Fonte: La stampa
Quei palestinesi contro Hamas nel nome dei bimbi uccisi dalla guerra
La speranza nasce da proteste gemelle a Gaza e nello Stato ebraico, ma non sono sufficienti
Abbiamo visto con emozione nei giorni scorsi le foto degli israeliani che sfilano, nella manifestazione organizzata dal gruppo israelo-palestinese “Standing together”, mostrando le fotografie dei bambini palestinesi uccisi a Gaza. Ma è con un’emozione ancora maggiore che vediamo l’immagine dei palestinesi di Gaza che portano in mano le foto dei bambini ebrei assassinati il 7 ottobre, fra cui quelle dei piccoli Bibas, divenuti in Israele il simbolo stesso di quella carneficina.
Le due immagini si riflettono come in uno specchio: palestinesi che mostrano il volto di bambini ebrei, ebrei che mostrano quello dei bambini palestinesi. I volti appartengono a dei cuccioli di esseri umani. Se un filo di speranza in quella terribile situazione può venire, viene proprio, e forse solo, da eventi come questi. O come quello che alcune settimane fa ha visto manifestanti ebrei e palestinesi insieme arrivare a piedi alle porte di Gaza, che non si sono aperte per loro, per portarvi simbolicamente il pane.
Abbiamo molto pensato in questi mesi all’odio che ha pervaso, da una parte e dall’altra, israeliani e palestinesi, al fiume di sangue che, il 7 ottobre e poi a Gaza, sembra impedire fra i due contendenti ogni pietà, ogni pacificazione. Quanto ci vorrà prima che l’odio si attenui almeno un poco, tanto da consentire una parvenza almeno di convivenza, ci siamo spesso domandati. Eppure, fatti come questi sembrano incitarci alla speranza.
La manifestazione dei palestinesi di Gaza con le foto dei bambini ebrei assassinati non è stata improvvisata né casuale. È stata organizzata dalla Gaza Youth Committee, una Ong pacifista di Gaza fondata nel 2010 che conta ora 500 membri, coloro appunto che sono sfilati con le foto in mano. Fra i suoi fondatori, Rami Aman, un palestinese di Gaza arrestato da Hamas nel 2020, imprigionato e torturato, poi rilasciato e attualmente rifugiato in Egitto.
È lui che ha spiegato al giornale israeliano Haaretz il senso di quest’iniziativa: «Viviamo e moriamo insieme», ha detto. Durissimo contro Hamas, e contro la guerra che ha scatenato il 7 ottobre, Aman è durissimo anche con Netanyahu e il suo governo. Di fronte alle posizioni prese dalla sua Ong, non c’è possibilità, come è stato fatto dopo le prime manifestazioni di gazawi contro Hamas, di leggerle in chiave filoisraeliana.
In Israele, Netanyahu ha cercato sì di proibire che nelle manifestazioni si mostrassero le foto dei bambini palestinesi, ma non c’è stata una vera e propria risposta repressiva. Se queste iniziative si allargheranno, forse a Gaza Hamas si troverà nell’impossibilità di arginarle, e Netanyahu da parte sua dovrà assistere ad una diversa percezione dei palestinesi da parte della società civile.
La disperazione per la guerra, per le violenze a cui i soldati sono costretti, ha portato intanto ad un aumento del numero dei suicidi fra di loro. Su questo regna in Israele il silenzio, perché parlarne danneggerebbe l’immagine diffusa dei soldati eroicamente disposti a morire per la patria. L’esercito sempre secondo Haaretz si rifiuta di dare il numero dei suicidi, e lo fa evitando il pubblico annuncio e rifiutando alle famiglie dei soldati il funerale militare.
Le straordinarie iniziative dal basso di cui abbiamo parlato possono in qualche modo diminuire l’angoscia della società israeliana, creare un’opposizione solida e fattiva? Possono essere davvero l’inizio, sia a Gaza che in Israele, di un movimento che aiuti a riconoscere nell’altro il volto del proprio simile? O invece la striscia martoriata di Gaza assisterà, oltre all’eccidio messo in atto dall’esercito israeliano, anche a repressioni sanguinose dei dissidenti, e in Israele, questo riconoscimento ancora parziale del dolore dei palestinesi potrà essere soffocato da ulteriori violenze da parte dell’altro, da nuove giustificazioni della propria violenza?


