Metafore di viaggio, sino al termine dell’estate. Dal Camelloporco al Procione, passando per le case di cura e l’abbazia nonantolana.
Quest’incubo di mezza estate, insieme tragico e grottesco, ci rende ancor più lancinante il pensiero che per un attimo è balenato in inizio d’estate: una convergenza di M5S e Art. 1 per dar vita a un nuovo composto della sinistra italiana. Un immaginato sinecismo attorno alle figure più carismatiche del tempo appena trascorso: Giuseppe Conte, Pier Luigi Bersani, ma io amo pensare anche Rosy Bindi. La parte migliore sedimentata dal giacobinismo democratico grillino, il riformismo socialista, il cristianesimo sociale. Quel che il Pd avrebbe potuto essere e che ha indegnamente tradito. Un dream team, senza voler troppo esagerare. Sarebbe stata una convergenza magica e di appeal comunque incomparabile a confronto della mediocrità scellerata della classe politica nazionale.
Ma le cose sono andate diversamente. Dobbiamo fare una colpa a Bersani per non avere osato l’azzardo nel nome di quella ‘sinistra fiore di campo’ da lui più volte evocata come articolo di fede ? Arduo interrogativo, che immagino lo stesso Bersani porterà con sé nel suo buen ritiro piacentino, sfogliando la sua biografia. Bersani per sua intima inclinazione non è uomo di rottura, ma un empatico tessitore. Fra i post-comunisti della nostra generazione neanche si può dire un togliattiano. Piuttosto un singolare melange di pragmatismo socialista emiliano e di profetismo ironico prampoliniano. Per adire all’azzardo rischiando l’alea della ‘novità’ in grado di pescare nel bosco popolare avrebbe dovuto forzare la sua natura cauta e gradualista, smentire (se non smerdare) il gruppetto dirigente da lui stesso allevato in Art. 1, riportare le lancette al dilemma originario di Liberi e Uguali: nuova sinistra o redenzione del Pd ? E sciogliere con lo spadone il nodo di Gordio senza peraltro avere certezza della capacità di Conte di sciogliere i nodi a casa sua. Resta il fatto che Conte e Bersani, seppure con diverso stile, dicono le stesse cose, si ispirano alla stessa agenda e hanno nell’eleganza da gentleman un indubbio tratto comune.
Rotta l’alleanza giallo-rossa sul diktat atlantico Art. Uno ha perso l’appiglio che legava la sua missione contingente alla creazione di un campo largo di centro-sinistra e dovendo scegliere è precipitato nella parte destra del crinale: lo scioglimento in un Pd ancor più disassato secondo un neo-centrismo tanto ideologicamente virulento quanto politicamente impotente. Lasciando in una stralunata disperazione torme di militanti e simpatizzanti. L’ultima diaspora, l’ultima sofferenza. La fine dell’abbazia dei frati minori. Mentre la voce di Bersani si è fatta via via più flebile e lontana. Una remota e solitaria predica nel deserto.
Art. Uno chiude la filiale in sordina e con mossa furtiva ammantata di miserevole realpolitik. Con una spartizione di seggi marginali perseguita tenacemente nell’ombra e camuffata da ‘colonna’ progressista di una marcia rifondatrice. Un neo-saragattismo timido e sordo. Del resto Art. 1 non ha mai dismesso la sua natura ambigua, se partito o associazione. Avendo scelto una vita quasi clandestina: mai una volta che si sia presentato a una elezione col suo simbolo, salvo il caso di Budrio in quel di Bologna, per il trionfo della mia adorata cugina Sonia Serra. Sempre inglobato in qualcos’altro: nel Pd o in liste coraggiose di ignota configurazione. Un partito che non c’è, ma che soprattutto non vuol farsi vedere. Perfetta realizzazione del partito che manca. Col suo giovane leader-segretario mai pervenuto, neppure apparso se non per aggiornare circa la sua vita di travet ministeriale con misurati moniti profilattici dispensati alla nazione. Un indefesso bravo ministro protetto da tre moschettieri.
L’ultima diaspora mette la parola fine alle innumerevoli trasfigurazioni identitarie del post-comunismo italico. Sin dall’origine (ma anche da prima) il cambio del nome ha precipitato i membri della storia in una nevrotica ricerca identitaria sino ad assumere la transitorietà come propria cifra. Avendo rinunciato al comodo approdo socialista sempre alla ricerca di qualcosa d’altro, di contaminazioni sperimentali in vista di una cosa più grande e di indefinita perfezione. Una rinascita dopo il limbo, una resurrezione sotto mutate spoglie della sinistra che non c’è. In realtà forme transeunti di un viaggio senza fine verso l’estinzione, rimozione dopo rimozione, staccando un vagone dopo l’altro sino a ridursi a una locomotiva senza carburante. Il Pd come binario morto. Nel quale adesso anche il micro gruppo dirigente del mini partito si accomoda.
Eppure tanto era l’entusiasmo in quell’annus mirabilis e liberatorio che fu il ’17 ! Da allora è stato mio costume, assieme alla Mauthe e ad altri compagni di comitiva, sigmatizzare ogni fase con una metafora.
In principio fu l’era del Camelloporco, creatura bizzarra e zoomorfa che voleva attualizzare in salsa ironico divertita la celebre metafora lamalfiana fatta propria da Togliatti: il calabrone che non dovrebbe volare, la giraffa dall’improbabile anatomia che però esiste. Un miscuglio animalesco conformato dalla riunificazione dei diversi rami della diaspora in una augurabile remissione di tutti i peccati, in un ironico e comprensivo rispecchiamento di tutti i difetti. Miglioristi e ingraiani, radical sfegatati e berlingueriani, cossuttiani e persino craxiani. L’accasamento finalmente riappacificato di tutti i tronconi fieramente avversi della sinistra, sia anti che post-comunista. La diaspora ammansita nell’allegria. Mal comune mezzo gaudio. Eppur si muove.
Poi dopo il marzo del ’18 fu l’epoca del disincanto e della melanconia. Art. 1 Mdp, una volta rientrati nella disapora, fu per noi la ‘casa di cura’. Una casa del popolo più simile a una clinica di training autogeno, nella quale curare l’anima dal dolore dell’alienazione. Una comunità per tenersi in vita. Io stesso, del resto, non mi sentivo molto bene e sopra ogni cosa desideravo d’essere ricoverato. Anche un garage dove far sostare una retroguardia militante di massa. Piccola élite nello sconcerto.
L’abbazia fu una invenzione della Marcella Mauthe. Col governo Giallo rosso la speranza si era riaccesa, e con essa la pratica di un ruolo politico. Cosa potevamo mettere noi in quell’insperato reinstradamento ? La nostra cultura politica, coltivata fraternamente nell’abbazia sul limitare del bosco da frati miniatori. Una bellissima lingua morta ma ancora in grado di ingentilire lo spirito in epoca di barbarie. Fertlizzando il terreno e avocando il nuovo e lo strano nel solco di una lunga durata civilizzatrice. La cultura politica come veicolo di una ritrovata affettività. Fu un bel periodo e tutti ci sentimmo serenamente quanto orgogliosamente bersaniani. L’abbazia come ditta dello spirito. Che fabbrica e piazza prodotti inusuali, antichi e certificati. Prodotti classici per l’epoca volgare, senza i quali non si da rinascimento.
E infine tutto è periclitato nell’era del procione. Animale che per vivere sottraendosi ai predatori ama darsi per morto. Non si batte, non si dimena, fa finta di nulla. Qualsiasi cosa accada egli giace in una inerzia dissimulante, in realtà, un operoso silenzio. Un reingresso nel Pd quasi clandestino e scaioliano: cioè all’insaputa degli aderenti. E come si poteva tornare nella casa dei predatori trovandovi pure i mezzi per vivere senza fingersi morti ? Davvero, di tutte le tattiche la più geniale, il cui merito è tutto del gruppetto dirigente. Ed è giusto che solo lui se lo tenga.
Cinque anni vissuti in Tibet, bersanianamente, come scrive l’amico Enzo Orsingher con felice intuizione cinematografica. Alla fine di tutto, per quanto mi riguarda voterò traslato, cioè bersanianamente. Non il M5S e men che meno il Pd progressizzato, ma Conte. Per simpatia, per omaggio, per senso di giustizia e riparazione, per amore del cane bastonato, come dice Giorgio Piccarreta. Di tutti i cani bastonati, dunque anche di Bersani e di tutta la compagnia cinofila al seguito, me compreso. Quel che mi auguro è che a settembre emerga una forza cospicua che si ponga a lato di tutta questa merda e di lì s’industri per esercitare una influenza benigna. A distanza. Una forza di massa se non di sinistra, quantomeno laterale. Tentando un rilancio. Dal fallo laterale.
Il percorso della diaspora si scinde definitivamente e si cristallizza in due avverse polarizzazioni. Ciò avrà inevitabili conseguenze sui rapporti personali. E’un destino al quale è impossibile sfuggire, anche se si rimane scevri dall’odio e dal rancore. Perchè la sinistra è tale anche perchè il suo corpo vive tramite l’affettività e l’identificazione. Come tale alieno al calcolo strumentale. La testa, le èlites, le cerchie dirigenti possono (e devono) vivere senza autentica amicizia. E’ un requisito della razionalità politica. Ma non il corpo dei militanti e dei credenti. Che è fatto necessariamente di libidine. Del resto per chi ha scelto il procione come propria identità di tutto questo se ne fotte. Animale scaltro ma indifferente agli affetti.
E qui si chiude la lunga metaforologia. In questa estate la cinghia di trasmissione mi ha tradito sotto la galleria della varfiante di valico. Un incubo dal quale sono uscito vivo per miracolo. E adesso sono qui che giro con una panda nera nuova fiammante. La trabant delle popolazioni montanare. Viaggio fra i cippi partigiani nella montagna del Frignano e dalla camera d’albergo osservo lo spettacolo maestoso del Corno alle scale. Con struggimento. Ultima camera con vista. La bellezza è un improvvis e fugace sguardo sul creato, dallo spiraglio triste. Una intravista che presto si dilegua. Un attimo. Una felicità impossibile scolpita per sempre nel nostro cuore.


