Fonte: Il Fatto Quotidiano
La Kippah non c’entra, gli ebrei però si distinguano da Israele
di Tomaso Montanari – Comunque siano andati i fatti all’autogrill di Lainate, sarebbe gravissimo, intollerabile, se a qualcuno che è visibilmente ebreo (perché indossa la kippah) ci si rivolgesse gridando: “Palestina libera!”, o peggio. Perché qui agirebbe il presupposto razzistico (mostruoso, e foriero dei più grandi mali del nostro tempo) per cui si sarebbe responsabili, o nemici, o bersagli a causa di ciò che si è per via di sangue. Chi, come me, si batte per il popolo palestinese deve guardare con orrore atti come questo, e li deve pubblicamente condannare: senza alcuna reticenza. Con eguale forza, va rigettata anche la strumentalizzazione che addossa questa deriva antisemita a chi, appunto, difende i palestinesi. Per mesi, e tuttora accade, chi ha parlato di “genocidio” si è sentito dare dell’antisemita, con un’argomentazione che, fraudolentemente, confonde ebraismo e Israele. D’altra parte, questa totale sovrapposizione è continuamente proposta: solo pochi giorni fa, la presidente delle comunità israelitiche italiane ha attaccato frontalmente Macron per il riconoscimento dello Stato palestinese, e la comunità fiorentina difende a spada tratta la permanenza di Marco Carrai (non ebreo, ma console onorario di Israele) alla guida della Fondazione dell’Ospedale pediatrico Meyer. Da mesi, nel discorso pubblico, Israele e l’ebraismo sono stati resi indistinguibili e non c’è più traccia di quella tensione di cui parlava, per esempio, Primo Levi in una mirabile intervista data a Gad Lerner nel 1984: “Bisogna quindi che il baricentro dell’ebraismo si rovesci, torni fuori d’Israele, torni fra noi ebrei della Diaspora che abbiamo il compito di ricordare ai nostri amici israeliani il filone ebraico della tolleranza”. Quel baricentro è oggi tutto spostato a Tel Aviv: fino a far scattare l’equivalenza (falsa) ebreo = israeliano. Ovviamente, questo non giustifica in alcun modo l’oscena presunzione di correità degli ebrei nel genocidio dei palestinesi: ma indica quale benzina bisognerebbe smettere di gettare sul fuoco.
L’altra cosa che bisogna fare è riconoscere sempre il movente nazionale, etnico, razziale o religioso, quando c’è: come c’è oggi nell’Israele che stermina i palestinesi di Gaza, compiendo appunto un genocidio. Chi si rifiuta di usare la parola ‘genocidio’ (come per esempio Michele Serra, che preferisce parlare di ‘ecatombe’, in un editoriale in cui Israele non è neanche nominato) non dice la cosa essenziale, ormai certificata dalla scienza giuridica mondiale e da un numero impressionante di studiosi dell’Olocausto e, appunto, del genocidio: e cioè che i palestinesi di Gaza vengono massacrati in quanto palestinesi, esattamente come gli ebrei vengono aggrediti in quanto ebrei. L’eliminazione dei bambini, la distruzione del patrimonio culturale, l’annullamento del nesso con la terra, e i mostruosi episodi in cui lo sterminio viene spettacolarizzato e goduto dai coloni: tutto combacia con le dichiarazioni esplicite, e ripetute, dei ministri israeliani, con quel ‘o noi, o loro’ detto ormai in chiaro, che rende nitida anche la soluzione finale, la distruzione di un popolo intero. Sarebbe legittimo aspettarsi che proprio le comunità ebraiche, grazie a una saggezza maturata nell’orrore di un genocidio subìto, fossero le prime a condannare l’Israele genocida: e infatti questo succede negli Usa, nello stesso Israele e in giro per il mondo. Al contrario, in Italia le voci ebraiche di chi, come Anna Foa, ha pronunciato la parola ‘genocidio’ vengono isolate e liquidate come ‘tradimento’. Ma è il sistema mediatico italiano, quello mainstream, che ha la responsabilità enorme di aver bruciato, in pochi mesi, anni di educazione collettiva costruita nei Giorni della Memoria e a forza di ‘mai più’: perché se per i palestinesi non vale ciò che abbiamo detto per anni per gli ebrei, nessuno sdegno sarà più credibile, nessuna condanna condivisa. Perché sembreranno di parte, strumentali, falsi.


