Fonte: La stampa
Così sull’odiata stampa Meloni oscura Trump
di Flavia Perina «Io non voglio mai parlare con la stampa italiana», confida Giorgia Meloni al presidente finlandese Alexander Stubb, e la replica più facile sarebbe: dov’è la notizia? Lo sappiamo. Sappiamo che è una strategia, adottata e difesa con tenacia dopo il disastro della prima conferenza stampa-show del mandato, quella seguita alla strage di Cutro. Sappiamo che la strategia serve a dare valore alle rare (rarissime) occasioni di dialogo diretto, forse anche a evitare di dover rispondere delle gaffe (non così rare) dei suoi ministri e di certe ruvide divisioni della coalizione. E tuttavia il fuorionda registrato a Washington, nella solenne occasione del vertice trilaterale Usa-Europa-Ucraina sulla guerra, risulta un pasticcio per due motivi. Il primo: la premier non potrà più negare, come ha fatto in passato, la scelta di minimizzare il confronto con i giornali. Il secondo: persino Donald Trump il prepotente, il dispotico, l’infallibile, uno che i giornalisti scomodi li ha interdetti e bullizzati ogni volta che sono riusciti ad aprire bocca, in quella circostanza ha giudicato inevitabile aprire i microfoni, accettare domande e dare risposte.
La verità è che la destra di governo, fin dai tempi di Silvio Berlusconi, nel confronto giornalistico si sente un giocatore fuori casa. Ha coniato anche un accrescitivo dispregiativo: “i giornaloni”, cioè i giornali che coltivano un atteggiamento critico, quelli che infastidiscono con i retroscena e le notizie rubate, e ormai la definizione è entrata nel lessico comune. “I soliti giornaloni”. “Ancora credi ai giornaloni? ”. Persi in questo riflesso pavloviano, i figli di quella stagione non si sono accorti che il pregiudizio dei giornaloni verso il governo della destra è stato largamente superato dopo la prima fase, quella in cui si temeva che il governo Meloni avrebbe dato seguito a certe promesse esagerate, scassato i conti, affondato l’Inps con l’abolizione della Fornero, portato l’Italia fuori dall’Europa, restaurato il fascismo o chissà che altro. L’esecutivo, oggi, viene criticato esattamente come ogni altro esecutivo politico precedente, sulle riforme costituzionali come successe a Matteo Renzi, sulle gaffe della squadra ministeriale come successe a Giuseppe Conte, sugli scandali o su certe opacità di racconto come è successo a chiunque, fin dai tempi della Democrazia Cristiana.
La normalizzazione delle relazioni andrebbe colta, e con essa l’oggettivo rispetto che un po’ tutti, persino i più scettici, hanno espresso per l’abilità dimostrata dalla nuova Giorgia Meloni, quella che ha dismesso il vecchio abito dell’opposizione euro-scettica e populista e si è fatta protagonista stimata sulla scena internazionale. Se non succede, se ci si continua a regolare come se la stampa (tranne quella più allineata degli editori-amici) fosse una controparte ostile, se supera persino Trump su questa strada, forse è perché la destra ha già perso troppi antagonisti importantissimi per il suo racconto.
Non può più prendersela con i poteri forti, la dittatura sanitaria, gli euroburocrati senza patria, gli gnomi della finanza e delle banche che tramano nell’ombra. Persino molte campagne allarmistiche legate alla cronaca spicciola – violenze di immigrati, degrado urbano, rincari delle merci o delle spiagge – sono interdette: governano, non possono mica darsi la zappa sui piedi. I giornaloni (insieme con le toghe rosse) sono gli ultimi nemici rimasti, di sicuro gli unici che si possano bistrattare senza pagare pegno, e dunque: come rinunciarci?


