuperare influenza sul nostro estero vicino. L’Italia dovrebbe coordinare iniziative targate Ue per alleviare le sofferenze alimentari sfruttando il netto surplus commerciale dell’Unione nel settore agricolo. Dovrebbe inoltre dedicare parte del proprio riarmo alla creazione di autentiche capacità anfibie, per proporsi come paese di primo intervento in caso di crisi. In questo senso, dovrebbe esplorare come integrare e guidare la forza di reazione rapida istituita dall’Ue (5 mila militari), marginale sul fronte orientale, ma più utile se impiegata in operazioni a bassa intensità, più probabili nei Balcani o in Nord Africa.


Terzo, gli scenari bellici lungo il fianco orientale della Nato sono fondamentalmente terrestri. Il che ci trova particolarmente impreparati. Il nostro Esercito è un guscio vuoto. I carri nell’inventario sono pochi: 200. Al ritmo osservato in Ucraina basterebbero per cinque giorni. Ma quelli che funzionano sono circa un quarto e non sono nemmeno ammodernati. Anche solo per mantenere qualche Ariete e Dardo in Lettonia raschiamo il barile. 


È lo specchio di una forza che non c’è. L’Esercito conta su un nucleo di poche migliaia di unità spendibile in missioni lontane, cioè operazioni a bassa intensità. Il resto è un corpo vecchio (età media: 38 anni, la guerra è affare per giovani), eccessivamente burocratizzato, che non si addestra (il bilancio della Difesa è aumentato ma ha tagliato le voci d’esercizio) e svolge mansioni di piantonamento (Operazione Strade sicure). Il suo ethos, insomma, è distrutto. A che serve aumentare gli investimenti nell’industria bellica se non ci sono i soldi per il carburante e per i pezzi di ricambio? Siamo oltre Il deserto dei Tartari: nell’opera di Buzzati la vana attesa portava i soldati a dimenticarsi come affrontare il nemico, qui ci si è proprio dimenticati che un nemico esiste.


Per farsi trovare all’altezza, l’Italia dovrebbe rifondare l’Esercito, cioè spendere ben più del 2% del pil nella Difesa. Soldi ottenibili solo al prezzo di sacrifici ingiustificabili allo stato attuale della minaccia. Il rischio è di replicare nell’Europa orientale il modello «missioni all’estero», che non fa la differenza né sul fronte né per la protezione del territorio nazionale. La guerra nel XXI secolo è impensabile senza un’integrazione fra mezzi aerei, navali, spaziali e cibernetici. Il nostro contributo a oriente dovrebbe essere un contingente interforze ad alto tasso tecnologico. Il riarmo italiano dovrebbe essere centrato su tecnologie duali, che più facilmente hanno ricadute positive sull’occupazione e sullo sviluppo economico.


Quarto, la priorità al fianco orientale complica il progetto di costruire un Euronucleo di relazioni privilegiate fra Italia, Germania e Francia. Anzitutto, le logiche belliche ridimensionano il ruolo che Roma intendeva ritagliarsi nel triangolo a vantaggio di chi riarma (dunque i tedeschi, ma soprattutto i polacchi, che forse vedranno Bruxelles smorzare la disputa sullo Stato di diritto).


Inoltre, francesi, italiani e tedeschi hanno un approccio più cauto verso la Russia, ma il ritorno della prospettiva di una guerra sulle pianure settentrionali spaventa più Berlino che Roma e Parigi, per evidenti ragioni geografiche. Ne discendono dif­fe­renze di priorità difensive, centrate su terra per i tedeschi e sul mare per gli italiani. Questo in linea teorica potrebbe aprire non tanto a un’integrazione tra le rispettive Forze armate quanto a una ripartizione dei compiti (Baltico-Europa centrale per la Germania, Mediterraneo-Balcani per l’Italia, con la Francia in entrambi). 


Il problema è la disponibilità della Repubblica Federale ad aprire il portafoglio. Promettendo un riarmo e pagandolo di tasca propria, la Germania non si è assunta la guida di un processo continentale, ha detto: non coi miei denari. La storia del Recovery Fund insegna che i tedeschi possono convincersi a causa della minore affidabilità americana e del potere di ricatto dell’Italia (far saltare l’Eurozona con un debito insostenibile e i profondi legami con la manifattura tedesca). Ma il gioco funziona a un passo dall’abisso e rischia di incepparsi quando la lista delle spese da condividere (transizione energetica, riarmo, ripresa post-Covid) non è troppo lunga. Al momento l’Italia non può usare la bomba del debito per difendere i propri interessi. L’arma è relativizzata, non cancellata.


Quinto, le faglie interne all’Europa rischiano di ridurre i vari programmi di riarmo a mere liste degli acquisti di armamenti. 


Se non c’è accordo su come affrontare la Russia non si potrà andare tanto più in là di sviluppare competenze specifiche in comune, per esempio in ambito spaziale e cibernetico. Non si potrà creare una forza in grado di fare la guerra da sola. Soltanto gli americani potrebbero comandarla e non è nemmeno detto che ne abbiano ancora l’intenzione (in caso di conflitto sì, ma i conflitti vanno preparati). 


Inoltre, se non c’è accordo su chi paga i vari paesi dovranno fare per conto proprio, al massimo coordinandosi a gruppetti e rischiando comunque duplicazioni inutili. Ne uscirà svantaggiato chi, come l’Italia, non possiede le istituzioni per gestire tali processi e una cultura nazionale della strategia per ragionare in termini di interessi, obiettivi e mezzi. In una parola, di geopolitica.


6. È urgente dotarsi di questi strumenti. Perché se è vero che l’Italia trae innegabili vantaggi dallo stare in un gruppo di paesi che può schermare dalle conseguenze più disastrose, è anche vero che quando le cose cambiano e si fanno drammatiche bisogna saperci stare. Essere all’altezza. 


I maggiori pericoli derivanti dal continuare su questa china sono due. L’inerzia, facendosi trascinare come sonnambuli in direzioni decise da altri. E la tentazione di chiudersi in casa, impossibile perché la nostra penisola è preda troppo ghiotta per essere lasciata in pace. Pensare di essere completamente padroni del proprio destino senza valutare la reazione altrui è tipico del ragionamento anti-geopolitico.


Vero è che all’italica fantasia non c’è limite. «Dunque, scoppia la terza guerra mondiale, ora, se noi ci siamo alleati con l’America, da chi veniamo fatti prigionieri? Dalla Russia, no? Ebbene, io vi dico che noi napoletani i prigionieri in Russia non li possiamo fare (…) ci puzzeremmo dal santissimo freddo. Ora, diversa è la situazione se invece ci mettiamo con la Russia. E sì perché in questo caso veniamo fatti prigionieri automaticamente dagli americani e mandati subito in America. E là, con l’aiuto di Dio e con un poco di commercio, uno si potrebbe pure imparare la lingua, che poi, siccome da cosa nasce cosa, vuoi vedere che facendo la guerra ci troviamo pure un buon posto?» 13. Così Salvatore Coppola, vicesostituto portiere di via Petrarca 58 in Così parlò Bellavista di Luciano De Crescenzo.


Prima di ricorrere alla sua napoletana furbizia, possiamo dare altra prova di noi.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


Note:

1. Cfr. G. Dottori, «L’Italia ha perso una grande occasione», Limes, «La Russia cambia il mondo», n. 2/2022, pp. 139-44.

2. Cfr. il discorso di Zelensk’yj del 22/3/2022 all’indirizzo bit.ly/35c4BuJ, con la traduzione da YouTube all’indirizzo bit.ly/3izv34q 

3. D. Hinshaw, J. Parkinson, N.a. Youssef, «Weapons for Ukraine’s Fight Against Russia Flow Through Small Polish Border Towns», The Wall Street Journal, 23/3/2022; S. Hendrix, «Inside the transfer of foreign military equipment to Ukrainian soldiers», The Washington Post, 18/3/2022. 

4. J. Gedeon, «The weapons and military aid the world is giving Ukraine», Politico, 22/3/2022.

5. C. Palladino, «Ucraina, l’ambasciatore russo Razov: “Armi italiane consegnate a Kiev. Nel 2020 vi abbiamo teso la mano, ora qualcuno la morde”», Corriere della Sera, 25/3/2022.

6. I. Couet, «Ukraine: Bruno Le Maire amende ses propos sur la “guerre économique” avec la Russie», Les Echos, 1/3/2022.

7. «Remarks by President Biden Before Business Roundtable’s CEO Quarterly Meeting», 21/3/2022, disponibile all’indirizzo bit.ly/3wCW67b (corsivo nostro).

8. V. Pop, S. Fleming, J. Politi, «US plans to boost supplies of liquefied natural gas to EU», Financial Times, 24/3/2022.

9. D. Michaels, S. Schechner, «U.S., EU Reach Preliminary Deal on Data Privacy», The Wall Street Journal, 25/3/2022.

10. Rimandiamo a F. Petroni, «Aspettando Eisenhower: che cosa (non) vogliono gli Stati Uniti da Putin», Limes, «La Russia cambia il mondo», n. 2/2022, pp. 71-78.

11. Il testo della conferenza stampa del 24/3/2022 è disponibile all’indirizzo bit.ly/3DeNiWA 

12. M.R. Gordon, «Biden Sticks With Longstanding U.S. Policy on Use of Nuclear Weapons Amid Pressure From Allies», The Wall Street Journal, 25/3/2022.

13. L. De Crescenzo, Così parlò Bellavista. Napoli, amore e libertà, Milano 1977, Mondadori, p. 14.

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