Se vuoi parlare taci. Il discorso politico come linguaggio dell’incomprensione

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Francesco Verrina Bonicelli

SE VUOI PARLARE TACI.

Il discorso politico come linguaggio dell’incomprensione.

 

Di Francesco Bonicelli Verrina, PhD Univerzita Komenskeho v Bratislave

 Saper parlare gli uni la lingua degli altri va bene, ma è molto più importante che tutti sappiano parlare la lingua degli uomini.

(Abbé Pierre, Conferenza nei Paesi Bassi, 1955)[1]

 Gli uomini si scannano non perché sono diversi ma perché hanno in comune false verità.

(Abbé Pierre, appunti, 1968)[2]

 

 

I – Introduzione.

 

La facoltà linguistica viene generalmente identificata con la sintassi e aperta da altre facoltà mentali.

Per Noam Chomsky la facoltà del linguaggio costituisce una parte integrante di ogni aspetto della vita, del pensiero e dell’interazione degli esseri umani, ed è in gran parte responsabile del fatto che essi costituiscano l’unica specie ad avere una storia ed una differenziazione culturale di ricchezza e complessità notevolissime, nonché del loro successo biologico numerico, fatti che legano indissolubilmente il linguaggio alla politica in un rapporto simbiotico privilegiato e controverso[3].

Non c’è motivo ancora oggi di smontare l’affermazione cartesiana secondo la quale la capacità di usare segni linguistici per esprimere pensieri liberamente formati rappresenti la vera differenza fra uomo, animale e macchina.

Per tutto questo la facoltà del linguaggio, distinta da Ferdinand de Saussure dalla lingua e dall’abilità linguistica, può essere ragionevolmente considerata un organo esattamente nel senso in cui i medici e gli scienziati parlano di sistema visivo, immunitario, circolatorio come organi del corpo, intendendo qualcosa che non può essere rimosso dal corpo lasciando il resto intatto[4]. Come un organismo, come una pianta, la lingua cresce, si radica, ramifica, ammala, appassisce, secca, eccetera.

L’interesse scientifico per gli usi pubblici del linguaggio si è originato principalmente in Europa, intorno alla Scuola di Francoforte e ai fautori della teoria critica: Walter Benjamin, Theodor Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse, Jürgen Habermas, e altri, che si sono distinti nel trovare collegamenti fra linguaggio, politica e cultura, generando riflessi in tutta Europa, a partire dagli anni ’70.

La rivoluzione generativa nella linguistica è stata anche una rivoluzione cognitiva, dal momento che la facoltà del linguaggio viene vista come innata ripristinando e reinterpretando la “sepolta” teoria innatista.

I linguisti di questa corrente statunitense, a partire dagli anni ’80, hanno scoperto collegamenti sempre più evidenti fra la facoltà del linguaggio e le altre facoltà mentali umane. Questi legami hanno incluso per esempio la cognizione spaziale. La linguistica cognitivista ha scoperto la natura della creatività cognitiva attraverso la ricerca scientifica sulle metafore concettuali[5].

 

Allo scopo di indagare il linguaggio della politica bisogna domandarsi anche cosa sia la politica.

Da un lato la politica è vista come una lotta per il potere, fra quelli che cercano di affermarlo e mantenerlo e coloro i quali resistono a questo tentativo da parte dei primi. Dall’altra parte la politica è anche vista come combinato di cooperazione, pratiche e istituzioni che una società sviluppa per risolvere conflitti di interessi che compromettono le varie libertà[6].

In questi due orientamenti interpretativi abbiamo due ulteriori distinzioni, fra un livello micro e uno macro, secondo Paul Chilton (2004).

Per livello micro, Chilton intende i conflitti di interessi, lotte per il dominio e sforzi cooperativi fra individui, generi e gruppi sociali di varia specie. Per livello macro s’intendono queste interazioni fra istituzioni statali, che in democrazia sono limitate da costituzioni e codici o dalla common law. Associati a queste istituzioni vi sono i partiti e gli uomini politici, con le loro prassi, ed altre formazioni sociali (associazioni, movimenti, lobbies)[7].

Se l’operato dell’autorità politica è caratterizzato dall’uso della forza (multe, trattenute, incarcerazioni, concessioni di benefici e privilegi, per esempio), per Chilton, è altresì necessario aggiungere che questa forza può essere resa operativa solo attraverso atti comunicativi, solitamente trasmessi lungo una catena di comando.

Comunque la politica sia definita, c’è una dimensione linguistica e comunicativa, generalmente solo parzialmente riconosciuta dagli attori della politica stessa e dai suoi studiosi[8].

Quando Aristotele definisce l’uomo come “animale politico”, egli distingue anche fra abilità vocale e abilità discorsiva. La prima, già secondo il filosofo del IV a. C., appartiene a tutti gli animali per comunicare sensazioni di piacere o di dolore. La capacità di emettere discorsi è invece unicamente umana e teleologicamente diversa dalla prima, in termini funzionali.

L’abilità degli individui di avere il senso del giusto e dell’ingiusto potrebbe anche significare logicamente che esistano tante opinioni quanti sono gli individui. Un simile stato di cose tuttavia non corrisponde, per Chilton, a quello che comunemente si intenderebbe per politica. È infatti la condivisione di idee di giusto e ingiusto ciò su cui si fonda uno stato, come comunità umana, sociale e civile[9].

Le condivisioni di percezioni e concettualizzazioni di valori istituiscono le associazioni politiche. L’abilità umana, o dotazione del linguaggio, ha la funzione di indicare, dare significato, comunicare percezioni condivise, implicazioni di gruppo. Ove giusto e sbagliato corrispondano a ciò che è percepito come utile o dannoso per il gruppo stesso.

Ciò che è chiaro quindi, fin dall’antichità, è che l’attività politica non esiste in assenza di linguaggio, sebbene anche altri comportamenti siano coinvolti e riconducibili all’attività politica, ma il fare politica è predominantemente costituito dal linguaggio stesso. In una maniera meno complessa comunque anche i gruppi di animali stanno insieme anche attraverso altre forme pur sempre di linguaggio, non verbali.

Anche i formicai sono “comunità politiche” o “società”, secondo Mark Moffett[10], con efficientissime gestione e comunicazione (non linguistica), con catene di comando, divisioni dei compiti, gerarchie, associazioni e gruppi sociali, scuole, apparati di sicurezza e di difesa dei confini, vie di comunicazione, ma non ricerca di senso o l’illusione di ciò: il desiderio di una vita associata, pacifica e ordinata secondo giustizia e non solo secondo l’utile o gli istinti (per Ugo Grozio), un mondo caldo che ci aspetta e accoglie come opera da custodire e continuare (secondo Jan Patočka), una corresponsabilità cosciente di persone spirituali che non vivono per caso o solo come fatti (per dirla con Max Scheler), una responsabilità nei confronti della nostra intelligenza e della creazione, per le generazioni future (Hans Jonas)[11].

Sebbene il linguaggio per Chilton non evolva esclusivamente da queste motivazioni e funzioni, il bisogno di un’elaborazione culturale dell’istinto linguistico tipicamente umano, emerge dalla socializzazione fra esseri umani, dalla formazione di alleanze, dalla necessità di confinare questi gruppi derivanti da quelle primigenie attività di socializzazione, ivi incluso il cosiddetto altruismo reciproco[12].

Secondo Chilton i politici britannici usano il termine “semantica” per distrarre e cassare le critiche ed evitare la responsabilità di conferire significati specifici e impegnativi alle parole che usano.

In realtà, obietta il linguista, la “semantica” è politicamente cruciale, perché “rappresentante” può significare “essere rappresentante di una nuova costituzione” e non “rappresentante nel senso di designato da un’elezione popolare, all’interno del sistema consolidato vigente e di valori riconoscibili e condivisi”[13]. “Popolo” può essere usato ad indicare la nazione, la classe sociale o la cittadinanza, con varie sfumature in mezzo e anche possibilità di mischiare le varie accezioni semantiche.

Per Chilton molte persone sono state portate a considerare la ricerca di chiarezza, rispetto al significato delle parole e a ciò che si intende, come una cosa negativa. È sufficiente considerare quanto abbia via via assunto una connotazione di sfida al potere anche la semplice richiesta di chiarimenti in merito all’uso e al significato di un termine[14].

Benchè il referente non cambi, i diversi attori della politica hanno diverse visioni del significato delle stesse parole e delle stesse espressioni risemantizzate. Talvolta anche solo una sintassi leggermente variata segnala una diversa concettualizzazione[15], o una “catastrofe ermeneutica”[16] come dichiarato dal filosofo Antimo Cesaro, la scelta, citando anche il filosofo francese Jean Baudrillard, così spogliata di ogni connotazione di senso, liberata dall’orbita del soggetto, diviene oggetto puro[17]. Un’oggettificazione senza oggetti, in un mondo sommerso dagli oggetti, ma nel quale la realtà è un inutile orpello della virtualizzazione totale, una realtà liquida, per una società liquida, dominata da emozioni liquide, sciolte.

Un politico, argomenta il linguista Chilton, quando interrogato in merito a una sua certa particolare formulazione, frequentemente risponderà all’interlocutore/intervistatore: “Non si concentri sulle parole”.

Questo atteggiamento sottintende la nozione di “politicamente corretto”, poiché chiunque sfidi la formula “politicamente corretta” (purché sia, senza chiari riferimenti reali), contravviene a certi valori, altrimenti gli può essere obiettato di essere semplicemente “politicamente corretto”, dove “correttezza politica” è qualcosa di ormai indesiderabile. Benché qualcuno voglia affermare che l’alternanza di formulazioni sia arbitraria e neutrale, per Chilton, sfidare la formulazione condivisa del discorso politico è già di per sé fare politica, tanto quanto lo stesso non farlo[18].

Del resto i partiti e i governi impiegano pubblicitari di vario tipo, il cui ruolo non è solo controllare il flusso e l’accesso alle informazioni, ma anche designare e monitorare il lessico e la formulazione di frasi, per rispondere a possibili sfide politiche.

La proliferazione della comunicazione di massa ha senz’altro amplificato l’importanza di questa funzione del linguaggio nella società contemporanea, sebbene certamente fosse già presente anche nelle precedenti società, fin dall’antichità[19].

 

La lingua è per il filosofo francese Roland Barthes una istituzione sociale ed un sistema di valori[20]. Il carattere inconscio della lingua in coloro che vi attingono, postulato esplicitamente da Saussure, ricompare nelle posizioni degli strutturalisti (Levi-Strauss), secondo i quali ciò che è inconscio non sono i contenuti ma i simboli. Tale idea è vicina anche a quella lacaniana di desiderio come sistema articolato di significazioni. È l’immaginario collettivo che non si costituisce di temi e contenuti, ma di forme, funzioni e simboli, che si esprime più attraverso significanti che significati[21].

La lingua secondo Barthes non è elaborata dalla massa parlante, bensì da un gruppo di decisione, il segno è arbitrario, in quanto fondato in modo artificiale da una decisione unilaterale, i linguaggi sono secondo Barthes fabbricati, ma in fondo le elaborazioni stesse del gruppo di decisione non sono, se non in termini di una funzione sempre più generale la quale è l’immaginario collettivo dell’epoca. Se così è, allora l’innovazione individuale è trascesa da una determinazione sociologica e, a loro volta, queste determinazioni rinviano forse a un senso finale, di natura antropologica[22].

Gli stoici distinguevano scrupolosamente la rappresentazione psichica, la cosa reale, il dicibile. Il significato è secondo Barthes il dicibile, né coscienza né realtà, è quel qualcosa che colui che impiega il segno intende con esso, mentre il significante è un mediatore fra materia e significato e la significazione il processo che unisce significante e significato[23].

Osserva Barthes che il primo mito suscitato dall’immagine è quello del conflitto fra società moderna della tecnica e l’uomo, fra progresso materiale e valori spirituali. Ci si interroga se l’immagine moderna sia buona o cattiva.

Se certo la diffusione delle immagini appartiene al mondo moderno tecnologizzato, dall’altra non solo l’immagine veicola tabù, affetti, forze irrazionali e istintive. La tentazione analoga è quella di polarizzare fortemente la comunicazione umana, facendo del linguaggio articolato, del discorso, lo strumento dell’intelletto, della ragione argomentativa e astratta e dell’immagine il veicolo del patetico e del sentimento. Questa conclusione permette di affermare che è in corso una regressione dell’umanità verso l’infanzia. Per Barthes quest’artificiosa antitesi è del tutto arbitraria, in quanto è per lui impossibile ridurre il linguaggio a puro logos: le parole sconvolgono, intimidano, fanno soffrire, fanno sognare, provocano processi affettivi e traumatici infiniti. Ciò che definisce un linguaggio non è ciò che dice ma come lo dice e ciò che non dice[24].

Il problema sorge infatti di fronte alla cosiddetta “opera di massa” (categoria nella quale potremmo far rientrare anche le contemporanee performance dei politici): un’opera immediata, sprovvista di mediazione etica, consumata in questo modo (che è la sua finalità), non ha un valore dato e non è sicuro che abbia senso porlo, la sua funzione svanisce, la sua struttura differisce dalle opere classiche (che hanno una forte mediazione etica e un valore dato). L’opera di massa secondo Barthes mette in campo modelli collettivi, richiede una critica tematica attiva capace di trovare le reti più varie, è sottomessa ad una logica particolare: dipende dalle regole del consumo. Non vi sono più ruoli e azioni precisi, tutto si attiene a una regola estetica, ovvero porta sempre a conclusioni obbligate[25].

I mass media che sono oggi il principale veicolo delle opere di massa, ivi inclusi gli interventi politici, i dibattiti e l’informazione, comunicano messaggi e simboli alla popolazione. Comunicare simboli, questa è la loro funzione secondo il linguista Noam Chomsky. Il loro compito è divertire, intrattenere e informare, ma nel contempo inculcare negli individui valori, credenze e codici di comportamento integrati alle strutture istituzionali della società di cui fanno parte.

Secondo il filosofo francese Michel Foucault il linguaggio è anche un potente sistema di esclusione, ovvero un dispositivo di interdizione che costringe e definisce dicibile e indicibile, vero e falso. Osserva infatti il filosofo che in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurare i poteri e i pericoli, di padroneggiare gli eventi e schivarne la materialità.

Vi sono infatti secondo Foucault tabù dell’oggetto, rituali di circostanza e un diritto privilegiato o esclusivo del soggetto che parla, non si può dir tutto e maggiormente non si può parlare di qualsiasi cosa in qualsiasi circostanza e le regioni soggette al maggiore oscuramento sono proprio, secondo il filosofo, sessualità e politica. Il discorso dunque, lungi dall’essere l’elemento trasparente e neutro (evocato dal concetto greco antico di “parresìa”) nel quale l’una si placa e l’altra si pacifica, è uno dei siti in cui le due sfere esercitano i loro più temibili poteri, rivelando i legami con il desiderio ed il potere proprio attraverso il reticolo di “interdetti” e lapsus.

Anche qualora si potesse essere completamente trasparenti non è detto che ci si capirebbe comunque, e soprattutto se il discorso è così reificato da essere oggetto di sé fine a se stesso e non avendo più nessun riferimento concreto, la trasparenza assoluta non potrebbe mostrare che il nulla assoluto (come quando si parla di “commissioni della morte” o di “abolizione della povertà”). Per quanto riguarda la neutralità, è forse proprio in ragione della non neutralità od ostilità/simpatia reciproca (spesso di riflesso, meccanica e a priori o dettata da motivi sfuggenti, fisici, difficilmente controllabili) che esiste la comunicazione linguistica articolata e complessa.

Il potere del “reticolo di interdetti” (che si astraggono fino a diventare nulla pur restando potentissimi simboli totemici-tribali) è avvenuto secondo il filosofo nel momento in cui l’idea di verità si è spostata dall’atto ritualizzato all’enunciato (sostituto del totem), con Platone, con l’inizio della “volontà di verità”, rimanendo la verità a sua volta una costruzione psicologica diversa dalla realtà[26].

Si deve, secondo il paradosso foucaultiano, “dire per la prima volta ciò che è già stato detto e ripetere instancabilmente ciò che, nondimeno, non era mai stato detto”[27]. L’autore è quindi un principio di raggruppamento di discorsi, come unità e origine dei loro significati, fulcro della loro coerenza, eppure esistono in circolazione non pochi discorsi che non devono il loro senso ed efficacia ad alcun autore: parole quotidiane, decreti, contratti (che hanno bisogno di firmatari e non di autori), ricette tecniche, istruzioni[28].

L’individuo che si mette a fare un discorso assume la funzione di “autore”, ciò che dice e ciò che non dice, come riceve quella funzione dalla sua epoca e come a sua volta la modifica[29].

Il discorso appare come una sorta di “pensiero rivestito dei segni”, reso visibile dalle parole. È il soggetto che può, attraversando lo spessore o l’inerzia delle cose vuote fondare orizzonti di significati[30]. Il discorso non è per Foucault niente più che un gioco, di produzione da una parte e di lettura dall’altra, e questo scambio mette in gioco i segni, il discorso si annulla così, ponendosi a disposizione del significante[31].

Obietta il filosofo pragmatista statunitense Hilary Putnam che certe capacità umane potrebbero non essere spiegabili a livello teorico prese una per una, se si prescinde da un modello completo di organizzazione funzionale umana, il quale del resto potrebbe risultare inintelligibile perché restiamo costitutivamente opachi a noi stessi, non avendo capacità di comprenderci l’un l’altro come comprenderemmo un atomo di idrogeno[32].

Al di là di poche aree non collegate fra loro, sappiamo assai poco dell’architettura generale della mente, ma secondo Chomsky resta quanto mai interessante indagare interdisciplinarmente il rapporto fra credenze e azioni, così come la distinzione fra credenze identificanti e non identificanti[33], politicamente parlando: identità mobili o identità stabili, pensiero debole e pensiero forte. La struttura portante di tutto ciò è indubbiamente il linguaggio, comunicatore di simboli.

Secondo lo psicologo Steven Pinker, che consiglia di vedere il linguaggio proprio come una “ragnatela”, l’uomo sa parlare per istinto, nello stesso senso in cui il ragno sa tessere la sua tela[34].

 

Il linguaggio non coincide con la lingua poiché esso consiste nell’abilità di acquisire qualsiasi lingua (e anche più di una) e adattarla ai propri scopi, l’abilità del linguaggio è universalmente trasmessa geneticamente dagli uomini, mentre le lingue si imparano, a cominciare dalla propria lingua madre[35].

Nessuna lingua è un sistema uniforme usato nello stesso modo da tutti coloro che fanno parte di quella comunità linguistica territoriale o trans-territoriale.

La lingua dimostra una grande variabilità interna, dovuta sia a ragioni geografiche (diatopiche) sia a ragioni sociali (diastratiche). Nella stessa lingua non abbiamo solo varianti regionali diatopiche, ma anche varianti (grafiche o di pronuncia, sintassi, vocabolario) imputabili a diverse origini etniche e all’appartenenza a diversi strati sociali (o gruppi religiosi talvolta) dei parlanti, diastratiche, diafasiche, diamesiche.

Possono essere esplorate differenze linguistiche anche in base all’appartenenza politica[36].

Il ruolo della lingua è cruciale nella costruzione dell’appartenenza nazionale.

Gli intellettuali romantici sette-ottocenteschi, a partire dalla Germania, concepirono e manifestarono un legame mistico fra lingua e appartenenza sociale e nazionale.

 

II – Linguaggio e politica, teorie e strategie evolutive.

 

Il linguaggio verbale nell’uomo è un istinto particolarmente sviluppato e probabilmente una funzione evoluta da un’arbitraria mutazione genetica propria e peculiare, che fu selezionata e conservata meccanicamente dall’evoluzione, in quanto benefica per l’evoluzione umana stessa.

Non si fonda quindi su proprietà innate del cervello umano, ma si tratta di una nuova e specifica abilità di specie acquisita e tramandata come istinto vitale durante l’evoluzione[37]. Forse iniziata come istintiva imitazione di riflesso di rumori, versi animali, etc.

È stata permessa dalla comparsa, dalla conservazione e dallo sviluppo di aree del cervello, di certi nervi specifici, dell’osso ioide e soprattutto da poderosi muscoli labiali (in comune con macachi e oranghi i quali però non possedendo le stesse strutture neurocognitive non hanno inventato delle lingue articolate). I muscoli labiali sono quelli che permettono l’avvento delle consonanti labiali di base, le più antiche, alla base della lallazione primordiale: “mamma”, “pappa” (con una presumibile vicinanza fra infanzia degli uomini e “infanzia” preistorica dell’uomo). Le scimmie Gelada in Etiopia mostrano di padroneggiare labiali, schiocchi, fischi e modulazioni in un modo che dovrebbe essere lo stadio che precede l’avvento del linguaggio verbale (e che ancora è presente in certe lingue antichissime come quelle dei San, degli Zulù, dei popoli aborigeni australiani).

D’altro canto però verosimilmente tutte le forme di vita hanno dei “linguaggi” intesi come modalità e possibilità di comunicare fra gruppi e individui, si vede molto bene nelle scimmie e nei cetacei, nei mammiferi in generale, e anche in uccelli, polpi e molluschi, pesci, anfibi, rettili, insetti e persino piante. Si tratta di linguaggi e di comunicazioni non verbali ma efficaci, esattamente come avranno fatto gli uomini prima di possedere un linguaggio verbale ed in realtà la comunicazione non verbale (gesti, mimica, toni e altro) continua ad avere una grande influenza anche nella comunicazione umana stessa, ben al di là di quanto possiamo controllare ed essere disposti ad ammettere.

Non solo, se una gran parte della comunicazione non verbale è meccanica e involontaria, una buona parte anche della comunicazione verbale che pensiamo di controllare completamente con la ragione, finisce per essere altrettanto involontaria. Spesso ci troviamo infatti ad ascoltare e ripetere frasi di circostanza e luoghi comuni, memorizzati e ripetuti senza ulteriori grossi passaggi intermedi. Simboli che rimbalzano, sempre più freneticamente, sempre più vuoti, come un bombardamento incessante (indotto con una conseguente grande dispersione di attenzione), flatus vocis, variazioni nell’emissione d’aria, esattamente come uno starnuto o un colpo di tosse, solo apparentemente più significativi e complessi di un linguaggio fatto di schiocchi o di fischi (come sull’isola de La Gomera nelle Canarie), con funzione di inneschi di azioni/reazioni.

Se fosse solo un fatto genetico si tratterebbe di un’abilità libera non originata e/o influenzata da comportamenti sociali umani. Per Chilton (2004), ci si potrebbe dunque domandare quale relazione possa intercorrere, in una mente funzionante, in un reale contesto sociale, fra uno schema di evoluzione del linguaggio naturale e uno schema di evoluzione di relazioni sociali.

Forse il linguaggio è evoluto da strutture esistenti nel cervello dei primati. Sarebbe quindi l’intelligenza sociale a stimolare l’evoluzione di questa funzione. L’intelligenza sociale, non solo umana, è una modalità specifica del cervello umano primordiale.

Il dato di fatto incontrovertibile secondo Pinker è che esistono “società dell’età della pietra” ma non “linguaggi dell’età della pietra”, non solo non si è mai incontrata una tribù muta e non vi è traccia di una ipotetica “culla” da cui il linguaggio si sia propagato da un gruppo umano inventore agli altri, ma soprattutto ogni società umana più o meno complessa possiede un linguaggio come enciclopedia di simboli, metafore e concetti, in relazione fra loro e l’abilità di comunicarli in modi che sono solo da un punto di vista superficiale (linguistico, epifenomenico) così tanto diversi[38].

Vi sarebbe secondo il linguista Mario Alinei una continuità fra la lingua del primo Homo Loquens e le odierne lingue, dimostrata da una riscontrata tendenza conservativa, ben osservabile nelle lingue rimaste a lungo isolate: gli islandesi ad esempio parlano una lingua molto simile al norvegese più antico, essendo rimasti confinati in una realtà dove non sono intervenute grosse spinte verso mutamenti sociolinguistici. Le lingue per Alinei non hanno un “orologio genetico del mutamento”, tendono anzi a rimanere newtonianamente in uno “stato di quiete” per loro natura.

I cambiamenti per Alinei avverrebbero infatti anche nella lingua sempre per motivi sociali: la maggior parte dei popoli anche invasi ha continuato a parlare la propria lingua, le lingue non si estinguono fino a quando non perdono la loro funzione e utilità pratica sociale (che in certi casi si mantiene anche con una tenace e costante volontà conservativa nonostante spinte diverse).

Le lingue si iniziano ad esempio a tradurre in scrittura a partire dal momento in cui inizia a formarsi una classe dominante all’interno della società stessa, la quale, grazie alle conquiste dell’agricoltura, si appropria e si impossessa di un surplus e ha perciò bisogno di un “codice segreto” (la scrittura) per sigillare, consacrare, legittimare e conservare/tramandare il proprio privilegio.

La comunicazione scritta ha la sua anticipazione probabilmente nelle pitture rupestri, che risalgono ancora al Paleolitico e già i crani dell’uomo di Neanderthal dimostrano uno sviluppo dell’emisfero sinistro del cervello, delle aree deputate al linguaggio ed alla comunicazione verbale, dovuto alla già presente specializzazione della mano destra[39].

Gli aborigeni in Australia sono rimasti molto simili ai loro antenati proto-dravidici giunti dall’India in Oceania circa cinquantamila anni fa. Parlano una lingua, possiedono un linguaggio e un sistema simbolico-metaforico, tratto distintivo della specie Homo, praticano la caccia, dipingono su pareti rupestri e sui corpi, suonano strumenti primordiali, ma non hanno mai sviluppato agricoltura, allevamento, scrittura, economia. La loro lingua è rimasta quella primordiale preistorica, senza spinte e mutamenti sociali.

Il punto nevralgico per Alinei è stato riuscire a scardinare il legame ritenuto simbiotico fra origine storica, filosofia, metafisica ed ideologia. Tutte le teorie, anche quelle non religiose, laiche e scientifiche sull’origine sono state infatti influenzate da fenomeni eteronomi di carattere più filosofico, metafisico, ideologico. L’archeologia mostra per altro una continuità ininterrotta e il genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza ha dimostrato che la classificazione dei gruppi genetici nel mondo corrisponde in modo assolutamente identico ai gruppi linguistici. Nel Paleolitico superiore l’Homo loquens possedeva già secondo Alinei uno sviluppo culturale-intellettuale e una differenziazione linguistica e culturale all’interno della stessa famiglia linguistica. Homo loquens deve per Alinei avere una poligenesi, ovvero diversi nuclei di Homo avrebbero in un tempo indeterminato del Paleolitico cominciato, per una facoltà genetica propria della specie, a inventare liberamente i propri mezzi verbali di concettualizzazione del reale e di strutturazione lessicale, ognuno per proprio conto.

La genesi di Homo sapiens sapiens sarebbe monoregionale (Africa) e la differenziazione linguistica precedente al Paleolitico Superiore, secondo la teoria di Alinei, altrimenti come conciliare i tratti paleolitici della cultura degli aborigeni australiani, con la loro capacità metaforica, con linguemi totalmente differenziati fra loro, oltre che diversi da quelli degli altri continenti, se tale differenziazione non precedesse il Paleolitico Superiore, data di spostamento di quelle genti verso l’Australia? La differenziazione linguistica potrebbe dunque aver preceduto addirittura quella genetica[40].

Il linguaggio verbale rimpiazza via via, di fatto, gesti che gli altri primati compiono ancora per la socializzazione. Fra gli scimpanzé questi gesti sottintendono segnali e rapporti sociali e gerarchici, una sorta di “proto-politica”, per Chilton[41].

Un altro approccio afferma che i primi umani sarebbero stati “machiavellici” in tutti i loro comportamenti, cercando strategie di massimizzazione del vantaggio individuale. La comunicazione verbale sarebbe fra queste strategie.

Perché allora, si domanda Chilton, questi primi umani machiavellici avrebbero dovuto trovare vantaggioso sviluppare un’abilità per scambiarsi informazioni, anziché per condividere cibo, per esempio?

Abbiamo due risposte possibili.

Da una parte si sottolinea la contradditorietà del termine “altruismo”, se è strategica la condivisione di informazioni allora deve essere stata selezionata dall’evoluzione, in termini darwiniani. Dall’altra parte se si enfatizza nell’evoluzione del linguaggio anche la necessità di segnalare identità di gruppo, allora ogni gruppo condivide le sue informazioni vantaggiose al suo interno, in un modo da tenerne fuori i non appartenenti, codificando un linguaggio verbale fra chi è riconosciuto parte del gruppo.

Perciò negli animali sociali complessi, che sviluppano questo genere di organizzazione, non si può parlare che di altruismo interno di gruppo (o egoismo collettivo di gruppo) come origine del linguaggio verbale. Altri ancora enfatizzano anche la necessità di sviluppare il linguaggio per decodificare i piani e gli scopi altrui[42].

Per Chilton si può parlare di cooperazione per focalizzare un aspetto cruciale: il lavoro di gruppo per il raggiungimento di scopi individuali.

Gli animali hanno l’abilità di rappresentare con segnali cose, accadimenti, azioni, consapevoli o no, mentre gli umani hanno l’abilità di meta-rappresentare cose, al di là dell’orizzonte contingente. Gli umani possono generare rappresentazioni astratte con la stessa facilità con la quale emettono semplici segnali, questo in maniera simile agli animali, i quali però non possono meta-rappresentare gli oggetti e i fatti che li circondano e che sentono proiettandoli al di là dell’immediato[43].

Il linguaggio umano rende possibile simboli astratti dai loro referenti concreti, comunicare il passato, il futuro, il possibile e l’impossibile, il consentito e l’illecito.

Tutto ciò è intrinsecamente legato a ciò che chiamiamo politica ed ha comunque a che fare, finché è in qualche modo controllato e pensato, da tutti e da ciascuno, con la memoria e con l’esperienza, soggettive e collettive, personali o condivise, finché non si arriva al mondo della virtualizzazione, senza memoria e senza esperienza, con poco da dire quindi, ma poche parole e tante metafore da usare, puri artifici retorici assoluti, slegati da tutto ma più potenti che mai, in cui la produzione verbale che non è pensiero ma può esprimere il pensiero, farlo emergere, formarlo o esserne formata, si affranca completamente dal pensiero latitante, in tempi di intelligenza artificiale e di solipsismo tirannico da videogiochi.

Gli umani dimostrano un’abilità largamente evoluta non solo di partecipare ad azioni di gruppo, ma di pianificare future azioni di gruppo. Sebbene alcuni umani siano machiavellici, obietta Chilton, possono esserlo solo nella misura in cui possano cooperare attivamente con qualcuno in vista di un futuro[44].

Il punto fondamentale è che pianificare il futuro è possibile solo se esiste un mezzo di comunicazione, il linguaggio verbale umano, astratto dal contesto immediato.

Gli individui hanno la capacità di comunicare, comparare, allinearsi o dissentire con le rappresentazioni del futuro, del presente, del passato e del possibile.

C’è un forte vantaggio evolutivo nell’essere capaci di pianificare scopi, slegati dal contesto immediato. Questo è possibile solo attraverso un sistema di simboli evocativi[45].

Forse l’uomo ha inventato il linguaggio verbale per il suo profondo bisogno di lamentarsi, o si lamenta perché ha il linguaggio verbale?

Se per Chomsky l’evoluzione del linguaggio corrisponde a strutture cerebrali, dono arbitrario dell’evoluzione umana, la creatività generatrice linguistico-cognitiva è libera e comune.

La struttura di una lingua certamente tenderebbe a costringere una certa formazione del discorso (quindi una certa forma mentis), secondo Chilton, ma almeno in linea teorica, ognuno può esercitare il diritto di parafrasi, di dire le cose diversamente, in conciliazione con il principio di libertà cognitiva chomskiano. L’incubo orwelliano della lingua totalitaria può così essere aggirato anche se gli umani, in base a principi di cooperatività di gruppo vantaggiosa, sono spesso spinti a non resistere alle convenzioni sociali. L’imitazione è un meccanismo potente fra simili e persino fra specie diverse.

A volte è difficile trovare un termine che renda esattamente un pensiero. Quando ascoltiamo o leggiamo, solitamente ci ricordiamo il succo e non le parole esatte, quindi ci deve essere un succo (il simbolo) che non è la stessa cosa di una manciata di vocaboli, obietta Pinker, sarebbe piuttosto il pensiero a determinare il linguaggio e le parole e una certa evoluzione del linguaggio quindi, così come anche dei modi, delle scelte, degli usi, sono forse più spie degli sviluppi in atto a livello psichico, storico, politico, generale, individuali e collettivi[46]. A quanto pare esistono molti tipi di pensiero non verbale, il pensiero è diverso dal linguaggio[47].

Per Chilton (come per Chomsky) è importante affermare e ribadire che si può usare la lingua diversamente, in maniera creativa e indipendente da convenzioni e costrizioni socio-politiche[48]. Va infatti detto secondo Pinker che non è la complessità della mente che è causata dall’apprendimento, bensì l’apprendimento che è causato dalla complessità della mente[49]. Le persone possono riconoscere assai più parole di quelle che hanno occasione di usare in un dato periodo di tempo o di spazio[50].

Se Chomsky parla di “grammatica universale”, per la sua teoria, Jürgen Habermas parla di “pragmatica universale”, asserendo che la comunicazione è un’attività concretamente alterata e distorta da molteplici interessi.

Habermas contrappone questa condizione a quella che chiama “comunicazione ideale”: un “normale scambio sociale” di “onesta espressione di sé”, che non esiste nella realtà, ma è teoricamente raggiungibile, localmente in situazioni specifiche favorevoli, oppure possono essere riconosciuti universalmente e liberamente, da tutti e da ciascuno, principi e criteri (di comprensibilità, veridicità, sincerità, rettitudine) condivisi, che dirigano ogni atto comunicativo, permettendo di discernere le comunicazioni oneste da quelle disoneste, delineando così una cooperazione linguistica non machiavellica ma veritiera[51].

La componente non-logica di produzione di significato non può essere facilmente separata però dall’interazione sociale e politica, dalle sue convenzioni e istituzioni consolidate. Il linguaggio politico riflette le condizioni di una comunità[52].

La credibilità politica è data da una complessa concatenazione di circostanze sociali e psicologiche. Ne è un esempio la post-verità psicomorfa, che mette fuori gioco Habermas, in quanto esistono “bolle” in cui le persone vivono con le loro credenze granitiche, rafforzate di continuo da altre persone della stessa idea, senza altre interazioni, e da mezzi di informazione social i cui algoritmi continuano a ripresentare loro le stesse “fonti di verità” riprodotte e replicate all’infinito, con un certo insieme di termini ed espressioni a ripetizione. In questi casi estremi ma sempre più frequenti non c’è modo di interferire con quelle verità e credenze ad personam e non ci può essere nessuna percezione autocritica di non correttezza.

 

III – La teoria cognitivo-linguistica delle metafore: le metafore belliche.

 

Il presidente dominicano Juan Emilio Bosch, scriveva nel suo libro-pamphlet del 1968 “El Pentagonismo”, che l’uso delle armi messo in atto dalle superpotenze nelle guerre equivarrebbe a prendere quelle stesse quantità di armi e buttarle direttamente in mare, tanto quello che importa è la speculazione legata alla sovraproduzione e all’iperconsumo di armi, con tutti i suoi apparati collaterali, giganteschi indotti vari e impensabili, ma una cosa del genere non sarebbe possibile ovviamente se non fosse legata a una retorica nazionalista, all’evocazione costante del pericolo imminente che giustifica l’eufemismo delle “missioni di pace”, alla costruzione perseverante di un nemico totale, all’istituzionalizzazione dei miti del progresso e dello sviluppo illimitati, della superiorità del proprio stile di vita e delle proprie credenze (ovviamente i gruppi terroristici non sono ribaltatori di questo ordine di cose ma sono solo tragicamente funzionalmente speculari).

Come sottolinea il sociologo Christopher Lasch, del resto, la deferenza verso i “valori tradizionali”, da parte dei sedicenti “conservatori”, da Ronald Reagan in poi, non può nascondere la “dedizione al progresso” assoluta e incondizionata, in termini di crescita economica illimitata e individualismo teso all’accumulazione. Un movimento che si autodefinisce “conservatore”, si dovrebbe, secondo Lasch, associare a una richiesta di porre dei limiti non solo alla crescita economica ma anche alla conquista dello spazio, al dominio tecnologico sull’ambiente e all’espansione indefinita dei consumi, delle forze produttive e dell’accumulo di ricchezze..

La mondializzazione dell’economia ha esacerbato la tensione tra democrazia, come sistema di regole basate sulla territorialità e il mercato (globale), basato su reti transnazionali di potere. I governi hanno perso la loro capacità di governare queste forze transnazionali conformemente alle preferenze espresse dai cittadini e l’essenza stessa della democrazia, vale a dire l’auto-governo, è stata decisamente compromessa (…) la stessa democrazia viene continuamente presentata come una forma di relazione economica (…) Si dovrebbe prestare maggiore attenzione all’utilizzo delle parole e al loro intento performativo. Indicare come prospettiva appetibile o come politica da implementare, un obiettivo non conseguibile è un comodo esecrizio retorico che esime i locutori dall’assunzione di responsabilità alla quale, invece, sono chiamati[53], scrive la linguista Lorella Cedroni.

C’è da osservare, prendendo come paradigma l’Italia degli ultimi trent’anni, come fin dalla rivoluzionaria campagna elettorale italiana del 1994 (post-tangentopoli), nessuno dei maggiori partiti abbia rinunciato a rivendicare la parola-cartello e figura retorica “Progresso”, metafora potente e ricca di riferimenti concettuali inculcati nell’educazione del dopoguerra orientata al consumismo e allo sviluppo illimitato, sotto la quale riconoscersi sommariamente e acriticamente. Un meccanismo innescato anche dalla politica sempre più interpretata come guerra, con le metafore belliche di “battaglia”, “barricata”, “trincerarsi”, “campo”, “armi”, “strategia”, “duello”, “nemico”, “sconfitta totale”, “macchina da guerra” (addirittura la “gioiosa macchina da guerra” evocata da Achille Occhetto nel 1994 per indicare la sua coalizione anti-Berlusconi).

Ci sarebbe da dire che la guerra viene considerata come una eventualità estremamente remota nella nostra parte di mondo (salvo poi deflagrare “a sorpresa” proprio nel cuore dell’Europa), ma costantemente evocata laddove non c’entrerebbe: economia, finanza, marketing e management (non a caso gli ultimi due ispirati pervasivamente anche da personaggi come l’ex ufficiale SS Reinhard Höhn) sono intrisi di metafore belliche e la politica ne è contaminata profondamente da una trentina d’anni, con una sempre più pericolosa confusione e sovrapposizione fra guerra e competizione.

Pensando a Johan Huizinga, la politica, la società e l’economia cessano di essere “giochi seri” (ma pur sempre giochi non ragioni di vita totalizzanti) quando diventano appunto “guerre” (e la guerra ha cessato di essere un gioco dalle guerre di religione) che si riempiono di metafore e concetti violenti e totalizzanti, in cui il nemico è totale, la vittoria deve essere totale: “asfaltare” l’avversario per usare un termine in voga, o “liquidare”. Si pensi anche all’idea di “guerra alla povertà” (non emancipazione dalla povertà, liberazione dalla necessità dell’indigenza, ma proprio guerra!) rievocata più volte dai leader populisti fino a oggi, per la prima volta dal presidente USA Lyndon Johnson (discorso programmatico, 1964), per altro in piena guerra fredda, guerra in Vietnam e vigorosa interferenza delle superpotenze nelle politiche dei paesi dichiarati “sottosviluppati” dall’altro presidente USA Harry Truman (discorso programmatico, 1949). Tutto questo ha  innescato e legittimato un’idea univoca di progresso e sviluppo intesi solo in senso tecnico finanziario materiale, a qualsiasi costo umano, sociale e ambientale, lo sviluppo e il progresso come lotta e corsa per la supremazia (magari mascherata da aiuti umanitari), come guerra appunto.

Si può pensare, compiendo un bel volo pindarico, all’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, quando la guerra era ancora cosa riservata ai cavalieri, agli eroi, e il cavaliere Astolfo, certo non uno dei più appariscenti o brillanti del poema, va sulla luna per ritrovare il senno perduto dal protagonista Orlando. Orlando ha perduto il senno e infatti procede come una macchina senza pensiero, sradicando, sbranando, abbattendo e distruggendo tutto quello che incontra sulla sua strada. Sulla luna Astolfo trova oggetti, parole, occasioni, intelligenze perduti (e anche il senno di Orlando così può riportarglielo e far ripartire la storia, la storia infatti si era arrestata, come congelata, con l’esplosione della furia senza regole del protagonista che dà il titolo al poema) ma non trova una traccia di follia, sulla luna, poiché la follia, intesa come stoltezza, crudeltà, dissennatezza si trovano solo sulla terra, fra gli uomini. Orlando perde il senno e diventa quasi una “macchina di distruzione di massa”, ma non perde la parola, la logica, l’abilità, perde il senno, il pensiero, la ragione, ciò che è così importante per far funzionare le altre facoltà, che tuttavia esistono e si manifestano pienamente e brutalmente anche in assenza totale di senno.

Gli esseri umani producono, capiscono e vedono il linguaggio. Le persone pensano e agiscono spesso inconsciamente, secondo la linguista rumena Maria-Ionela Neagu (2013), dentro i discorsi che fanno e possiedono[54].

Per il linguista statunitense George Lakoff, il pensiero è in larga misura inconscio (per dirla heideggerianamente, l’Essere per l’Essere). I concetti astratti sono in massima parte metaforici, la ragione è dipendente dalla percezione e dall’azione e quindi la mente umana agisce entro determinate cornici, strutture, schemi, scacchiere, basate sull’esperienza memorizzata (o trasmessa) e rielaborata nell’inconscio[55].

La metafora è da molti considerata come uno strumento dell’immaginazione poetica, un artificio retorico, qualcosa che ha a che vedere con il linguaggio straordinario, letterario alto, non con quello comune.

Secondo il filosofo francese Paul Ricoeur, la funzione poetica e la funzione retorica si distinguono pienamente però solo se emergono chiaramente la funzione fantastica e quella ridescrittiva e la tensione fra le due, poiché essendo il linguaggio metaforico un linguaggio che crea miti, che crea “verità metaforiche”, il pericolo sempre in agguato nella comunicazione non strettamente poetica è che la differenza fra “è” ed “è come, come se” venga smarrita[56], come nell’artificio poetico. Il rischio è chiaramente quello di essere immersi in una “verità metaforica”, della quale però non si ha più la più pallida idea che non sia “la verità”: il “momento estatico” del linguaggio totalmente “fuori da sé”, fucina delle credenze[57].

La metafora è considerata come caratteristica tipica del solo livello linguistico, una questione di parole piuttosto che di pensiero e di azione. Molti pensano di fare a meno della metafora, invece essa è diffusa nel linguaggio quotidiano, nel pensiero e nell’azione, afferma Lakoff che il nostro stesso comune sistema concettuale è essenzialmente di natura metaforica[58].

Addirittura, il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche arrivò a definire la lingua come un mobile esercito di metafore.

Nelle metafore originarie si sviluppa un materiale semantico, grazie all’oblio della genesi delle metafore stesse[59].

La realtà si rende intellegibile mediante le immagini, ma la coscienza della metaforicità offre, secondo il filosofo tedesco Karl Jaspers, quella libertà che serve a cercare di vedere cosa sta dietro, in quanto l’illimitatezza del significare sembra conferire all’interpretazione uno spazio infinito, benché gli oggetti del mondo e soprattutto dell’esperienza e le parole stesse siano finiti. Si può leggere potenzialmente qualsiasi testo insinuandovi e traendovi qualsiasi senso, non avendo mai un discorso o un testo un fondamento ultimo, da un certo punto di vista, perciò il rischio che l’arbitrarietà interpretativa regni è costante, specie se si cerca di innalzare le parole quasi fossero sostanze o potenze attive, magiche e misteriose potenze originarie.

Anche secondo il filosofo insomma è un errore cercare di capire e conoscere le cose muovendo dalle parole, l’indagine sulle parole è un ambito specifico della storia dello spirito, ma confondere i due piani significa confondere lo studio delle parole con la storia universale[60].

Le parole servono da legame di rappresentazioni che altrimenti si dissolverebbero.

L’invenzione del linguaggio è un’opera collettiva e il bisogno di comunicare assimila l’uomo all’animale più che distinguerlo da esso, ma l’uomo ha di proprio il non essere limitato ad una sfera d’azione uniforme, i suoi sentimenti non sono costruiti solo in vista di un unico fine immediato[61].

La nascita del linguaggio sulla base di relazioni naturali spiega al più la formazione di particolari lingue e dialetti[62], non motiva l’esistenza del linguaggio verbale in sé e a quanto pare sarebbe più il linguaggio a tenere insieme i diversi interessi umani individuali che viceversa.

L’errore fondamentale sta secondo la linguista Lia Formigari, tanto come per Jaspers, nello sforzarsi di ricostruire attraverso quale procedimento si sia giunti a riunire sotto uno stesso nome generale una certa classe di oggetti, ricercando una presunta “essenza comune” espressa dal nome, immaginando così che siano le realtà metafisiche o idee costituite dalle metafore nell’immaginazione le verità indipendenti pre-esistenti[63].

È semmai, sempre secondo Formigari, il diverso comportamento metaforico, non la diversità di schemi mentali, che crea la diversità spesso irriducibile fra le lingue, quale si sperimenta talvolta con le difficoltà della traduzione, essendo la costituzione organica dell’uomo, che è ovunque la stessa, la fonte del linguaggio. Tutte le differenze potrebbero perciò ridursi alla scelta di metafore tratte dall’uno piuttosto che dall’altro dei cinque sensi. Forse, se le prime espressioni del linguaggio umano fossero state relative al gusto, invece che alla vista (“idea” e “sapere” hanno una comune origine in greco antico nel verbo “vedere”), la nostra metafisica sarebbe stata differente[64].

Le metafore dunque regolano le nostre attività quotidiane, fino nei minimi particolari, strutturano ciò che noi percepiamo.

Un esempio palese secondo Lakoff è quello della discussione vista metaforicamente come guerra, con un’intensità sempre maggiore nei tempi recenti, in espressioni comuni come: “le tue richieste sono indifendibili”, “egli ha attaccato ogni punto debole della sua argomentazione”, “le sue critiche hanno colpito nel segno”, “Ho demolito il suo argomento”, “Spara!”, “Usare una strategia discorsiva”, “Con quel discorso ti fa fuori/ lo fai fuori in un minuto”, “Ha distrutto tutti i miei argomenti”, etc… non soltanto parliamo delle discussioni in termini di guerra, ma effettivamente concepiamo la discussione come campo di battaglia dove si vince o si perde, con nemici, avversari, alleati, strategie, piani, linee di attacco, difese, armi, posizioni, terreni, attacchi, contrattacchi, etc[65]. Sono analoghe le metafore ricavate dal calcio nella politica italiana e non solo.

In un certo senso la metafora: “la discussione è una guerra”, è una di quelle con cui viviamo nella nostra cultura e struttura le nostre relative azioni e immaginazioni. Quasi impossibile è invece concepire discussioni non viste in termini di guerra, dove nessuno vinca o perda, non ci sia il senso di attaccare o difendere, guadagnare o perdere terreno.

Una cultura nella quale la discussione fosse vista per esempio, argomenta Lakoff, come una danza, conducendo le discussioni in modo diverso, vivendole in modo differente, metterebbe in pratica, dal nostro punto di vista, qualcosa di semplicemente affatto diverso, che non riusciremmo nemmeno più a concepire come discussione; a tal punto una metafora struttura ciò che facciamo e come comprendiamo ciò che stiamo facendo.

L’essenza della metafora, non dimentichiamo, è comprendere e vivere anche involontariamente, inconsciamente un tipo di cosa in termini di un altro: le discussioni non sono sottospecie di guerre, sono cose diverse, ma così non sembra più nella nostra immaginazione e nel nostro linguaggio[66].

Ricorda l’epistemologa Nicoletta Caramelli, che la metafora crea associazioni durature che però non hanno nulla di pre-esistente, con fondamenti naturali evidenti, le associazioni vengono create dalle metafore (con una forza quasi intrusiva nella psiche) proprio perché è più difficile capire secondo metafora, rispetto a una spiegazione letterale estesa, ma la metafora, una volta acquisita, scatena potenti meccanismi che agiscono più profondamente e a lungo[67].

Un’altra metafora comunissima che ci mette davanti Lakoff è: “il tempo è denaro”, da cui deriva, nella nostra cultura, che il tempo sia una merce pregiata, una risorsa limitata che utilizziamo per conseguire i nostri scopi: “non farmi perdere tempo”, “risparmiare tempo”, “non ho tempo da dedicarti”, “avete esaurito il tempo a disposizione”, “non stai usando il tuo tempo in modo proficuo”, “questa cosa mi è costata un’ora[68], etc… evidentemente tutto questo si è ulteriormente avverato con la “managerizzazione” del lavoro e l’aziendalizzazione della cosa pubblica e delle istituzioni e dei servizi pubblici statali, ci sono un sacco di cose improduttive, non spendibili, non vendibili, non cedibili, insensate e inutili secondo un certo modo di vedere, che però richiedono tempo: come ad esempio la riflessione su pensieri, linguaggio e azioni, per essere più consapevoli e liberi nelle scelte e negli usi, evitare sensazioni negative a sé e agli altri e contribuire a realizzare la realtà che vogliamo percepire e pensare con le nostre azioni, con il nostro linguaggio, e non solo subirla come tale.

Il linguaggio è un organo di cui dispone il nostro pensiero, e non viceversa, a quanto pare, per scegliere cosa dire, cosa fare, come agire o non agire sulla realtà, che senso e significati dare alle cose, per quanto si inneschino sempre anche fenomeni collettivi (un patrimonio inconscio accumulato in migliaia di anni) per i quali spesso la resistenza e il non conformismo richiedono una dose di sforzo consapevole e di responsabilità non indifferente, rispetto alla omologazione sistematica sempre più organizzata e automatizzata.

Certe concettualizzazioni sono tipiche della nostra cultura ma sono invenzioni che per quanto saldamente radicate di generazione in generazione potrebbero essere disinnescate o cambiate, per lo meno frenate, per esempio attraverso l’educazione. Vi sono culture in cui il tempo non è denaro e la discussione non è guerra[69].

Nella nostra cultura vediamo idee e significati come oggetti che si possono dare, prendere, rubare, nascondere[70].

L’idea tossica secondo la quale il dibattito non possa che essere guerra, che non possa essere reinventato e riconcettualizzato, e quindi non possa che essere vissuto così oppure vada evitato a priori a vantaggio, di solito, non di una vita senza conflitti ma soprattutto a vantaggio di chi ovviamente non può mettere in crisi la sua “posizione di forza” o di “ragione” (magari colpevolizzando anche chi solo sollevi obiezioni) non ha fatto bene allo sviluppo del pluralismo delle idee, non ha risolto il problema della conflittualità e della competizione assoluta che continuano a regnare sovrani, a crescere, esplodere e manifestarsi a tutti i livelli e in tanti modi diversi, a partire dalla politica e dalle relazioni sociali, economiche, lavorative, familiari. I discorsi e le discussioni sui mass media, sempre più simili a invettive e scontri, sono un pessimo eccellente esempio della trasformazione del dibattito pubblico piuttosto in un calderone pressato ma sempre pronto a esplodere ancora più scompostamente, fatuamente e velenosamente.

Vi sono inoltre metafore ontologiche, che addirittura specificano oggetti fisici e non fisici come se fossero persone, con attribuzione di azioni umane: “la vita mi ha tradito”, “l’inflazione ci sta mangiando i profitti”, etc[71].

La maggior parte del nostro normale sistema concettuale insomma è strutturato in forma metaforica, cioè la maggior parte dei concetti è almeno parzialmente strutturata in termini di altri concetti. Vi sono pochi concetti compresi direttamente senza nessuna metafora, quelli spaziali immediati secondo Lakoff[72].

La metafora è diffusa in tutto il nostro sistema concettuale normale proprio perché molti concetti importanti e vitali per noi sono astratti e non chiaramente delineati nella nostra esperienza, come emozioni, idee, tempo, e abbiamo tuttavia bisogno di coglierli per mezzo di altri concetti che possiamo comprendere in termini più chiari, concreti, materiali, ciò ne fa una componente fondamentale del linguaggio[73]. Ogni seppur minimo cambiamento di metafora in un discorso rischia di cambiare il significato della frase o confondere e lasciare perplessi[74].

A tal proposito è interessante ricordare per quanto riguarda l’Italia le ardite metafore dell’ex segretario del Partito Democratico Pier Luigi Bersani: “smacchiare il giaguaro”, “asciugare gli scogli”, “pettinare le bambole”, “quest’acqua dove siamo”, “non dimenticare chi ha scavato il pozzo da cui bevi”, “una mucca nel corridoio”, etc[75].

Ma non bisogna dimenticare la libertà e secondo il personaggio immaginario Humpty Dumpty, citato da Lakoff, “qualcosa significa proprio ciò che io scelgo che significhi, né più né meno”[76].

Se qualcuno dice di aver invitato a una cena una bionda, una marxista, una violoncellista, una lesbica, evidentemente può essere che stia parlando di una sola persona, vista da quattro prospettive diverse. La persona è la stessa ma ognuno la concettualizza nel modo più aderente a ciò che ritiene prioritario astrarre secondo le proprie visioni e credenze[77].

Il nerbo della teoria delle metafore consiste nel considerare il linguaggio entro una sistematica proiezione immaginaria fra domini concettuali. Perché di una questione di “dominio” si tratta, concettualizzare le cose e gli altri esseri umani e viventi in generale come “cose” sottomano, riducibili a un aspetto o pochi aspetti della loro intrinseca complessità.

Esisterebbero quindi, secondo la teoria, vere e proprie mappe mentali che spiegherebbero la selezione di determinate espressioni metaforiche da impiegare nel discorso. Esisterebbe anche di conseguenza, secondo questa analisi, la possiblità di identificarsi o meno con metafore, più o meno somiglianti al modo di pensare (e produrre metafore e concetti) di ciascuno[78].

Ognuno acquisirebbe un certo bagaglio di metafore in base alle proprie esperienze di vita, alcune comuni più o meno a tutti, altre divergenti/conflittuali.

Per tutti, per esempio, metaforicamente gli stati sono luoghi, il cambiamento implica una qualche idea di movimento, i propositi sono mete di destinazione, il desiderio è fame, e così via. Sono metafore primordiali che chissà da quanto tempo accompagnano l’uomo.

La funzione creativa del produrre metafore definisce la comprensione dell’ambiente, riempie spazi lessicali, spiega e produce modelli, specialmente nella conoscenza e nei miti, riconcettualizza e immagazzina le nostre esperienze.

Le metafore hanno inoltre una funzione interpersonale, le metafore permettono di agire sugli altri e sull’ambiente, avendo ruolo persuasivo, pertanto servono a consolidare o sfidare il potere e la società, esprimendo emozioni, distorcendo la realtà o stimolando sentimenti comuni.

Le metafore inoltre, fin dal tempo degli antichi aedi, attivano nei lettori/ascoltatori i diversi piani di comprensione/interpretazione più appropriati al tema, al genere, al contesto. Catturano e proiettano in astratto le nostre esperienze fisiche e materiali, trasformandole in cultura. Le metafore intertestuali denotano l’abilità dell’emittente di adattare al contesto e rappresentare mentalmente e linguisticamente l’essenza degli aspetti sociali e culturali che deve esprimere ai riceventi[79].

La ricerca psicolinguistica ha svelato rapidi processi mentali inconsci, attivati nelle fasi di produzione e decodificazione linguistica.

Lakoff ha ipotizzato che il modo di pensare politico degli statunitensi si articoli e strutturi su due schemi concettuali per concepire il benessere, in senso metaforico: da una parte il sistema concettualizzante repubblicano del rimprovero morale, centrato sulla società concepita come metafora della famiglia del padre controllore, stretto e severo, in cui si confondono come sinonimi giustizia, severità e sicurezza, mentre dall’altra parte avremmo il sistema concettualizzante democratico, dell’azione morale, dell’equa distribuzione, centrato sulla società vista come metafora della famiglia permissiva che nutre e accoglie[80].

Dunque la metafora ha per Lakoff e Neagu notevoli effetti ideologici e ideologizzanti.

Le metafore formano le ideologie in merito a pratiche sociali e dibattiti contemporanei in materia di biologia, legge, educazione, economia e politica, dove abbiamo potuto assistere ad una progressiva polarizzazione ideologica su qualsiasi tema, a partire dalla scena politica statunitense.

Il direttore del Gruppo New York Times, Mark Thompson ha ricordato la campagna della repubblicana Sarah Palin, nel 2014, contro l’Obamacare, in cui ella stessa coniò l’espressione metaforica “commissioni della morte”, per indicare fantomatiche commissioni che avrebbero deciso a chi somministrare l’eutanasia e a chi no. Un presente e un futuro distopici eventuali sono davvero preparati dalle metafore di chi pretende di farsi antidoto ad una distopia che crea nelle teste di chi ascolta e realizza in verità poi con i tagli al sistema sanitario.

Chiunque parli di economia (e oggi anche di vaccini, clima, ambiente e Ucraina o Israele) prende una posizione, suo malgrado, e chiunque parli di riforma sanitaria pubblica negli USA oggi è percepito come un “comunista”. O un “eugenetista”, come è riuscita a fare la Palin. Anche se la riforma sanitaria obamiana assomigliava per molti economisti (fra i quali il Nobel Paul Krugman) alle proposte di riforma sanitaria dei repubblicani liberal degli anni ’70, quando i teocon dovevano ancora incominciare la scalata del Partito Repubblicano (grazie al Watergate, e aprire la pista a Donald Trump insieme agli ex “democratici per Reagan”) e i programmi sociali repubblicani e democratici spesso convergevano: Richard Nixon, presidente repubblicano, addirittura alzò le tasse per allargare alcuni programmi assistenziali, rispetto ai predecessori democratici e fu esemplare nei pionieristici programmi di difesa dell’ambiente, della qualità dell’aria e dell’acqua, in parte poi smantellati da Ronald Reagan, un repubblicano completamente diverso. Bill Clinton, democratico, con i suoi slogan come: “E’ l’economia stupido!” e i suoi vasti programmi di deregulation, imitati in tutto il mondo in fase di lancio della globalizzazione, continuò una nuova convergenza (non più statalista) nella scia reaganiana.

C’era stata fino agli anni ’70, e a seconda dei paesi anche oltre, una tendenziale progressiva convergenza che iniziò dai discorsi politici, e andò oltre le metafore, fra i partiti ideologicamente opposti nell’Europa occidentale. Negli USA gli stessi discorsi di Dwight Eisenhower, presidente repubblicano e generale eroe dello sbarco in Normandia, andarono in quella direzione di un liberalismo sociale condiviso, in Gran Bretagna Winston Churchill (rieletto nel 1951) e i successivi premier conservatori (fino a Margaret Thatcher e poi al neolaburista Tony Blair) non misero in discussione il vasto piano welfaristico del ministro liberale William Beveridge[81], modello del Welfare europeo. Per non parlare del welfarismo cristianodemocratico e cristianosociale tedesco e scandinavo, dello Stato sociale del generale e presidente conservatore-repubblicano Charles De Gaulle in Francia, delle “convergenze parallele” e del “compromesso storico” e del sistema sanitario pubblico universale (1978) in Italia. In Australia un premier liberalconservatore come Malcolm Fraser fu il vero realizzatore dello Stato sociale multiculturale e delle istituzioni del multiculturalismo del Commonweatlh Australiano (con allora anche una grande politica ambientale e di larghissima accoglienza umanitaria), iniziato dal suo rivale e predecessore Gough Whithlam (laburista che ne era stato il teorico ed iniziatore).

Se da una parte i grandi partiti della sinistra si aprivano all’accettazione dell’economia di mercato e del sistema capitalistico, dall’altra parte i partiti conservatori e liberali si aprivano, più che in passato, a riforme sociali e assistenziali welfaristiche, nella consapevolezza che quella era la sfida con il blocco sovietico: dimostrare che i programmi sociali e il benessere socio-economico li realizzava il capitalismo liberale e non il socialismo reale.

Si può dire che, dalla fine della Guerra Fredda, con il superamento delle ideologie e della logica di coesistenza dei due blocchi, in particolare in Italia si è potuta osservare la scomparsa dei partiti ideologici storici, con una conseguente emorragia di ex comunisti, ex liberali, ex socialisti, ex democratici cristiani in diversi nuovi partiti post-ideologici (Forza Italia, Lega, Partito Democratico, per fare degli esempi, raccolgono ciascuno parti e personaggi di quei vecchi mondi ideologici), facendo emergere un nuovo tipo di convergenza e conflitto, su questioni tendenzialmente morali (in merito a famiglia, salute, ambiente, immigrazione, identità, memoria, etc) con una polarizzazione sempre più estrema, emersa anche nelle parole e nelle espressioni in uso nel discorso pubblico e quotidiano.

Assistiamo forse ad una sorta di clash of beliefs (scontro di credenze) una micro proiezione speculare interna al mondo occidentale dell’ampio clash of civilizations (scontro di civiltà) globale coniato, con la fine delle ideologie e degli scontri fra contrapposti blocchi ideologici, dal visionario politologo statunitense Samuel Huntington, nel 1996: non si scontrano più visioni ideologiche nel mondo ma modelli di civiltà.

A livello micro, di paesi, stati, nazioni, questo si è riprodotto e avverato, anche a livello locale, trasformando la politica da uno scontro ideologico a uno scontro non meno acceso fra credenze contrapposte, molto polarizzate, binarie e schematiche, le quali prima tendevano a riguardare solo la sfera privata e intima delle persone, o in certi casi potevano essere date per scontate, oppure tendevano a essere ritenute questioni storiche intoccabili o conquiste di diritti dei quali potevano godere tutti e che avrebbero migliorato la vita di tutti, oppure, in altri casi, più semplicemente: chi non era d’accordo o non voleva o non ne aveva bisogno poteva (e potrebbe continuare a) non avvalersene (ad esempio divorzio, aborto, etc), senza imporre né subire niente né togliere la possibilità a tutti gli altri[82].

Del resto, come ricorda il teorico della metafora politica, Lakoff, ogni smentita, ogni tentativo di ribattere non fa che continuare ad amplificare e rimbalzare l’effetto di una metafora, tanto più è slegata dalla realtà, potente e spregiudicata. Come incitava la Palin a fare ai suoi sostenitori del Tea Party ultra-repubblicano, in quest’ottica ritrattare o scusarsi non paga, se la si “spara grossa” bisogna poi semmai rincarare la dose. Gli avversari ribatteranno e gli ascoltatori continueranno a pensare all’immagine suscitata, per quanto eccessiva possa razionalmente apparire.

Certo è che a qualsiasi storico del Novecento questa sembra più una strategia da agitatori di qualche totalitarismo che da concorrenti elettorali di un regime liberaldemocratico, che anzi guida il mondo liberaldemocratico.

Ci sono per Lakoff e Neagu presupposti normativi che sono di solito ben nascosti dentro le mappe metaforiche e sono dati per scontati, in una comunicazione. Essi servono a trascinare il discorso verso conclusioni obbligate.

Una definizione per analogia, come premessa di un’argomentazione, porterà, ancor prima di arrivare alla fine, necessariamente a una certa conclusione e mai ad un’altra[83].

 

IV – Il linguaggio verbale: la posizione idealista e quella non idealista.

 

Secondo il Qohelet “ogni parola è sforzo” e sulla stessa linea sembra anche trovarsi Gesù Cristo: “sia il vostro parlare sì, sì, no, no, il più viene dal maligno” (Matteo 5). Secondo il filosofo Ludwig Wittgenstein la filosofia è un continuo frutto di malintesi e fraintendimenti linguistici e il filosofo dovrebbe tacere su tutto quello di cui non si può parlare con certezza (se non altro non emettere sentenze definitive).

Per il medico e filosofo portoghese Francisco Sanchez il linguaggio è qualcosa di così irrimediabilmente vago che non serve praticamente a sapere nulla. Ben lungi dalla tradizione che da Leibniz in poi pensò persino di poter usare le parole e le proposizioni alla stregua di elementi matematici universalizzabili, posizione che sembra anche in linea con un certo istinto o senso diffuso che ritiene la persona che non parla o che parla poco come priva di senso, di pensiero, di senno, di identità, mentre chi parla molto sente come di avere a disposizione uno strumento universale.

Tendenza diversa ma che a volte si combina al parlar molto è quella di un certo accademismo che non tollera varietà linguistica e utilizzo di sinonimi, fossilizzando la lingua colta in poche formule di eburneo tecnoeruditismo, che ben si accompagna a quanto pare a una generale desertificazione linguistica appena sotto la torre (condita di feticismo del titolo e titolocrazia, criteri mediocratici spacciati per merito). L’educazione linguistica, plurilinguistica e la riflessione sulla lingua e sulle sue possibilità è secondo Tullio De Mauro il sale della democrazia liberale.

Ci sembra che in una malattia degenerativa della mente la persona perda completamente sé stessa da quando non parla più, o parla senza senso come nell’afasia. Ma in realtà siamo più o meno pervasi per tutta la vita, o per lo meno in certi particolari momenti della nostra vita, dall’idea di essere incomunicabili o incompresi e incomprensibili. È diffuso oggi che le persone parlino più magari con un animale domestico che con altri uomini. Secondo quanto si evince dal lappone Sami Johan Turi, i popoli come il suo si intendono molto meglio con gli animali e soprattutto con gli elementi della natura: montagne, alberi, vento, che con altri gruppi umani. Il custodire lingue piccolissime e isolatissime sfidando spinte e tendenze contrarie ha per me filosoficamente quasi lo stesso valore (si pensi al tabarchino, sull’isola di San Pietro, o al gallo-italico in Sicilia o agli csango in Moldavia), è come conservare intatto uno strumento di comunicazione se non con gli elementi della natura, con gli spiriti di generazioni e generazioni fa.

Secondo il geografo anarchico Elisée Reclus alla base della pacificità straordinaria di popoli come gli Inuit, gli Aleuti o gli Aeta (nelle Filippine), sarebbe proprio anche il loro comunicare poco. Il capo Yanomami Davi Kopenawa lamenta proprio nella sua difesa dell’Amazzonia e dello stile di vita dei popoli amazzonici incontattati, fra l’altro, il senso come di invasione turbolentissima, ancorché invisibile, da parte delle tante parole e dei tanti discorsi degli invasori delle sue terre ancestrali, perlopiù prima avvolte nel silenzio di lunghi dialoghi interiori o trance con i propri spiriti.

Nelle religioni orientali il silenzio è sacro, per il Talmud “il silenzio è il recinto della saggezza” (tanto da arrivare al proverbio yiddish: “Se vuoi parlare taci”). Fra i proverbi della nostra stessa tradizione spicca: “Un bel tacer non fu mai detto”. Quando i bambini soffrono di “mutismo selettivo” di solito comunicano il loro malessere e disagio in una maniera alquanto più eloquente che se potessero esprimerlo a parole, sebbene spesso gli adulti anche più competenti non capiscano.

Il voto del silenzio è anche un voto sacro come fanno certi ordini religiosi e certi monaci come quelli di Cluny, per favorire il ricordo di Dio, la concentrazione sulla comunione fraterna, l’ispirazione dello Spirito Santo. Dio è muto (oltre che largamente innominabile e fondamentalmente inconoscibile), o ha una parola muta che parla nel silenzio dell’anima, come scrisse Miguel de Unamuno, come mute sono le parole dei sogni nel sonno, secondo la filosofa Maria Zambrano, mute sono le parole dei discorsi che ci fanno le opere d’arte, secondo il filosofo Maurice Merleau-Ponty.

Vari e fallimentari sono stati i tentativi di costruire una lingua artificiale universale, per quanto nobilissimi, come l’idea dell’esperanto, poggiante anche sull’idea di una religione spirituale laica universale (Lazzaro Zamenhof). Ma sembra possibile dire che non si parla mai la stessa lingua se nel parlato comune non è insolito sentire espressioni come: “per me è turco”, “non ci capiamo”, “non mi capisci”, “mi sono capito io solo”, etc, sebbene nessuno si sia rivolto in turco all’interlocutore o con qualsiasi altra lingua incomprensibile per l’interlocutore, ma con la stessa lingua.

La Torre di Babele di biblica memoria allora potrebbe essere qualcosa di più borgesiano, labirintico, psicologico, più che la divisione del mondo in lingue diverse da una fantomatica lingua adamitica universale precedente, potrebbe rappresentare lo stesso avvento del linguaggio verbale che ci distacca da una presunta unità ideale di pensiero originario senza bisogno di parole (o quantomeno di naturale penetrabilità reciproca attraverso il linguaggio non verbale[84] o di una serena condizione di impenetrabilità reciproca senza darsene pena). Il linguaggio verbale ci innalza sì, forse, come la torre, ma ci precipita anche nella condanna all’incomunicabilità, all’incomprensione reciproca, prima solo eventualmente latente o in potenza.

Lo stesso filosofo anti-idealista Johann Friedrich Herbart ipotizzava che proprio il linguaggio verbale (accadutoci) ci avesse reso incomprensibili gli uni agli altri e le lingue nascessero dall’esigenza di ordinare successivamente, grazie al pensiero pre-esistente che diventava logica, quel babelico caos di scomposti mugugni soggettivi. Secondo un suo altro contemporaneo, Johann Gottfried Herder, l’uomo aveva sviluppato un linguaggio così articolato e complesso in quanto totalmente sprovvisto di qualsiasi altro istinto forte. Il mondo sarebbe come una costellazione, una galassia di popoli e lingue (e ogni termine una costellazione a sua volta dice Saussure). L’uomo ha l’istinto a parlare e a non capirsi, anche nel tentativo di capire e capire sé stesso forse al più, meta già incommensurabile di per sé da sola.

Per gli ateniesi chi non parlava l’attico era un “idiota”, per ungheresi e slavi i tedeschi sono “nemet” o “nemec” che deriva dalla parola slava per “muto”, e si potrebbero fare tanti altri esempi su quanto l’incomprensibilità e l’incomunicabilità linguistiche equivalgano alla stupidità o al mutismo, nell’immaginario popolare. Nonostante l’uomo comunichi anche con il corpo, con gesti e mimica, volontariamente ed involontariamente, e poi verrebbe da dire, pensando a Guglielmo da Ockham: rosa stat pristina nomine, la cosa è e sta lì e dice e comunica quello che è da molto prima che le si dessero tanti nomi diversi, accompagnati da aggettivi, categorie e metafore innumerevoli, eppure in qualche modo il processo è irreversibile e forse è tutto quello che siamo, senza nomi e parole siamo, in quanto uomini, persi sebbene nessuna parola nemmeno ci possa far sentire in fondo meno persi, con il suo ordine del tutto provvisorio, spesso manco minimamente pensato ma solo più o meno faticosamente e meccanicamente acquisito e più o meno interiorizzato, a partire da un patrimonio tramandato.

Interessante a tal proposito pensare anche al filosofo Max Stirner fautore radicale della teoria di inviolabilità dell’individuo, non in nome della glorificazione di un egoismo sfrenato o del solipsismo, ma proprio in quanto a suo dire in nome di solidarietà, altruismo e esigenze sociali collettive di gruppo (in nome insomma di quell’ipocrita umano troppo umano), l’individuo, stirnerianamente l’autentica primordiale unica originaria realtà umana, sarebbe continuamente costretto, schiacciato, snaturato, depauperato, violato, defraudato di sé e della propria ricerca di sé, e il sé con la propria ricerca è la più grande ricchezza dell’individuo secondo Stirner, non la ricchezza materiale individuale che spesso anzi invece viene accumulata a spese proprio dell’individuo e di altri individui.

Eppure l’istinto umano è sociale, associativo, a cercar compagnia, e aristotelicamente, anche quando pensa di non volerla cercare, l’uomo si sente il più misero senza l’amicizia. E l’uomo impara a parlare dagli altri e più o meno continua a farlo per tutta la vita (e all’inizio completamente sprovvisto di quelle strutture concettuali e sintattiche che acquisirà dopo anni). Il parlar poco, il non rinunciare subito alla propria individualità per esporsi agli altri e oggettivarsi, viene pregiudizialmente considerato alla stregua appunto della asocialità o antisocialità, dell’insincerità, dell’antipatia o del covare cattive intenzioni.

Lo stesso Friedrich Heinrich Jacobi, riteneva inesprimibile ed inoggettivabile il mondo interiore, se non a costo di rinunciarvi nell’esteriorità.

Eppure se si parla di discorso pubblico non può che venire in mente Thomas More, il quale accettò di andare incontro alla condanna a morte, piuttosto che accettare il principio secondo il quale un sovrano o un parlamento possono stabilire per legge quale sia la verità morale, etica, filosofica, religiosa, spirituale soggettiva.

In qualche modo così nasce la modernità e ogni discorso pubblico ha sempre più la pretesa di istituire la verità morale e “religiosa” (in senso lato), da questo punto di vista Wolfgang Reinhard ha ragione nel considerare il Terzo Reich non tanto una degenerazione quanto un estremo sviluppo dello Stato Moderno nelle sue peculiarità caratteristiche, di artifici totalitarizzanti e standardizzanti, dove la parola-dogma (sempre più libera dal resto, oggetto e detonatore impersonale, nella sua infinita moltiplicazione e replicabilità mediatica) è lo strumento assoluto per creare un uomo monodimensionale che ritenga a priori il discorso divergente o critico “antiscientifico” (Adorno).

Del resto secondo lo psicologo Henry Tajfel le rivalità di gruppo, su cui si fonderebbero tante nostre convinzioni nazionaliste, scioviniste, razziste e campaniliste, non sarebbero che indotte e innescate da superficiali reazioni meccaniche, istintive e casuali, come sperimentalmente provato, e magari dagli stessi meccanismi epidermici si sarebbero diversificati progressivamente i vari gruppi umani, a partire da una unica umanità originaria. Insomma lo spirito e il senso se si vuol cercarli vanno cercati in ben altre cose che in questi meccanismi (sui quali come animali razionali pensanti dovremmo invece riflettere proprio per provare a disinnescarli) e possiamo solo immaginare quali potranno essere i cupi effetti dell’IA sul contesto umano fin qua abbozzato.

 

Ha scritto Georg Wilhelm Friedrich Hegel che l’antiumano (“meramente animale”) consiste nel chiudersi entro il sentimento[85]. Il problema secondo il filosofo è che il pensiero che non si esteriorizza e non si confronta rischia di rimanere “fede” o sensazione.

Per Jacobi la fede oltrepassa la filosofia grazie all’apprensione diretta del non concepibile, dell’immediato, nel finito e nell’infinito, mentre il sapere oggettivo è solo formale. Per Jacobi l’io nasce nella fede, grazie ad essa l’io comprende di avere un corpo e che fuori da noi esistono altri esseri sensibili e pensanti. Ciò sarebbe per Jacobi un fondamentale atto di fede primario. Il rischio di non abbandonarsi mai all’oggettivo tuttavia ci porterebbe ad una soggettività abbarbicata a sé stessa[86].

Secondo Jacobi al di sotto di ogni linguaggio si trova un silenzio primigenio, un’adesione immediata all’essere che viene alterata solo dal sapere. Il sapere si salva solo riflettendo su se stesso, criticandosi e scoprendo quindi il proprio nulla, l’io approda così al non-sapere che è la sola possibilità dell’uomo di conoscere[87].

Il discorso è socraticamente ed hegelianamente “scontro fra autocoscienze”[88], nel dialogo l’interlocutore viene condotto a scoprire le contraddizioni del proprio pensiero. Il soggetto si costituisce, secondo Jean Hyppolite, di determinazione in determinazione, dalla singolarità all’accordo universale, attraverso la disputa e la divergenza. L’obiettivo è la sintesi hegeliana, idealmente (molto idealmente) sottintesa a tutti i dibattiti.

È il linguaggio verbale che rende possibile trasformare le opinioni in qualcosa d’altro, parlare non è come guardare, per Hegel, quando guardiamo le cose ci resta la coscienza della nostra povertà, ma il linguaggio crea la verità. Per Hegel, l’esperienza umana non è al di fuori della logica, il puro vissuto, il ritorno alla natura, non significano propriamente nulla, la coscienza non può che essere senso, discorso[89].

Il discorso per essere valido deve essere all’interno di una comunicazione stabilita fra autocoscienze (un’autocoscienza universale) attraverso il riconoscimento reciproco, cui tutte le autocoscienze aspirano e nel quale convergono. Il riconoscimento reciproco fra autocoscienze è il legame del singolare all’universale, elemento fondamentale della dialettica[90]. Evidentemente oggi questo riconoscimento nel discorso pubblico è venuto pressoché completamente a mancare, oggi in politica si assiste non ad un dialogo bensì a vari monologhi conflittuali, piuttosto piatti e banali, ma anche estremi nei toni e pieni di pseudotecnicismi manageriali, fondati piuttosto sul reciproco non-riconoscimento e disconoscimento metodico dell’interlocutore/avversario.

Certo, per Hegel, l’anima bella che si chiude nel silenzio interiore per non infangare la propria purezza, immaginando di trovare in fondo a se stessa l’assoluto può solo dissolversi nel nulla. La coscienza dovrebbe invece sempre accettare di trasformare in essere il proprio pensiero. La pura vita interiore è una fuga illusoria secondo Hegel, solo nella determinazione dell’universalità sta l’esser-ci.

Sono infatti io a parlare, a dire cose, ma ciò che dico non è già più io, è già universale[91]. L’uomo è quindi secondo Hyppolite “crocevia” tra sapere e senso[92], tra cose del mondo e significato, è parola.

Linguaggio e pensiero si danno reciprocamente forma, il primo non è traduzione esteriore dell’altro e naturalmente non vi è posto per l’inesprimibile, in una concezione filosofica come quella idealista hegeliana in cui il reale è il razionale e nulla esula da questa logica. Il linguaggio può e deve esprimere razionalmente il reale, non vi è cosa che non possa essere espressa razionalmente.

Le arti ci danno il senso dell’ineffabile, ma l’ineffabile è sogno, non è l’assoluto (per Hegel), e non sarebbe possibile alcun sogno per colui che non si svegliasse mai. La stessa “anima profetica”, non è tale che per gli altri attraverso l’interpretazione effettiva, non sarebbe tale quindi, per Hegel, se non venisse espressa dagli altri attraverso il linguaggio.

Il pensiero ha bisogno di farsi cosa, ente sensibile, suono. La memoria è nel linguaggio che è identità dell’essere e del pensiero, Henri Bergson non fu d’accordo con questa identità fra memoria e linguaggio[93]. La memoria interiore, argomenta Hyppolite in accordo con Hegel, è l’esteriorità del racconto: colui che parla dice le cose e dice se stesso e attraverso le parole delle sue esperienze memorizzate conosce, si conosce, trova e si trova e riconosce e viene riconosciuto[94].

Punto cruciale nell’idealismo è quello per cui “il linguaggio non rinvia che a se stesso”[95], la realtà razionale è “regno dei nomi”, e sarebbe dunque il nome a dare verità, secondo Hegel ed Hyppolite, alle cose, significato e nome diventano una sola medesima cosa, pertanto la memoria ha e conosce la cosa nel nome e con la cosa il nome, senza più bisogno di intuizione o immagine, il nome non rinvia al sensibile, ma il sensibile al nome, l’uomo in quanto uomo non vive più tra cose ma tra nomi[96]. È l’approdo a una realtà virtuale (il linguaggio verbale è già simbolismo matematico artificiale ed esteriore all’approfondimento) in cui i nomi esistono slegati dalle cose e sono ormai le cose reali all’ombra dei nomi anziché viceversa, per Bergson.

L’oggetto rinasce in una nuova forma e dimensione. Colui che parla non si trova che nel e attraverso il linguaggio, non esiste altrove come singolarità vera o universale[97].

Il linguaggio per Hegel precede ed esprime il pensiero in definitiva, da questa contraddizione nasce la posizione della filosofia in bilico fra poesia e matematica, ma se la prima non permette alla filosofia di compiersi come scienza, confondendo reale ed immaginario (“nostalgia di un linguaggio immediato e autentico dell’essere”), la seconda la imprigionerebbe in un calcolo simbolico pericoloso (che Hegel condanna in Leibniz) che tradirebbe la vocazione della filosofia di cogliere il divenire del concetto, impedendo il trionfo bacchico[98].

Il pensiero può criticare il linguaggio e isolarsi da esso, secondo Hegel, per quanto rimanga una contraddizione, ma venendo a essere separati il pensiero perderebbe ogni senso. Insomma il pensiero senza linguaggio, per Hegel, non è, non può presupporsi e non può che accettare le apparenti ambiguità del linguaggio quando si esprime, visto che il contrario sarebbe assai peggio. Sarebbe forse l’Intelligenza Artificiale?

Il linguaggio non è fisso, non è esatto, ci sono confusioni e slittamenti frequenti, che generano problemi filosofici, ma per Hyppolite è il linguaggio che ci trascina nella vita, è l’esserci dell’io prima che l’io vi si trovi[99], l’io è nella concatenazione e relazione delle parole, ancorché imperfetta, e nessun sistema simbolico puro, se non a costo di alienarci, potrebbe risolvere la nostra confusione. Quando l’intelletto dunque pretenderebbe di spogliare un problema dal linguaggio di cui è rivestito, si accorge che non esistono problemi nudi[100]. Il linguaggio umano dunque è la sua confusione problematica. Senza i suoi problemi la parola sarebbe solo flatus vocis[101] e dunque forse non esisterebbero la filosofia, né il bisogno di parlarsi e dialogare, se non forse solo per imporsi e dare ordini.

 

Personalizzazione della politica e oggettificazione della persona, compagni di strada della virtualizzazione, della propaganda karaoke e del mondo-videogioco, procedono inesorabili e sembra oltremodo utile rivolgersi a un dimenticato saggio e pioniere dell’ermeneutica e della filosofia del linguaggio: Heymann Steinthal.

Steinthal nel suo secolo, il XIX, era profondamente colpito dal fatto che già i politici di allora, i politici prussiani ottocenteschi, si ripetessero frequentemente a vicenda questa frase: “voi non ci capite”.

Steinthal elaborò insieme a Moritz Lazarus l’idea di psicologia dei popoli, nella quale è fondamentale la lingua come prodotto della comunità, di cui fa parte l’intero patrimonio di rappresentazioni e concetti nel quale viviamo.

Secondo i due studiosi ottocenteschi ebrei prussiani, non vi sarebbe, come di fatto induce ad immaginare l’idealismo, una sorta di “soggetto sovra-individuale”, un individuo ingigantito (il Leviatano, lo Spirito, la Nazione), da cui promanano concetti e linguaggio, né i soli individui, bensì centrale sarebbe il rapporto singolo-totalità, che non è solo il singolo, né solo la totalità, né una supposta sintesi fra le due cose, ma proprio una ulteriore realtà: i rapporti, le relazioni fra singoli, fra singoli e tutto, sono la trama della psicologia dei popoli, del patrimonio di metafore e concetti linguistici nel loro contesto.

Gli individui secondo questa teoria si sentono appartenenti ad un popolo e costituiscono un popolo, non in quanto singoli appartenenti ad un super-individuo e somma di individui, ma in quanto con le loro relazioni si elevano al di sopra del loro originale isolamento, ciascuno soggettivamente si considera parte di quell’insieme, anche a prescindere dalla discendenza.

Si parla di Bildung, non legata qui alla formazione-costruzione individuale, ma legata alla costruzione continua della e delle realtà dell’umano, che appare quindi più come un processo dell’inclusione che non dell’esclusione della molteplicità.

In ciò Steinthal ravvisa il contenuto autentico della religione, anche nazionale: l’impulso morale a elevarsi al di sopra di ciò che è dato, non un’identificazione in pratiche cerimoniali e comportamentali ma un piano di umanità, espresso nel linguaggio.

Per approdare a questa disposizione d’animo condivisa occorre rifiutare il dualismo, il binarismo e approcciare un punto di vista che rifiutando la cieca contrapposizione si sforzi di trovare l’inaudito accordo che sta in ogni teoria. Non avevano ragione né gli scolastici, né gli empiristi radicali, né l’idealismo, ma c’è un po’ di vero in ciascuno. Bisogna guardare pensando, non si può solo osservare e non si può solo pensare a teorie, e un momento non deve neanche anticipare o seguire l’altro, il lavoro filosofico ermeneutico deve essere sincrono: guardare pensando e pensare guardando, intuizione pensante, esperienza pensante. È la base della sua teoria del metodo genetico: il procedere unitario di pensiero, natura e conoscenza, comprendere non è solo soggettivo, non è solo oggettivo e non è nemmeno una sintesi, è qualcosa di oltre e di altro, di nuovo.

Natura e Spirito non esistono come realtà in sé separate. Il filosofo-storico dunque si fa osservatore della natura vivente e filologo-psicologo alla ricerca della genesi di tutte le deviazioni linguistiche, alle radici del linguaggio verbale e della comunicazione umana. Prendendo una direzione ben diversa dal coevo positivismo, Steinthal propone un approccio storico per ritrovare le forme e le trame originarie del pensiero e del discorso. Occorre tornare all’atto originario, all’appercezione armonizzante (interdisciplinare) che ha dato vita all’opera, alla connessione psichica inter-individuale. L’ideale storico-filosofo-psicologo-filologo di Steinthal deve dare corso ad una ripetizione consapevole, ad una immedesimazione concettuale, conoscendo sia il contenuto, sia la conoscenza conseguita, nei diversi momenti. Ricostruire le tappe della costruzione. Tutto ciò con la coscienza del fatto che non esistono processi umani stabili, che i processi della specie umana non sono completamente diversi e avulsi da quelli delle altre specie animali e quindi le leggi che si possono evincere dalla vicenda umana sono leggi della storia di una specie animale fra le tante. L’uomo non può essere presupposto ma deve essere colto nella varietà delle sue espressioni psico-storiche, profondamente connesse ai suoi linguaggi, secondo modalità di interazione sempre diverse.

Ogni lingua è del popolo, non esprime rapporti stabili, assoluti, ideali, precostituiti, le lingue non rimandano ad alcuna idea se non a quelle prodotte da sé, sono il prodotto dell’azione esercitata dai concetti linguistici sul nostro mondo interiore e non viceversa, secondo Steinthal.

Pensare e parlare non coincidono secondo il filosofo, il pensare determina il complesso della vita psichica, di cui il parlare è un momento, ma si può pensare in silenzio e parlare meccanicamente senza pensare. Il linguaggio al massimo è come il teatro che rappresenta tutto quello che c’è nella realtà, ma non è la realtà, allo stesso modo il rapporto fra linguaggio e interiorità.

La vera torre di Babele è per Steinthal la forma interna delle lingue: le fantasie, le diverse intelligenze, i sentimenti soggettivi, che a loro volta operano sulla lingua, secondo Steinthal, in maniera peculiare e conforme alle diverse nature dei vari spiriti del popolo che hanno una funzione primaria nella costituzione della coscienza e del mondo concettuale. Fondamentale anche se sembra scontata componente del linguaggio è la comprensione, l’interlocutore manifesta con suoni, gesti e mimica di aver compreso l’altro (e così se stesso rispetto all’altro) e forse così si sono edificate le lingue per tentativi e fallimenti nel farsi comprendere (e così tutto sommato in fondo continua a succedere).

La poesia rappresenta invece una modalità autonoma dello spirito, non scissa come secondo l’idealismo dalla dimensione corporea, bensì proprio voce diretta delle percezioni sensibili, liberata da tutto il resto, per limitatezza della natura umana espressa in lingua ma si può sentire la poesia anche senza conoscere la lingua nella quale è espressa, come l’arte e la musica.

Per Steinthal il suono viene inizialmente nella preistoria imitato di riflesso, ma oltre ad un apparato fonetico biologico è necessaria la coscienza del suono, l’accordo fra suono e pensiero, la connessione spirituale fra movimento riflesso e stato d’animo che l’ha provocato, come effetto di uno stimolo esterno.

Nel momento in cui qualcuno decide che il tal suono corrisponde a quella emozione e può essere compreso da altri che condividono l’intuizione, si istituisce la parola e la coscienza, sapersi istintivo, prima nebuloso insieme di sentimenti e intuizioni, viene via via progressivamente organizzata e af-fermata in lingua, come sentimento di sé (paura, dolore, fame), istintivo, prima della mediazione del concetto e si istituisce il necessario nesso condiviso fra ricordo e suono, senza memoria non vi è lingua (e oggi non vi è solo la perdita di memoria storica, ma anche la perdita di memoria di quanto viene detto come precisa strategia politica), mentre l’appercezione da sola, che avviene in maniera inconscia e meccanica, istintiva, porterebbe a interpretare lo stesso contenuto percettivo in modo completamente diverso da ciascuno, a seconda di quello che ci si porta in animo.

È il nesso fra linguaggio verbale complesso e memoria ad impedire questo, nella lucidità, anche se ciò non impedisce che il processo avvenga lo stesso. Perciò in condizioni di rimozione di quel delicato nesso (pensare le parole, riflettere sulle parole e sulla propria memoria, per esprimere esperienze, idee ed emozioni), rimozione magari imposta da “necessità” comunicative sempre più frenetiche e slegate dai bisogni dei tempi umani della mente, può portare ad un flusso ininterrotto di espressioni iper-reattive sconnesse, senza scopo e puramente epidermiche, senza alcuna mediazione profonda.

Non bisogna infatti dimenticare che senza relazioni e riconoscimento reciproco, senza esercizio del pensiero, dell’attenzione e della memoria, la lingua rimane solo pura appropriazione soggettiva del mondo interiore e peggio, un mondo interiore senza più spazi e tempi per l’interiorizzazione sensata, diventa un insieme di continue esteriorizzazioni scomposte di componenti interiori indigeste, non digerite o mal digerite, per le quali non si hanno né tempo, né strumenti, né cura e dedizione.

La lingua è attività continua inarrestabile che si voglia o no, che ci si soffermi o no, di produzione di idee sempre nuove (che ci colgono di sorpresa), la lingua non è il pensiero ma lo spirito del tempo e dell’uomo storico, della politica e della società, per questo affinché non diventi un fiume in piena che tutto travolge deve essere oggetto di riflessione, non per una resistenza conservativa conservatrice, nostalgica e reazionaria a tutti i costi, impossibile comunque la si giudichi, ma perché la produzione di concetti (a cui è sempre fragilmente legata la nostra convivenza civile e desiderabile sopravvivenza psico-sostenibile) non sia un veleno emetico distruttivo e desertificante. Ma è un fatto di volontà soggettiva e collettiva e istituzionale, il rendersi conto che al di là delle fedi ideologiche e religiose, delle impostazioni personali e dei contesti socio-ambientali, il linguaggio verbale umano è creatore delle nostre società complesse umane, in quanto inedita e non scontata né banale connessione fra pensiero e parola (propria della nostra specie, foriera di disavventure e grandi creazioni, sorgere dello spirito nella natura) ed è e può solo essere un atto di volontà continuare a conservare, coltivare e custodire quella preziosissima connessione, che ha bisogno di cura, di dialogo (anche interreligioso e interculturale), di persuasione e non di retorica meccanica.

È l’intreccio molteplice che trasforma il semplice, il singolo, in qualcosa di diverso, inizialmente incomprensibile, trovando in ogni cosa che si vede capacità, forze e momenti concettuali diversi e altrimenti invisibili o diversamente percepibili se non dall’uomo con le sue peculiarità.

La storia così per Steinthal, personaggio attualizzabilissimo, è più che altro storia delle produzioni spirituali dei popoli, che sono individualità organiche interconnesse e connesse alla natura, come i singoli individui fra loro, così come sono organismi viventi e liberi le lingue. La lingua forma perché è appercezione di una persona attraverso l’appercezione di un’altra persona, secondo Steinthal, da qui, quando ciò viene a mancare, l’inesorabile risuonare ininterrotto e rimbalzante della frase “voi non ci capite” nelle dispute politiche[102].

Per capirsi oggi forse sarebbe banalmente fondamentale, intanto, iniziare dal non adeguarsi sommariamente e continuamente a mode e consensi in una spirale tossica al ribasso (sempre più rapida, con sempre più stacchi di inquadratura e sempre meno contenuti), ma trovare le parole per esprimere per lo meno una visione di futuro possibile (“le parole per esprimere un futuro”, Ortega y Gasset) sostenibile e desiderabile comune a tutti, prendendo atto del presente e del passato, alla quale possano portare cammini diversi ma coerenti e fedeli a quella volontà politica comune, con pochi obiettivi sistemici urgenti e difficilmente discutibili da punti di vista empirici e scientifici, più che ideologici, lasciando in pace tutte le questioni non prettamente politiche ma che hanno solo a che vedere con liberi orientamenti e credenze personali (ovvero le questioni liberalmente amministrabili secondo la legge ordinaria e i diritti civili eventualmente estendibili, normalmente quando si tratta di questioni filosoficamente legittime e che non possono ledere nessuno), che era il principio che animava la politica occidentale liberale degli anni ’70 del secolo scorso come detto sopra.

Liberare, come propone Michael Walzer il termine “liberale” variamente usato come sostantivo, distorto, e riproporlo nella sua forza leggera di potente ed evocativo aggettivo mitigante: oggi molti pretendono di essere liberali o accusano di essere liberali (con accezione erronea di “neoliberista” o “turbocapitalista”) gli avversari, ma nessuno è liberale, tutti sono un po’ o molto illiberali, e nessuno riflette sul profondo e impegnativo significato storico-filosofico ideale del termine, in Italia radicato nel Risorgimento (si pensi alla “Religione della Libertà” di Vittorio Alfieri), nessuno pensa al suo effetto soprattutto declinato appunto come aggettivo.

Se ci si pensasse allora apparirebbe piuttosto evidente che alcune delle stagioni storiche migliori della politica europea e occidentale, idealmente o fattivamente, degli ultimi due secoli, sono state rappresentate proprio da nazional-liberali, liberal-conservatori, cristiani o cattolici liberali, liberal-socialisti o socialisti liberali, liberal-democratici, mentre tutte queste tendenze politiche presenti in occidente mostrano il loro volto peggiore e deleterio quando si emancipano da quell’aggettivo proponendo forme di democrazia illiberali (oligarchie e oclocrazie), alcune forme più nazionalisteggianti ma altre anche socialisteggianti, o partiti a carattere religioso ipertradizionale dove l’intolleranza del diverso prende il sopravvento su qualsiasi altra considerazione, o paladini di una “libertà” che non libera intesa solo come sviluppo tecnologico e finanziario illimitato e ingovernato, o ancora l’intolleranza di qualsiasi libertà intellettuale, la sommaria invidia sociale, il giustizialismo acritico, l’insofferenza a qualsiasi spirito religioso e di conservazione di modi di vivere, lo scientismo esasperato e il pensiero acriticamente anti-scientifico, a tutto ciò alla fine si presenta talvolta una ricetta autoritaria o totalitaria, di destra o di sinistra che sia, come “unica soluzione” per riportare la cosiddetta pace sociale.

Liberale dall’altra parte non può neanche essere un aggettivo sinonimo di moderato, dal momento che libertà e moderazione non sono sinonimi come sostantivi e conducono a due campi concettuali ben diversi. Liberale che non è sinonimo di neoliberista, non può essere considerato sinonimo di moderato se non nella misura in cui liberale è certamente contraddistinto da un generale anti-fanatismo, che in sé però non basta per definirlo, siccome liberale anche come aggettivo, per la sua derivazione da libertà, è un impegno, niente affatto “moderato” (nel senso di moderatismo asettico come si intende oggi come antidoto annacquato ai veleni estremisti), per la libertà e le libertà proprie e altrui più diverse (unico limite ai propri ideali, alle proprie azioni, e dovere impegnativo nei confronti di tutti e di ciascuno, per paradossale che sia), eredità dell’Illuminismo nella sua accezione humeana voltairiana. Un patto di non aggressione fra forze politiche, più riformiste e più conservative, nella cornice liberale democratica dello stato sociale, di una democrazia non diretta-virtualizzata e nemmeno formale-figurativa (di slogan, di disconoscimento reciproco, “caccia alle streghe” e di mera somma di nudi risultati elettorali), questo dovrebbe signifcare moderato, in senso liberale, e non può che iniziarsi a partire da una riflessione sulle parole e sulla semantica.

Sarebbe in effetti talmente forte la diffidenza nei confronti di un linguaggio così complesso e così poco pensato da indurre veramente alla “via del silenzio” dei Nativi Americani.

Lo stesso Steinthal si inserisce nella tradizione nazional-liberale tedesca, di un romanticismo corretto da una certa dose di scetticismo illuminato e pragmatismo che, da Leo von Caprivi, a Gustav Stresemann, fino a Wilhelm Roepke, ha contribuito alla costruzione del percorso verso lo spirito europeo più moderno e dell’unità europea, percorso rocambolesco intervallato tragicamente dai bui arresti comportati dalle due guerre mondiali e dai totalitarismi.

Steinthal è mosso da una curiosità fanciullesca, nei confronti della cosiddetta “invenzione della lingua”, infatti l’orologio meccanico o la macchina a vapore costruiti per primi, suscitano curiosità, tutti i successivi sono “ombre dei primi”[103]. Ma ciò che veramente scuote l’uomo e suscita curiosità, per Steinthal, ciò che è davvero importante e interessante ricercare, immaginare fondatamente e provare a capire è la molla, l’istinto, sono le leggi naturali che hanno dato luogo all’effetto, nell’ideazione e realizzazione efficace degli oggetti, perché queste leggi ci parlano dell’eterno, è interessante capire da cosa è stata forgiata la lingua più che conoscere particolari della prima creazione e delle seguenti[104].

La lingua non è nient’altro che la sua nascita, attività eternamente autoproducentesi, divenire che non si irrigidisce, nasce nella mente dell’uomo sempre allo stesso modo, come un embrione in un determinato momento del suo sviluppo dà vita a questo o quell’organo, oggi come sempre, la differenza quindi fra creazione originaria e quella quotidianamente ripetuta, per Steinthal, non esiste. Indagare l’origine della lingua significa conoscere allora giorno per giorno lo stato dello spirito umano e comprendere ciò che consegue e mira a conseguire[105].

La lingua secondo Steinthal non è una macchina, mai analogia fu più errata per lui, la lingua è un organismo. E la differenza fra macchina artificiale e “macchina biologica”, per quanto si voglia minimizzare, è evidentemente abissale (per lo meno come concezione), e non è quindi solo importante cogliere il fatto che la lingua per Steinthal sia prima di tutto un fenomeno psicologico (psicopatologico?), un bisogno interno, ma anche la sua concezione molto biologica e non meccanicistica della psiche.

La propensione alla produzione verbale nella specie animale homo sarebbe spiegabile anche dal fatto che semplicemente alcuni suoi muscoli sono “costantemente in una disposizione a movimenti involontari in ragione della facilità con cui i loro nervi possono essere sollecitati o, meglio, in ragione dell’eccitabilità delle zone del cervello da cui si dipartono”, e in più gli stati d’animo con le loro trasformazioni anche molto veloci si scaricano su quei nervi e su quei muscoli, nell’uomo, questa è l’idea steinthaliana[106].

Il linguaggio è quindi in larga parte, secondo lo studioso, un fenomeno di riflessi, di stimoli condizionati in modo assolutamente meccanico.

Per esempio la rappresentazione del ridere è spesso imitazione di chi ride, ma anche riflesso del pensiero del non ridere. Basti pensare al gioco dei bambini che si guardano seri in viso e scoppiano a ridere, proprio per il pensiero e l’intenzione di non ridere[107]. La cultura anche nel linguaggio gioca il ruolo dell’elemento che raffrena l’eccessiva facilità di conversione degli stimoli in parole, tanto come degli stimoli in azioni[108].

La lingua sarebbe dunque un “atto liberatorio dell’animo”. Il Palomar di Italo Calvino si morde la lingua pensando non solo a quello che sta per dire o non dire, ma a tutto ciò che sarà detto dagli altri con il suo dire o non dire, solo dopo essersi morso la lingua tre volte pensa di poter parlare se davvero quello che voleva dire continua a sembrargli qualcosa che non può non dire. Infatti rimane quasi sempre zitto.

Il parlare libera la nostra anima da una compressione, dalla pressione delle sensazioni, ma più cresce il dominio di sé più si impara a tacere, a far fronte alle impressioni ed agli urti che ci giungono dall’esterno anche senza uso del linguaggio verbale.

Pertanto, possiamo finalmente dire, in senso assolutamente proprio, che l’uomo parla come le fronde stormiscono. L’aria che porta suoni e rumori, l’etere e i raggi del sole, il soffio dello spirito, varcano il corpo umano ed esso risuona[109].

Ma per Steinthal l’animale è così potentemente catturato dal mondo esterno che ha contro l’esterno così poca protezione naturale e artificiale. L’anima umana invece è signora del corpo umano e gli serve da protezione (l’uomo sarebbe altrimenti il più fragile degli animali)[110].

Nell’uomo il rapporto corpo-anima è ribaltato a favore di quest’ultima, l’uomo non intuisce solamente ma gioisce della sua intuizione (ne è consapevole e la può proiettare al di là della presenza della cosa stessa), la forza dell’anima si oppone anche alle intuizioni, al di là del processo corporeo che è l’unico processo necessario in senso stretto. Secondo Steinthal il risveglio dell’autocoscienza avviene prima di quello della coscienza[111]. È un istinto, sicché le “idee innate” non sono per Steinthal innate, se non nella misura in cui innate sono le abilità di concepirle e svilupparle, in qualsiasi individuo. Pertanto se nella natura umana si trovano, come sottolineerebbe qualcuno, tutti i bisogni materiali e gli istinti di sopravvivenza, vi si trovano anche altrettanto naturalmente le forme di altri bisogni radicali (citando Agnes Heller) per concepire i miti, le fedi, il senso religioso, etc (l’uomo inventore di dei bergsoniano, secondo la sua natura).

La coscienza umana dunque percepisce intuizione e suono riflesso e li associa e sicuramente per Steinthal l’uomo ha iniziato a parlare dalle onomatopee, che diventano poi le radici delle parole costruite da quei suoni originari[112]. Le prime comunicazioni non avvennero per mezzo della lingua, perché i segni arbitrari che forgiano una lingua devono essere concordati. O non avvennero intenzionalmente o non accaddero per mezzo di segni arbitrari. Ci si comprese o si fu convinti di comprendersi, del resto risuonavano gli stessi bisogni.

La parola ci ricorda l’esistenza dell’altro proprio perché sicuramente i primi parlanti si saranno resi conto che talvolta l’agire atteso dell’altro, a seguito di un proprio suono, non si verificava e allora si pose maggiore attenzione al suono e al pensiero, allora ebbe inizio l’intenzionalità del parlare[113]. Steinthal è profondamente ispirato da Humboldt e Herbart.

A un certo punto, per una regola della simpatia, siccome comunicazione e comprensione erano lì prima della comunicazione verbale, quando ci si limitava ad essere e a vivere, ciò che uno pensava pensava anche l’altro e lo esprimeva come il primo: danza di San Vito, tarantella, esaltazione delle baccanti, dei rivoluzionari, la sete di sangue dei terroristi, il coraggio delle truppe d’assalto, il tifo da stadio e molte altre cose, ci mostrano quanto l’uomo sia sospinto anche senza intenzione, e talvolta contro la propria intenzione, a fare quello che vede fare, riprodurre, imitare[114].

L’intera comprensione insomma poggia per Steinthal sulla simpatia, l’associazione casuale di una rappresentazione con un’altra può tutt’assieme interrompere inconsciamente la simpatia e non farci comprendere reciprocamente[115]. Il fatto è che i giudizi si danno su rappresentazioni di rappresentazioni dal momento che nessuna rappresentazione si riferisce direttamente ad un oggetto ma a qualche rappresentazione di esso: la parola, il concetto. L’uomo per Steinthal, come affermerà anche Vygotskij, impara a parlare e a pensare in società.

La lingua è un “male necessario” attaccato come un peso ai nostri pensieri[116].

Risultati di ricerche pluriennali necessitano per essere esposti di molte parole. La relazione che dispone però in una lunga serie tutte queste parole non è il “sapere”, il quale mentalmente consiste in un’unica visione che contiene l’intera catena dei pensieri gradualmente costituiti. È un ascolto totale, di tutto contemporaneamente, afferma infine Steinthal, pensando a Mozart[117].

Il parlare è per Steinthal un lavoro di falegnameria, come dirà anche Umberto Eco.

La lingua precede l’intera logica e costituisce integralmente le sue forme prima che la logica costituisca le proprie. La lingua insomma, ci ricorda Steinthal, non accade e non accadrà mai in modo tale da realizzare un accordo preliminare con la logica. La lingua tratta i concetti come le intuizioni, i concetti diventano oggetti reali. L’autocoscienza e la lingua che la esprime hanno una logica tutta loro che appartiene ai diversi spiriti dei popoli e dei tempi, in modi diversi. Diverse logiche risiedono nelle diverse lingue e ciò è imprescindibile per Steinthal.

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[1] A. Pierre, Un altro mondo è possibile, Edizioni Terra Santa, Trebaseleghe, 2020 (p. 80).

[2] A. Pierre, Un altro mondo è possibile, Edizioni Terra Santa, Trebaseleghe, 2020 (p. 56).

[3] Vale a dire che nella realtà umana fenomenica tutto è linguaggio e tutto è politico.

[4] N. Chomsky, Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente, Il Saggiatore, Milano, 2005 (p. 52).

[5] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. X).

[6] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 3).

[7] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 4).

[8] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 4).

[9] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 5).

[10] M. Moffett, Lo sciame umano. Una storia naturale delle società, Einaudi, Torino, 2022.

[11] Evidentemente queste sono considerazioni politiche ultrapolitiche, che guardano alla politica ma non originano dalla politica. Né tanto meno la politica ha origine da considerazioni di quel tipo, anzi la politica intesa come “formicaio” o puro meccanismo, o in termini di “racket di saccheggio istituzionalizzato” (come direbbero Bourdieu, Sahlins, Graeber), esiste e funziona alla perfezione senza queste considerazioni umane che anzi potrebbero esserle giusto di “intralcio”.

[12] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 6).

[13] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 6).

[14] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 7).

[15] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 7).

[16] A. Cesaro, L’utile idiota, Mimesis, Milano, 2020 (p. 114).

[17] A. Cesaro, L’utile idiota, Mimesis, Milano, 2020 (p. 111).

[18] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 7).

[19] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 8).

[20] R. Barthes, Elementi di semiologia, Einaudi, Torino, 2002 (p. 7).

[21] R. Barthes, Elementi di semiologia, Einaudi, Torino, 2002 (p. 17).

[22] R. Barthes, Elementi di semiologia, Einaudi, Torino, 2002 (pp. 22-23).

[23] R. Barthes, Elementi di semiologia, Einaudi, Torino, 2002 (pp. 33-37).

[24] R. Barthes, Elementi di semiologia, Einaudi, Torino, 2002 (pp. 102-103).

[25] R. Barthes, Elementi di semiologia, Einaudi, Torino, 2002 (pp. 111-112).

[26] M. Foucault, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino, 2004 (pp. 4-11).

[27] M. Foucault, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino, 2004 (p. 13).

[28] M. Foucault, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino, 2004 (p. 14).

[29] M. Foucault, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino, 2004 (p. 15).

[30] M. Foucault, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino, 2004 (p. 24).

[31] M. Foucault, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino, 2004 (p. 25).

[32] N. Chomsky, Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente, Il Saggiatore, Milano, 2005 (p. 71).

[33] N. Chomsky, Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente, Il Saggiatore, Milano, 2005 (p. 90).

[34] S. Pinker, L’istinto del linguaggio, Mondadori, Milano, 1998 (p. 10).

[35] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 9).

[36] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 10).

[37] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 17).

[38] S. Pinker, L’istinto del linguaggio, Mondadori, Milano, 1998 (p. 18).

[39] C. Finlayson, Neanderthals and Modern Humans: an ecological and evolutionary perspective, Cambridge University Press, Cambridge, 2009.

[40] M. Alinei, Origini delle lingue d’Europa, Il Mulino, Bologna, 2000 (pp. 370-380).

[41] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 17).

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[44] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 19).

[45] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 19).

[46] S. Pinker, L’istinto del linguaggio, Mondadori, Milano, 1998 (pp. 49-50).

[47] S. Pinker, L’istinto del linguaggio, Mondadori, Milano, 1998 (p. 59).

[48] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 27).

[49] S. Pinker, L’istinto del linguaggio, Mondadori, Milano, 1998 (p. 115).

[50] S. Pinker, L’istinto del linguaggio, Mondadori, Milano, 1998 (p. 141).

[51] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 28, p. 43).

[52] P. Chilton, Analysing political discourse. Theory and practice, Routledge, London, 2004 (p. 30).

[53] L. Cedroni, Politolinguistca. L’analisi del discorso politico, Carocci, Roma, 2014 (pp. 76-77).

[54] M.-I. Neagu, Decoding Political discourse. Conceptual metaphors and argumentation, Palgrave McMillan, Houndmills, Basingstoke, 2013 (p. 14).

[55] M.-I. Neagu, Decoding Political discourse. Conceptual metaphors and argumentation, Palgrave McMillan, Houndmills, Basingstoke, 2013 (p. 15)

[56] P. Ricoeur, La metafora viva, Jaca Book, Milano, 1981 (pp. 324-326).

[57] P. Ricoeur, La metafora viva, Jaca Book, Milano, 1981 (p. 327).

[58] G. Lakoff, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 2004 (p. 21).

[59] K. Jaspers, Il linguaggio. Sul tragico, Guida, Napoli, 1990 (p. 92).

[60] K. Jaspers, Il linguaggio. Sul tragico, Guida, Napoli, 1990 (pp. 94-95).

[61] L. Formigari, L’esperienza e il segno, Editori Riuniti, Roma, 1990 (pp. 14-15).

[62] L. Formigari, L’esperienza e il segno, Editori Riuniti, Roma, 1990 (p. 17).

[63] L. Formigari, L’esperienza e il segno, Editori Riuniti, Roma, 1990 (p. 45).

[64] L. Formigari, L’esperienza e il segno, Editori Riuniti, Roma, 1990 (pp. 46-47).

[65] G. Lakoff, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 2004 (pp. 22-23).

[66] G. Lakoff, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 2004 (pp. 23-24).

[67] N. Caramelli, in Metafora e conoscenza, cur. A. M. Lorusso, Bompiani, Milano, 2005 (p. 291).

[68] G. Lakoff, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 2004 (p. 26).

[69] G. Lakoff, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 2004 (p. 27).

[70] G. Lakoff, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 2004 (pp. 30-31).

[71] G. Lakoff, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 2004 (p. 53).

[72] G. Lakoff, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 2004 (p. 78).

[73] G. Lakoff, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 2004 (p. 147).

[74] G. Lakoff, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 2004 (p. 170).

[75] https://www.rollingstone.it/politica/tutte-le-metafore-di-pierluigi-bersani/586488/ (18/10/2022).

[76] G. Lakoff, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 2004 (p. 227).

[77] G. Lakoff, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 2004 (p. 202).

[78] M.-I. Neagu, Decoding Political discourse. Conceptual metaphors and argumentation, Palgrave McMillan, Houndmills, Basingstoke, 2013 (p. 15).

[79] M.-I. Neagu, Decoding Political discourse. Conceptual metaphors and argumentation, Palgrave McMillan, Houndmills, Basingstoke, 2013 (p. 16).

[80] M.-I. Neagu, Decoding Political discourse. Conceptual metaphors and argumentation, Palgrave McMillan, Houndmills, Basingstoke, 2013 (p. 17)

[81] Autore del Manifesto di Oxford, dell’Internazionale Liberale, 1947, con il contributo di personaggi del calibro di Luigi Einaudi, Salvador de Madariaga, etc.

[82] La leader radicale Emma Bonino ha riconosciuto ed evocato più volte il fatto che se divorzio e aborto, in Italia, fossero stati votati ai referenda del 1974 e del 1981 solo dai radicali (un’esigua percentuale di elettori) o solo dai “progressisti” evidentemente non sarebbero mai passati e non esisterebbero come leggi e diritti universali.

[83] M.-I. Neagu, Decoding Political discourse. Conceptual metaphors and argumentation, Palgrave McMillan, Houndmills, Basingstoke, 2013 (p. 18)

[84] Si pensi alla produzione di musica rudimentale attraverso l’uso di legnetti (le percussioni sono state i primi strumenti musicali preistorici), da parte di certi pappagalli, in natura. La musica resta nell’uomo (anche e forse soprattutto in assenza di parole) un potentissimo mezzo di comunicazione non verbale. Si ricordi l’enigmatica frase di Thomas Mann nel suo capolavoro letterario La Montagna Incantata, “la musica è politicamente sospetta”.

[85] J. Hyppolite, Logica ed esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel, Bompiani, Milano, 2017 (p. 91).

[86] J. Hyppolite, Logica ed esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel, Bompiani, Milano, 2017 (p. 95).

[87] J. Hyppolite, Logica ed esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel, Bompiani, Milano, 2017 (p. 97).

[88] J. Hyppolite, Logica ed esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel, Bompiani, Milano, 2017 (p. 99).

[89] J. Hyppolite, Logica ed esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel, Bompiani, Milano, 2017 (p. 121).

[90] J. Hyppolite, Logica ed esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel, Bompiani, Milano, 2017 (p. 123).

[91] J. Hyppolite, Logica ed esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel, Bompiani, Milano, 2017 (p. 127).

[92] J. Hyppolite, Logica ed esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel, Bompiani, Milano, 2017 (p. 131).

[93] Bergson vorrebbe in Materia e memoria cogliere il reale come intuizione, immagine, al di fuori del discorso e del significato conferitogli, applicare una epoché radicale. Per Bergson infatti il linguaggio verbale è già l’inizio del simbolismo matematico, altrettanto artificiale, altrettanto esteriore all’approfondirsi del pensiero. L’essenza della scienza per Bergson sta proprio nel manipolare segni da sostituire alle cose, registrare in una forma chiusa, profanare, assaltare, fissare (J. Hyppolite, Logica ed esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel, Bompiani, Milano, 2017 (p. 211)).

[94] J. Hyppolite, Logica ed esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel, Bompiani, Milano, 2017 (p. 155).

[95] J. Hyppolite, Logica ed esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel, Bompiani, Milano, 2017 (p. 161).

[96] J. Hyppolite, Logica ed esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel, Bompiani, Milano, 2017 (p. 163).

[97] J. Hyppolite, Logica ed esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel, Bompiani, Milano, 2017 (p. 167).

[98] J. Hyppolite, Logica ed esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel, Bompiani, Milano, 2017 (p. 193).

[99] J. Hyppolite, Logica ed esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel, Bompiani, Milano, 2017 (p. 203).

[100] J. Hyppolite, Logica ed esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel, Bompiani, Milano, 2017 (p. 205).

[101] J. Hyppolite, Logica ed esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel, Bompiani, Milano, 2017 (p. 207).

[102] D. Bondì, Monografia introduttiva, in H. Steinthal, Ermeneutica e psicologia del linguaggio, Bompiani, Milano, 2013 (pp. 15-99).

[103] H. Steinthal, Ermeneutica e psicologia del linguaggio, Bompiani, Milano, 2013 (p. 265).

[104] H. Steinthal, Ermeneutica e psicologia del linguaggio, Bompiani, Milano, 2013 (p. 267).

[105] H. Steinthal, Ermeneutica e psicologia del linguaggio, Bompiani, Milano, 2013 (p. 275).

[106] H. Steinthal, Ermeneutica e psicologia del linguaggio, Bompiani, Milano, 2013 (p. 285).

[107] H. Steinthal, Ermeneutica e psicologia del linguaggio, Bompiani, Milano, 2013 (p. 295).

[108] H. Steinthal, Ermeneutica e psicologia del linguaggio, Bompiani, Milano, 2013 (p. 303).

[109] H. Steinthal, Ermeneutica e psicologia del linguaggio, Bompiani, Milano, 2013 (p. 317).

[110] H. Steinthal, Ermeneutica e psicologia del linguaggio, Bompiani, Milano, 2013 (p. 319).

[111] H. Steinthal, Ermeneutica e psicologia del linguaggio, Bompiani, Milano, 2013 (p. 323).

[112] H. Steinthal, Ermeneutica e psicologia del linguaggio, Bompiani, Milano, 2013 (p. 355).

[113] H. Steinthal, Ermeneutica e psicologia del linguaggio, Bompiani, Milano, 2013 (p. 361).

[114] H. Steinthal, Ermeneutica e psicologia del linguaggio, Bompiani, Milano, 2013 (p. 363).

[115] H. Steinthal, Ermeneutica e psicologia del linguaggio, Bompiani, Milano, 2013 (p. 365).

[116] H. Steinthal, Ermeneutica e psicologia del linguaggio, Bompiani, Milano, 2013 (p. 395).

[117] H. Steinthal, Ermeneutica e psicologia del linguaggio, Bompiani, Milano, 2013 (p. 403).

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