LE CAPPELLE IN PIETRA DI JUAN FELIX SANCHEZ, ARTISTA DEL SACRO.
Sono leggendari in Venezuela la laboriosità, la qualità morale e il fervore religioso degli andini, e cito le cappelle costruite in pietra da Juan Fèlix Sànchez nell’alto delle Ande chiamato Tisure.
Un primo tentativo di arrivare a piedi dove Sànchez si era stabilito là nell’alto del paramo era fallito. Infatti, perdemmo il sentiero di sera, ci sorprese la pioggia e passammo la notte alla meno peggio, ridiscendendo all’alba infreddoliti e delusi. L’avventura motivò un poema della mia compagna che ripagava spiritualmente l’insuccesso. Ma decidemmo ritentare in un momento più favorevole.
La seconda volta ci facemmo condurre da un baquiano di quei luoghi, di nome Demecio, che ci guidò fino alla meta, evitando salire costoni in forte pendenza; nell’occasione la mia compagna montò a cavallo con la sua abilità di pampiana, mentre io e Demecio la seguivamo nel silencio più assoluto. E nel silenzio e la quiete ci aspettavano Epifania Gil e Juan Fèlix Sànchez tra frailejones, telai auto costruiti per tessere coperte, ruanas e ponchos e sorrisi di bienvenuto a chi si era arrischiato così lontano da San Rafael de Mucuchìes, che è il villaggio più alto del Venezuela con 3140 m.
Epifania e Juan Félix erano una coppia che condivideva una gloria di frailejònes, torrenti, creature silvestri e capre, e soprattutto silenzio. Il frailejòn è un genere di piante Asteracea che prospera nelle Ande venezuelane e colombiane e ne costituisce la nota tipica in alta montagna. Juan Fèlix era contadino di San Rafael de Mucuchìes, tessitore e artigiano autodidatta che ideò e costruì nella località El Potrero due Cappelle in pietra dedicate a Nostra Signora di Coromoto, e poi anche la Cappella del paese, sempre solo in pietra. Ci accolse con il sorriso smagliante di chi ha trovato la pace nel silenzio della montagna. Nelle stesse parole di Juan Fèlix:
“…mi ricordai che l’otto di questo mese la Santissima Vergine di Coromoto compiva trecento anni dalla sua apparizione nelle selve di Guanare, e allora subito mi venne in mente di mettere lì una piccola croce e collocare una immagine della Vergine di Coromoto. E dedicarlo a Lei come omaggio. E mi dissi: qui vado a fare una cappella, se Dio mi dà vita. E l’idea della cappella la tenevo nella testa, me la immaginavo come sarebbe stata. Io non feci questo per farmi notare, erano mie idee per avere una opera qui. Perchè una persona, per dove passa, deve lasciare almeno una traccia, una orma. Io avrei fatto la cappella grande anche se mai fosse venuto un sacerdote qui. Al punto che mi dissi: se non viene un prete a benedirla, io la benedico, o vado lì e le prego. In conclusione, anche se mai fosse venuto un prete, io facevo la mia Cappella. El il prete venne, e la cappella gli piacque, e continuò a venire…”
L’architettura detta El filo de El Tisure non ha antecedenti in Venezuela. In mezzo alla immensità della valle dove abitano solamente Epifania Gil e Juan Fèlix Sànchez, alla fine di un sentiero affannoso dove non passa nessuno per settimane, si trova un impressionante insieme di cappelle, terrazze, calvario e presepe, dove solo le pietre e il legno hanno edificato questo centro spirituale frutto dell’ingenuo sentimento religioso di Sànchez. In tutte le Ande le chiese coloniali o costruite in epoca repubblicana sono disegnate di forma nitida dall’intonaco, e laddove su usa la nuda pietra, essa è tagliata in forme rigidamente rettilinee. Sànchez, al contrario, ha edificato tutti gli spazi interni ed esterni con pietre nude, rugose ed irregolari, al punto che la parete è divenuta elemento plastico autonomo. “….La pietra si sceglie, ovvero, il posto che la pietra esige. Al collocarle, esse stesse vanno dicendo il loro luogo. Come mi venne l’idea di fare così la cappella grande? Ci sono persone alle quali piacciono le chiese regolari, luccicanti, belle. A me invece piacciono le cose bruttine. A Dio, una chiesa di oro è uguale a una di pietra grezza, e chissà ringrazi di più l’edificazione di una chiesa semplice, però fatta con buon senso. Ci sono persone che non si accorgono della bellezza di queste pietre brutte, perchè non sanno vedere. Dopo che feci la cappella, ci fu chi voleva darmi del cemento per fare l’intonaco, e io le dissi: mai, mai. Ed altri mi dissero che si doveva mettere un pavimento più liscio e regolare delle pietre rustiche. Ma il pavimento della cappella è l’attrazione, per questo attrae, per questo è buono, una cosa brutta che attrae!…”.
Fummo ospiti per alcuni giorni nelle casupole di legno rustico, dormendo vicino ai telai, condividendo il cibo e il silenzio. All’aVvicinarsi del momento del ritorno, ricordo che in quegli occhi sempre sorridenti scese un velo di malinconia, perchè andavamo via. La gente viene, rimane un poco e se ne va, invece di rimanere a lungo nella pace e nella purezza, fu il commento di rammarico di Juan Félix.
Sono questi dei ricordi della meraviglia e del dolore, resi invisibili se la dimenticanza stendesse il suo velo oscuro. Per me fu la scoperta dell’artista del popolo che può insegnare tanto alle generazioni colte. Uno che ha aperto cammino nella solitudine di una valle remotissima, un artista tutt’uno con la sacralità. Che ha trovato il sacro nelle sue mani che scelgono le pietre e innalzano il tempio.
Ricevette il Premio Nacional de Artes Plàsticas nel 1989
FILOTEO NICOLINI


