LA SERPE CHE STRISCIA

per Filoteo Nicolini

LA SERPE CHE STRISCIA

Nel ripercorrere oggi Via Foria a Napoli, mi risulta difficile riconoscere quei luoghi che Anna Maria Ortese descrisse in un magistrale racconto chiamato Grande Via. Se non fosse perché l’Orto Botanico e l’enorme Ospizio dei Poveri a piazza F. Fuga, già Piazza Carlo III, siano rimasti lì a testimoniare il passato, e noto con piacere che l’enorme orologio sulla sommità funzione ed è preciso, il traffico la fa da padrone, l’incessante movimento dei motorini, la proliferazione di bar e luoghi di ristoro, tavolini e sedie su quelle rive, e tutto risulta alterato. Il traffico automotore appare fluido, nel senso che è una sostanza continuamente in movimento, che non ha forma propria ma assume la forma del recipiente, ovvero le strade, le piazze e i vicoli, assottigliandosi ed espandendosi, e raramente si arresta ai pochi semafori, e pure così qualcosa sfugge e avanza. Per un paragone, a Milano il traffico è invece a singhiozzo, scandito dal rosso e verde. In franca concorrenza con auto e motorini, c’è una altra sostanza fluida che si sparge e diffonde, smentendo la credenza nella impossibilità del moto perpetuo: sono le folle di turisti, a Toledo, al Centro storico, sul lungomare, sempre affamati e assetati.

Questa che faccio oggi mi sembra una discesa al regno dell’Ade, dai nuovi inquietanti aspetti, tenebre ma in piena luce. Sono impressioni sentimentali di chi visita la Partenope dai mille volti, dalle bellezze decantate e dall’arretratezza culturale. Riporto quanto al mio cuore appare risibile, anche se devo accennare a bruttezze. L’anima è spettatrice di un continuo andirivieni di umani e macchine, impigliati in gesti ripetuti milioni di volte, dal ritmo serrato e finanche violento di chi crede di correre ma è soltanto trascinato da una corrente incessante. Il mio è disagio, presa di distanza da quello spettacolo. E mi sento estraneo, e mi risulta difficile comprendere la marea che si affolla nei vicoli. È una serpe che striscia. Forse cercano proprio quello stordimento, quella emozione che io invece rifuggo. Ma per la nota carenza e impredicibilità del servizio pubblico di trasporto, non ho altra scelta di immergermi in quel flusso, per giungere a destinazione a piedi, sfruttando la conoscenza del territorio per evitare ingorghi umani fatali. Mi ritrovo a scendere per la via Mezzocannone a ridosso del nucleo storico dell’Università, senza quasi riconoscerla tanto è sfigurata dall’abbandono e dalle ignobili macchie lasciate da bombolette spray, strada tante volte percorsa da studente. Questo imbrattamento poi è diffuso sui muri dei vicoli, sui vagoni della Vesuviana, lo ritrovo nella storica Piazza del Mercato, simbolo della storia di Napoli per chi ricorda le vicende di Corradino di Svevia e di Masaniello, dei caduti nella rivoluzione napoletana del 1799.

Mi assale sempre quell’interrogativo: come faccio a distinguere il bello dal brutto nell’umanità che incontro?  Provo spaesamento, la tristezza, la reazione per l’assenza di sorrisi, di attenzione, di uno scambio minimo. Nel viaggio l’ho provato innumerevoli volte, già nel treno, ma principalmente nelle strade e nei vicoli che attraversavo. La gente in movimento perpetuo è ammaliata dal telefonino che la attrae, se guarda è solo per schivare l’impatto mentre si sposta, mai negli occhi, disattenta com’è all’essere umano che incrocia.

A me, per esempio, dispiace il colore nero, oggi diffuso a più non posso, colore dominante nei vestiti, pantaloni, bluse, berretti, scarpe, calze della stragrande maggioranza delle persone. È ubiquo, mi circonda nella strada, sul bus, nel treno. Trasmette, secondo gli intenditori, eleganza, individualismo, l’essere dominanti, senso di mistero, potere, lusso. Mi dà invece l’impressione di mancanza d’entusiasmo nella vita, oscurità, pessimismo. E volendo scherzarci su, il nero nasconde le macchie.

Nei vicoli si ascolta, naturalmente, il vociare in lingua napoletana, scesa in basso fino ad essere pervertita e impudica, lingua plebea, mentre nei ristoranti è possibile invece udire quelle tonalità più amabili e accattivanti, censurando quelle asperità eccessive e intercalando con l’italiano.

Si diceva che nella città di Partenope il traffico è notoriamente inarrestabile agli incroci delle vie. La Piazza Garibaldi ne è un esempio e sfido chiunque ad attraversarla senza una tattica sperimentata. Oppure Piazza Vittoria, dove per raggiungere il lungomare scendendo da Piazza dei Martiri si consiglia di prendere a mano destra, superare con estrema prudenza il semaforo lampeggiante, sperando in un istante di clemenza. Una volta passati i binari del tram e percorsa l’entrata della Villa Comunale, giungere in prossimità della meta agognata. Qui l’attraversamento a rischio. Via Caracciolo qui è priva di semaforo e allora ci si affida a un balletto fatto di apprendimento e tremiti, scivolando tra auto e motorini, segnalando con la mano per farsi notare, quasi implorando. Lavori annunciati e proiettati nel futuro promettono restauri futuri delle numerose statue e fontane della Villa con la Cassa Armonica, dove la domenica si potevano ascoltare brani di opera e sinfonia, nei lontani anni Cinquanta. Per percorrere la Villa si dovrebbe ricorrere a un navigatore che indichi le entrate e le uscite aperte, il viandante malcapitato rischia di tornare per dove è entrato. La Villa Floridiana, unico polmone verde al Vomero si trova poi in uno stato a dir poco penoso, pochi i vialetti percorribili, circondati da una vegetazione cresciuta a dismisura quale foresta cittadina. Ne ho ricordi felici quando da bambino ero condotto da mia madre per passeggiare, le foglie di magnolia piegate a barchetta per bere l’acqua della fontanina, i semi odorosi di eucaliptus, che forse oggi cadono ancora al suolo di una zona ahimè inaccessibile. La Floridiana si trova in una posizione privilegiata che spazia sul Golfo, una volta era paragonabile ad un orto botanico, con i viali ben curati, le aiuole fiorite.  Oggi da sconforto.

Portici, da residenza regale e luogo di villeggiatura ambito per prestigio, è in perenne contrasto con il popolare e sanguigno Ercolano. Un’altra storia quella del contiguo Ercolano, con il suo particolare linguaggio atavico, sonoro, degno di discendenti dei Sanfedisti, delle truppe del Cardinale Ruffo, dei Lazzari, dei vocianti stentorei, come se fossero pescatori còlti da burrasche e quindi nella necessità di sovrastarne i rumori per farsi udire dalla barca vicina, con il suo lumpen spontaneo, diretto e partecipe, laddove a Portici l’antropologia è diversa, più orientata alla classe media e al parlare gentile e ricercato, retaggio di fasti borbonici lontano nel tempo. Qui si parla un napoletano ingentilito senza le asperità e il vociare di Ercolano, eppure i due comuni sono contigui.

L’incedere delle persone per strada è capitolo a parte, perché c’è la manifesta tendenza dei Porticesi ad occupare spazio camminando affiancati; quindi, indifferenti a chi cerca di procedere nel senso opposto; oppure a muoversi al passo veloce del vincitore che deve annichilare avversari, oppure rallentando fino a fermarsi per fare del luogo pubblico salotto di amene conversazioni. Ho raggiunto Portici con la Vesuviana, i cui vagoni continuano a viaggiare barcollando a destra e sinistra per via dello scartamento ridotto che risale alla notte dei tempi Era nel passato soluzione più economica di una ferrovia vitale che ancora procede a tratti su binario unico.

Ritorno a Napoli con il filobus che percorre San Giorgio e si avvicina al Porto di Napoli attraversando il Corso San Giovanni a Teduccio. E qui non si nota nessuna metamorfosi al peggio, nessun declino, nessuna involuzione. Perché questo Corso è rimasto come congelato nel passato, la stessa strada dissestata, le stesse case decrepite, i panni stesi ad asciugare in bella vista da discendenti che abitano le case dei nonni. Come se il tempo non fosse mai trascorso.

In questa visita a Napoli sono naturalmente precipitato nel passato e nei ricordi sbiaditi, non volendo accettare l’immagine che il presente mi rimanda, e quindi provando spaesamento e disagio. Ma continuo ad essere magicamente attratto da questi luoghi e questa lingua, come se rinnovassi il mio sì alla sirena Partenope e ai suoi incanti.

FILOTEO NICOLINI

Immagine: Piazza Mercato, Napoli

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