Autore originale del testo: Gian Giacomo Migone
SUBITO I CASCHI BLU A GAZA
Siamo ormai complici di quanto sta avvenendo, sotto i nostri occhi, a Gaza e in Cisgiordania. Non abbiamo nemmeno la scusa, vera o fittizia che fosse, di chi non capì, o finse di non capire, l’Olocausto che si andava preparando e poi si svolse, alla vigilia e nel corso della seconda guerra mondiale. Di quanto sta avvenendo oggi, sappiamo tutto, ma vi è ancora tempo e modo per porvi parziale rimedio.
Come ha scritto Antonio Gibelli “Gaza costituisce un punto di svolta nella coscienza civile mondiale. Israele sta procedendo allo sterminio sistematico della popolazione palestinese. Fa tutto questo alla luce del sole, sotto i nostri occhi. Ecco perché questo crimine cambia il corso della storia, in termini di etica, non di geopolitica.”
Se non si passa dalle parole all’azione, continuiamo ad essere responsabili, in senso etico prima che politico, delle sofferenze individuali e collettive in quella parte del mondo. Nemmeno possiamo ignorare le conseguenze, storiche e globali, che ne derivano ai fini del drastico indebolimento di ogni conquista, pur parziale, di legalità ed organizzazione internazionale. Non basta più la denuncia. Persino Trump afferma che “ci sono troppi morti a Gaza” per poi continuare ad appoggiare la politica di Netanyahu, attribuendo ad Hamas la colpa del mancato accordo per un cessate il fuoco che lascerebbe Gaza sotto controllo militare israeliano. Francia, Regno Unito, Germania si salvano l’anima dissociandosi dallo sterminio per fame, che si aggiunge a quello operato con i bombardamenti, ma senza assumere provvedimenti conseguenti. Lo stesso Netanyahu, evidentemente sollecitato dalla recentissima richiesta di un intervento militare del rappresentante della Palestina presso l’ONU, ha deciso una breve quanto effimera via d’accesso per aiuti esterni.
Vi sono, insomma, segnali di un risveglio delle coscienze in proposito. Gli appelli di Papa Leone si fanno sempre più severi. Cresce il numero di stati pure europei che, riconoscendo la Palestina, più che scegliere una soluzione politica sempre più difficile da realizzare, condannano le sofferenze inflitte ad un popolo inerme. Soprattutto, in occasioni come quella della recente conferenza di Bogotà, la grande maggioranza degli stati, guidati dai fondatori dei BRICS, indica una serie di misure atte a costringere il governo di Tel Aviv a desistere dalla propria politica. Misure importanti se tempestivamente attuate: embargo totale di forniture di armi e blocco di porti ed aeroporti che, ad oggi, ne consentono l’invio (alcune iniziative di portuali italiani, greci, spagnoli, francesi, belgi e danesi oltre che sudafricani, australiani e canadesi costituiscono delle preziose anticipazioni); applicazioni di sentenze internazionali nei confronti di singoli individui; sospensioni di collaborazioni accademiche e scientifiche.
Eppure, tali misure, soprattutto se soltanto minacciate, non sono sufficienti per arrestare il genocidio in corso, di cui cresce quotidianamente il numero delle vittime innocenti. Occorre una focalizzazione totale su misure drastiche, fondate sul diritto d’intervento delle forze armate dell’ONU, tale da garantire soccorsi delle agenzie specializzate delle Nazioni Unite, consentite dal controllo del territorio da parte dei caschi blu. Una priorità assoluta che preceda le soluzioni politiche del caso, con la stessa determinazione immediata di chi, a prescindere da ogni vero o presunto negoziato, perpetua la strage di Palestinesi e sacrifica anche le prospettive degli ostaggi Israeliani, i pochi rimasti in vita.
Tutto ciò non solo è consentito, ma anche imposto dalla vigente normativa dell’ONU.
Infatti, se di fronte ad una ulteriore paralisi dell’organismo in prima istanza competente – il Consiglio di Sicurezza – a causa dell’esercizio del diritto di veto anche di uno solo dei membri permanenti (gli Stati Uniti), lo stato di emergenza prevede l’intervento decisionale dell’Assemblea Generale, ad oggi composta da una stragrande maggioranza di stati schierati a tutela dei diritti palestinesi.
Infatti, la risoluzione “Uniting for Peace”, n. 377A, approvata il 3 novembre 1950 e successivamente applicata su istanza degli Stati Uniti, alle prese con una fase della guerra di Corea, prevede l’intervento militare delle forze dell’ONU. La convocazione a tal fine dell’Assemblea Generale è consentita, trascorse 24 ore dalla constatazione della paralisi del Consiglio di Sicurezza, su istanza di 7 stati membri, che siano permanenti o meno (ai rappresentanti della Cina, della Francia, del Regno Unito, della Russia e degli Stati Uniti si aggiungono gli attuali membri non permanenti: Danimarca, Grecia, Pakistan, Panama, Somalia). Si va diffondendo la conoscenza di tale normativa, ormai invocata da un appello internazionale, firmato da oltre 200.000 persone.
Ne consegue che, se esso non avesse luogo, il mondo intero, nessuno escluso, sarebbe, in diversa misura, corresponsabile dello sterminio in atto di persone e di conseguenti diritti.
Gian Giacomo Migone


