Elena Basile: Il capitalismo feroce ha demolito la democrazia

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Elena Basile
Fonte: Il Fatto Quotidiano

Elena Basile: Il capitalismo feroce ha demolito la democrazia

Le Costituzioni democratiche del dopoguerra erano basate su un postulato che appare ormai contraddetto dall’evoluzione sociopolitica dell’Europa. Il potere del demos, del popolo, in base alla rule of law, al suffragio universale, alle elezioni, alla tutela delle minoranze significava che il popolo eleggeva i propri rappresentanti i quali, operando sintesi tra tendenze, poteri e rappresentanze diverse, avrebbero realizzato politiche economiche, sociali e una politica estera basata sui principi costituzionali e sugli interessi del Paese, della società civile rappresentata nei plurali apparati privati e pubblici e nei corpi intermedi in grado di dare un contributo alla conduzione della res publica.

Il meccanismo democratico si è purtroppo inceppato in quanto politica economica ed estera non sono più una scelta delle élite elette in Europa, ma dipendono da poteri extraparlamentari in grado di condizionare interamente la classe dirigente europea. È necessario guardare a questa realtà senza reticenze se vogliamo poter incidere su di essa.

Naturalmente i riti della democrazia, anche in base alla manipolazione propagandistica dei popoli, sono restati intatti. Le elezioni si tengono a scadenze fisse, e schieramenti apparentemente antitetici si presentano allo scrutinio degli elettori. È preservata pertanto l’illusione che i cittadini liberamente eleggano le élite a cui delegano la gestione della cosa pubblica: innanzitutto politica economica e sociale, politica estera. Eppure tutto è cambiato. La propaganda da sempre esistita, dopo la fine dell’Urss, è divenuta monopolio di un apparato mediatico occidentale che nella fase finanziaria del capitalismo coincide nella proprietà, nell’osmosi degli incarichi, con la società dell’1% e della sua classe di servizio: burocrazia, accademia, settore manageriale. Come è noto, il pensiero unico impera. La critica agli Usa, a Israele, al capitalismo finanziario, all’Europa costituisce una linea rossa che non può essere oltrepassata. Il contrasto alla narrativa Nato viene bollato come antiamericanismo che pone al di fuori dell’arco costituzionale e civile lo sfortunato libero pensatore che ha tanto osato. La critica a Israele diviene antisemitismo o addirittura sostegno al terrorismo, perseguibili entrambi dal sistema giudiziario. La valutazione negativa del capitalismo finanziario porta immediatamente l’autore sconsiderato a essere etichettato come populista, un ordinario squinternato non in grado di accettare la realtà. Il capitalismo non è più una forma di organizzazione economica relazionata a un determinato periodo storico e pertanto riformabile oppure sostituibile in base a parametri diversi dell’economia politica, ma acquista insieme alla difesa di Israele e del dominio statunitense un carattere ontologico, diviene in altre parole una realtà di cui si può soltanto tener conto, imprescindibile per il discorso politico.

Non pochi fattori storici hanno portato a questi risultati. La libera circolazione dei capitali ha condotto alla fine della dialettica capitale-lavoro tipica degli anni keynesiani dei Cinquanta, Sessanta e Settanta. I ceti capitalistici hanno acquisito un potere tale negli anni Ottanta da essere detassati. Lo Stato non potendo attingere a una fiscalità equa e dovendo rimpinguare le casse, grazie al sacrificio della classe lavoratrice, piccoli imprenditori e agricoltori inclusi, al fine di mantenere l’ordine sociale, ha dovuto indebitarsi.

Un circuito perverso è stato messo in piedi e ha creato la trappola del debito. I governi europei si indebitano sui mercati finanziari con i ceti capitalistici al fine di mantenere gli standard sociali accettabili. La remunerazione dei ceti capitalistici prestatori di ricchezza è pagata dal popolo. Le disuguaglianze sociali crescono in modo esponenziale. Col Trattato di Maastricht del 1992 questo sistema neoliberista viene codificato. La burocrazia europea diviene la cinghia di trasmissione tra la lobby del business e gli Stati nazionali. Il coordinamento delle politiche economiche degli Stati attraverso i poteri speciali della Troika, soprattutto della Commissione europea, rendono la sovranità statuale irrilevante nella programmazione delle politiche economiche e sociali, determinate ormai dal vincolo esterno. Del resto, anche fuori dall’Europa, dato lo sviluppo a partire dalla crisi del 2008 di potentati economici come BlackRock, la politica economica è decisa dalle lobby degli affari di cui quella delle armi e la lobby di Israele sono parti integranti. È possibile un’autonomia della politica nelle società occidentali rispetto a queste influenze esterne che finanziano e hackerano leader eletti ma impossibilitati a perseguire gli interessi del Paese? Questa domanda appare cruciale per comprendere come organizzare nelle oligarchie plutocratiche una forma di resistenza civile.

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