Fonte: Limes
Gli Stati di Israele – Zero Stati?
. L’orologio della geopolitica batte l’ora di Narciso. Pulsione autoerotica che sfocia in collettive manie di grandezza, regolarmente frustrate dallo specchio di Grimilde, petulante antenato dell’autoscatto. Più di ogni fantasia, il narcisismo è ingestibile. Induce sovrapproduzione di irrealtà. Ti sogni centro di mondi meravigliosi, fatti a tua immagine e somiglianza, finché non sbatti contro i muri degli altri selfisti. Per informazioni rivolgersi a Donald J. Trump, campione inarrivabile di questa larga Internazionale, emblema del tempo nostro. Non ordinario, tantomeno ordinato.
Il lettore avrà capito che la metafora rubata al genio dei fratelli Grimm descrive Caoslandia. Terre del disordine che bordeggiamo mentre agitano le acque del Medioceano – il Mediterraneo crocevia fra Atlantico e Indo-Pacifico – da cui dipende il nostro benessere, avremmo detto ieri. La nostra esistenza, soggiungiamo oggi, quando Guerra Grande tinge di rosso – colore d’allarme – le onde di casa (carta a colori 1).

Realtà spiacevoli invitano ad allestire false quinte teatrali a copertura del retropalco. Noi italiani ne siamo specialisti. Favoriti dalla bolla di molto diseguale agio che aiuta a immaginarci figli viziati di un fortunoso destino, immuni dal caos che ci ribolle intorno. E da buoni economicisti, notiamo come la guerra possa produrre ricchezze forse effimere, mal distribuite ma assai consistenti in qualche Narciso bellicista, per esempio il russo (industria militare e agricoltura), financo l’israeliano (l’immobiliare è in boom). Intanto i politologi brandiscono la teoria della scelta razionale cara agli economisti, per cui i protagonisti dei conflitti sono accomunati dalla medesima idea di costi e benefici, che naturalmente produrrà vantaggi per tutti.
Da amanti del teatro vero, ci permettiamo di dubitare delle trasfigurazioni pseudogeopolitiche della rational choice, recitate a soggetto dagli eserciti di solipsisti confitti nell’autocontemplazione che si accorgono dei loro simili marcianti in direzione opposta quando vanno a sbatterci. Rovesciando il Faust: i paradisi scenici di cui godiamo sono parte di quella forza che eternamente vuole il bene ed eternamente opera il male.
Tanta premessa trova tragica applicazione a Gaza e nelle terre levantine di strategico rilievo per l’Italia. Nostro estero vicino, affacciato sul già nostro ormai altrui mare, che ci ostiniamo a pensare esotico. Per non volerlo studiare.
2. Il premio della nostra giuria virtuale per la migliore fiction «geopolitica» volta a redimere Caos in Cosmo – disordine in ordine, guerra in pace – lo vince SuperTrump. A mani basse. Il suo piano per la «pace eterna», che scioglie nodi plurimillenari in Medio Oriente a partire dal martirio dei palestinesi della Striscia da volgere in Riviera, non pare avviato a redimere la regione (carta 1). Passa rapida mano di vernice a specchio su dispute quelle sì millenarie fra attori non inclini a rispettare il precetto dello scespiriano conte di Kent: «Professo di essere non meno di quel che sembro» 1.

L’immodesto tentativo qui azzardato è di iniettare un grammo di realtà nelle fantasie correnti, liberalmente mediatizzate da mainstream e social. Al centro, le guerre di Israele. Lo Stato ebraico rischia la pelle perché cercando di scongiurare o ritardare la resa dei conti fra le sue fazioni, estesa alle istituzioni civili, militari e di intelligence, si è cacciato in conflitti infinibili mascherati da prologhi della Vittoria Decisiva (vedi l’articolo di Giuseppe De Ruvo alle pp. 41-58). Per i critici convinti che geopolitica sia cabala di burattinai, è perversione di un maturo leader sotto schiaffo della moglie quindi dei magistrati.
Recitazione che trascura i dati profondi. Storici e strutturali. Ne segnaliamo uno solo, parlante. Allo stato, gli israeliani più fedeli allo Stato non proprio loro sono gli arabi – cittadini di serie B, ospiti con patentino a Gerusalemme Est – che ingenui avrebbero immaginato rivoltarsi contro il carnefice dei «fratelli» di Gaza. E invece no. Sommiamo a questa sorprendente sorpresa l’odio fra Ḥamās e non-Autorità nazionale palestinese arroccata a Rāmallāh. Tiriamo le somme. Su quali basi nazionali dovrebbe un giorno fiorire la Palestina ancella di Israele cantata nella favola dei Due Stati, pezzo forte di ogni pièce diplomatica volta a rimuovere la realtà e, certo involontariamente, a proseguire i massacri? E su quale terra sorgerebbe Palestina, visto che a Gerusalemme impazzano i seguaci di un (anti)sionismo teocratico che Bibbia in mano sragiona di Nilo ed Eufrate, Damasco e Baghdad?
Di qui cinque paradossi in forma di premesse. Intesi guida nel labirinto delle analisi espresse dagli articoli che seguono. Per titoli.
Primo. Siamo tra sabbie e acque per secoli rette da califfati ispirati a Maometto. Supremo l’abbaside (750-1258). Dal medioevo fino a metà Novecento invasi, contesi e spartiti per la maggior gloria di potenze coloniali europee e asiatiche. Poi distinti tra non allineati o bipartiti nelle sfere d’influenza di America e Unione Sovietica. Oggi come ieri, spazi punteggiati da poteri tribali, clanici e settari di vario tono islamico. «Stati» che nulla hanno a che vedere con l’idealtipo dello Stato nazionale eterogeneo, radice dimenticata perché sfigurata delle nostre democrazie liberali, ai cui princìpi ci confessiamo irrealisticamente affezionati. Il diritto internazionale, velo pudico che ognuno interpreta e disattende a modo suo, postula un mondo di Stati nazionali, coronati dalle Nazioni Unite, futili ma troppo utili al teatro collettivo per essere svelate tali. Come oscurare la realtà e impedire di trattarla. Propaganda ex imperiale pretende che antiche colonie siano volte in Stati simili al paradigma euroccidentale. Mentre continuiamo a chiederci perché la fraternità delle non sempre ex colonie inventi il Sud Globale.
Secondo. Il genocidio dei palestinesi – epicentro Gaza, incipiente in Cisgiordania – è onda anomala della non-strategia israeliana. Riflesso che induce lo Stato ebraico – Stato di nome e di fatto, tuttora il più potente e sviluppato nella regione – a comportarsi come fosse Davide quando è Golia. Travestimento che eccita la vena suicidaria ereditata da secoli di diaspore e persecuzioni. Eppure i potentati energetico-islamici dell’area smaniano da anni per agganciare il treno israeliano, soprattutto le sue tecnologie civili, militari e duali. Vedi accordi di Abramo. Creati con passione geo-imprenditoriale da Trump e dall’intraprendente genero Jared Kushner insieme ai soci arabo-islamici con cameo di Tony Blair, consulente della Bp (British Petroleum, Blair Petroleum per i mascalzoni) oggi risultano ibernati. Ma i nostri non disperano di riesumarli un giorno con strepitosi festeggiamenti e luminarie sui grattacieli della Riviera di Gaza. Se li scongelassimo ora li scopriremmo defunti.
Terzo. Nella sua non-strategia Israele ha un solo imperativo: il Nemico necessario. Per i primi vent’anni lo furono gli «Stati» (per le virgolette vedi sopra) arabi, sgominati nei Sei giorni del 1967 che sconvolsero il Medio Oriente. Vittoria che ha caricato lo Stato ebraico della gestione diretta o per interposto vigilante palestinese della Cisgiordania. Colonia piena di arabi, da spingere gentilmente un poco più in là. Magari oltre il Fiume, dove potrebbero farsi Palestina a spese di beduini e re hashemita. Il governo di Bibi Netanyahu freme. Vuole battezzare proprie via formale annessione quelle terre che già domina. Per registrare finalmente all’anagrafe due gemelli cinquantottenni biblicamente rinominati Giudea e Samaria, i teo-falchi di Gerusalemme e i maneschi coloni delle colline sarebbero pronti a scatenare l’apocalisse. Quando la commedia diventa tragedia.
Quarto. Unico Nemico restante è l’Iran, con i suoi più o meno infedeli clienti arabi che fino a ieri gli garantivano sbocco sul Medioceano. Il più periferico e meno famoso tra questi era Ḥamās, che Bibi è riuscito a elevare da banda di terroristi a marchio globale della Palestina, causa attraente anche perché persa. Le guerre in cui fra un successo e l’altro – vero, inventato, comunque provvisorio – Israele seziona sé stesso derivano da un voluto errore di calcolo del suo governo, come capita ai troppo astuti che si imbrogliano da soli: trattare l’orrore del 7 ottobre – scatenato ma non pienamente controllato dalle milizie gaziane di Ḥamās più altre schegge assetate di vendetta – da minaccia esistenziale. Neanche Sinwār potesse conquistare Gerusalemme. La scelta di Bibi mirava a radunare la nazione attorno alla bandiera per dedicarsi allo smantellamento dell’impero persiano tra Iraq, Sirie e Libano. Scopo ultimo, fratturare l’Iran in staterelli «indipendenti». In alternativa, imporvi un altro Ciro, non esattamente reincarnazione del Grande salvatore degli ebrei, sul restaurato trono del Pavone. Previ altri bombardamenti, probabili nei prossimi mesi. Nell’attesa, Trump apre con sprezzo del ridicolo all’ammissione dell’Iran post-khomeinista nel blocco ebraico-musulmano firmato Abramo, nato per contenere quel che resta dell’Iran medesimo. La nobile Persia buona scaccerà la cattiva.
Quinto. Futuro già cominciato. Se riuscirà a sopravvivere e a ricucire le dispute fra le sue tribù, Israele affronterà quale Nemico supremo la Turchia, con cui aveva condiviso per decenni maschia amicizia tra militari e Stati profondi. L’impero turco in troppo esuberante riespansione fronteggia a breve distanza le avanguardie israeliane, attendate presso Damasco. Posta in gioco della partita turco-israeliana è il controllo degli Stretti medioceanici, da Bosforo-Dardanelli a Suez e Bāb al-Mandab. Quindi delle risorse e condutture energetiche, che insieme al reticolo digitale sottomarino connettono l’Asia all’Eurafrica e al resto del pianeta. Area di scontro prevista Cipro Nord, perno della Patria Blu escogitata dagli ammiragli di Erdoğan, pezzo indimenticato del cuore suo e dei patrioti turchi. Ad Ankara si affinano i piani per proteggere quella base medioceanica dall’eventuale attacco di Gerusalemme, che conta sul coinvolgimento della Grecia e degli anglo-francesi (vedi l’articolo di Daniele Santoro alle pp. 109-123). E, se ce ne sarà tempo e possibilità, sul ritorno di Washington agli affari esterni all’emisfero occidentale, cui Trump antepone la guerra ai «nemici di dentro» (carta a colori 2).

Tempo di rientrare nel presente. Occhio alle lancette dell’orologio dei Narcisi.
3. Le guerre di Israele produrranno la sua fine? Tra Mediterraneo e Giordano non avremo né uno Stato ebraico né una Palestina e nemmeno l’Isratina binazionale, utopia firmata Gheddafi? 2. Oggi queste domande paiono legittime. L’alternativa è fra Grande Israele, prescritto da Dio e perseguito contro tutti e tutto dal governo di Gerusalemme, e nessuno Stato, esito avvelenato della para-geopolitica secondo il Libro. Impossibile tornare indietro. Il massacro scatenato da Ḥamās e la terrificante risposta di Israele escludono il ripristino dello status quo ante. Abbiamo avuto un prima e avremo un dopo 7 ottobre. Il dopo sarà soprattutto determinato da Gerusalemme, in associazione o dissociazione con Washington. Nell’immediato, dalla disponibilità di Netanyahu a scendere dal piedestallo di inviato del Signore deputato alla liquidazione del Nemico terrorista per riscoprire il pragmatismo in cui un tempo eccelleva. O sgombrare il campo per amore di Israele (carta a colori 3).

Peseranno meno le scelte di Ḥamās, che comunque canterà vittoria perché continuerà a esistere. La sequenza di cessate-il-fuoco, scambi di ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi in vista di una tregua a Gaza e in Cisgiordania senza prospettive di vera pace, sarebbe sbocco logico, troppo logico. Vedremo quanto concreto. Ma eventualmente, quando? Il cronometro di Bibi è fermo sulla vittoria «in qualche settimana» annunciata all’indomani del 7 ottobre. È anche una corsa contro il tempo. Più scorre meno semplice sarà ricompattare Israele.
Che cos’era l’ante-7 ottobre che non rivedremo più? L’industria quarantennale del perpetuo negoziato ultra-asimmetrico fra il più potente Stato del Medio Oriente, sostenuto dalla massima potenza mondiale, e l’arcipelago palestinese oggi spartito fra Ḥamās, perno della resistenza islamista in armi, e Autorità nazionale palestinese, pseudo-amministrazione dei coriandoli di Cisgiordania per conto (in banca estera) e sotto il controllo di Israele. In comune un privilegio: l’essere stati entrambi a libro paga dello Stato ebraico (Ḥamās dalla nascita al 6 ottobre, all’Anp Bibi sta prosciugando i già modesti incentivi). Fra i capi delle intelligence militari di Ḥamās e di Israele vigeva da anni intimità. Spontanea tra persone abbastanza intelligenti da vegliare sul teatro non così segreto della coesistenza fra nemici che hanno necessità di restar tali. Teatro allestito con i soldi del Qatar e non solo, con la collaborazione dell’Egitto – l’altro guardiano di Gaza – e sotto supervisione a stelle e strisce. Obiettivo di Gerusalemme: perpetuare lo stallo nella Striscia abbandonata ai miliziani islamisti. Per stroncare qualsiasi velleità di unità palestinese, Netanyahu teneva ai suoi utili terroristi di Gaza come ai sovrannumerari di Rāmallāh, specialisti nella commemorazione della Nakba – Catastrofe per il popolo di Palestina cacciato o (versione preferita dagli israeliani) scappato di casa nel 1948-49 – in allegre sfilate di moda 3. Eccesso di zelo, stante la refrattarietà dei palestinesi a riconoscersi sotto la stessa bandiera. Sia quella storica dell’Olp, ormai vintage, sia una sua eventuale reinvenzione addobbata con nuovi colori.
L’astuzia volpina di Bibi non era originale. La filiale dei Fratelli musulmani egiziani aperta a Gaza nel 1987 era stata supportata dal leader laburista Yitzhak Rabin per spaccare il fronte avverso. Lui stesso se ne confesserà angosciato poco prima di venire assassinato da un fanatico che oggi si sarebbe volentieri identificato con l’ala ultrareligiosa del governo. La tattica di Rabin fu legge per i successivi premier. Incluso Netanyahu, che fino al 7 ottobre si compiaceva di tanta scaltrezza. Non è detto se ne sia pentito.
A patrocinare l’industria della non-soluzione, con alterno brio, l’America imperiale. Nella doppia veste di mediatrice e garante dello Stato ebraico. Arbitro giocatore. Il massimo per Israele. Quando hai dalla tua l’egemone mondiale, stai sicuro che la partita non la perdi. In tal contesto, una decente spartizione dell’esiguo spazio conteso era soggettivamente impossibile. Lo Stato ebraico ha gestito a lungo questo vantaggio incolmabile. Bloccato l’avvento di una Palestina dalla dignità (para)statuale, gli bastava impegnarsi in brevi campagne di manutenzione bellica dagli esiti via via meno brillanti eppure mai perigliosi. Fra l’una e l’altra gustava una dopo l’altra fette di torta su cui fingeva di negoziare. I palestinesi preferivano restare al gioco piuttosto che esserne esclusi. Meglio qualche avanzo di dolce dal retrosapore amaro che nulla. L’essenziale era e resta il posto a tavola. Essere «riconosciuti» – d’obbligo le virgolette – degni di negoziare con i propri dominatori. Detto, scritto e praticato con bollo a stelle e strisce. Sindrome degli alberghi di lusso su cui ironizzava il primo presidente di Israele, Chaim Weizmann. Il fascino delle cinque stelle, grado alberghiero minimo per i professionisti della negoziazione il cui interesse vitale è confermarsi tali, rivive a Doha con sostanzioso upgrade, malgrado il tragico intervallo del 9 settembre – attacco israeliano fuori bersaglio contro i vertici di Ḥamās.
Certo, si allestiscono ancora tavoli diplomatici nei formati più vari. Si sparecchia e riapparecchia a ritmo frenetico, ogni volta con qualche posto in meno vista la compulsione israeliana a colpire gli interlocutori troppo disponibili al compromesso. Ma rispetto al glorioso passato le poste in gioco sono deflazionate. Si tratta su quando e come sospendere i combattimenti, scambiare in rapporti alquanto asimmetrici gli ostaggi israeliani vivi o morti con ergastolani palestinesi, amministrare aiuti umanitari per i gaziani a genocidio in corso e deportazione in vista. Altro che pace in Terrasanta.
I fatti cambiano e le parole d’ordine restano. Nel blob della diplomazia internazionale lo slogan dei Due Stati continua a smerciarsi con apparente successo. Nella migliore ipotesi, riflessi condizionati. Voci dell’inconscio che parlano per sogni. Ma questa fantasia non è morta all’alba. Sopravvive al suo tramonto. E alla grande. Nell’ecumene tutta, salvo Israele.
Di fatto una micro-Palestina vigeva dal 2005, quando il primo ministro Ariel Sharon, d’intesa col Bush minore, ordinò il ritiro dalla Striscia con smantellamento delle relative oasi coloniali per affermare chiusa una volta per tutte la questione palestinese. Operazione Formaldeide, nella versione del suo braccio destro Dov Weissglas. Deputata a imbalsamare la salma del mai nato Stato palestinese, a «congelare il processo di pace finché i palestinesi non diventeranno finlandesi» 4. Weissglas non poteva immaginarlo, ma in base al suo parametro se oggi i palestinesi si convertissero alla sua pace entrerebbero nella Nato. Alleati del suo protettore.
Vent’anni dopo, Netanyahu è impegnato in una guerra d’impatto mondiale centrata su Gaza e Cisgiordania, estesa dall’altopiano iranico all’incrocio del Mar Rosso con l’Oceano Indiano, a Hormuz, negli Iraq, nelle Sirie e in Libano. Estendibile ovunque sopravviva un terrorista da eliminare, un’ambizione atomica da disinnescare. Tutto per riparare alla disastrosa ritirata di Sharon dalla Striscia. E al seguente subappalto a Ḥamās.
Oggi Bibi pare intento a sabotare il piano negoziato con Trump per un’uscita dignitosa dal tunnel strategico in cui si è ficcato mentre i suoi militari rischiano la vita nei 500 chilometri della «metropolitana» di Gaza. «Guerra dei topi» condotta controvoglia dal capo delle sue Forze armate, per il quale è follia.
Netanyahu è finito prigioniero di sé stesso. Con lui il suo popolo. Per impedire la finzione dell’impossibile Stato di Palestina, inesistente dunque riconosciuto da 157 Stati sui 193 delle Nazioni Unite – più Santa Sede, che gelosa custodisce lo status di osservatore onde vietarsi di votare e così schivare il peccato veniale di leso ecumenismo – Bibi ha schiuso le porte dell’inferno. Per la prima volta dopo la vittoriosa guerra di indipendenza del 1948, Israele rischia di non avere futuro. Agognando la luce in fondo ai tunnel sotto la Striscia, il soldato di Israele teme di non vedere la luce del sole ma quella del camion terrorista che gli si fionda addosso. Lo Stato ebraico non può perdere per effetto di batosta militare ma perché nella fase della massima crisi interna ha deciso di ingaggiare quella che nei piani sarebbe dovuta essere la guerra per finire tutte le sue guerre. Ma che potrebbe finire sé stesso.
Netanyahu si è illuso di poter continuare a viaggiare da copilota sul treno americano in deragliamento. Gli Stati Uniti sono in lotta per scongiurare il cedimento strutturale che ne minaccia identità e istituzioni. Lo stesso morbo di Israele. Due potenze malate non ne fanno una sana.
4. La vera battaglia per la vita o la morte non è tra lo Stato di Israele e Ḥamās, ma tra sionisti laici, pragmatici, e supersionisti ultrareligiosi, messianici. Anticipata dal leader laburista Shimon Peres nel 1996, quando sconfitto alle urne da Netanyahu commenta con gli intimi: «Gli israeliani hanno perso, gli ebrei hanno vinto» 5. Tesi confermata sul fronte opposto da Arthur J. Finkelstein, consulente americano di Bibi: «In Israele destra contro sinistra significa ebrei contro israeliani» 6. E il pacifista Uri Avnery: «Noi abbiamo non solo due blocchi politici, ma due culture, in realtà due nazioni separate» 7. Erano passati sette anni dalla pittoresca fondazione dello «Stato di Giudea» per iniziativa del rabbino Mehir Kahane, riferimento non solo spirituale della destra estremista, in una sala dello Sheraton Plaza di Gerusalemme. Evento allora trascurato dai media. Invece premonitore.
Lo storico antisionista Ilan Pappé ha appena pubblicato La fine di Israele, diagnosi del collasso del sionismo in tutte le sue varianti e prefigurazione di una Palestina senza Israele, nascita annunciata per il 2040 8. Pappé profetizza che la parabola dello Stato ebraico si chiuderà per scissione tra Israele e Giudea, tra sionismo delle origini (Theodor Herzl) più o meno seguito dai padri fondatori (David Ben-Gurion) e suo stravolgimento in chiave teocratica. Oggi incarnato da ministri quali Bezalel Smotrich (foto) e Itamar Ben-Gvir. E cavalcato da Netanyahu, per fede o calcolo poco importa.

La faglia interna forse fatale per Israele è la scissione fra le maggiori tribù, due delle quali refrattarie al sionismo – arabi e ultraortodossi (haredim), infatti esentati dal servizio militare – mentre sul fronte opposto sionisti della Bibbia, spesso violenti, e laici moderati quasi non si parlano più. Ne soffre lo Stato, nei cui apparati la storica prevalenza dei non- o meno religiosi è sfidata dalle nuove leve kahaniste. Per le quali il grande sogno è la costruzione del Terzo Tempio sulle rovine della moschea di al-Aqṣā.
Israele contro Giudea è la crepa decisiva che infragilisce il muro portante della creatura di Ben-Gurion. Tecnica edilizia insegna che le crepe si formano nel corpo murario quando le pressioni esterne originano una rottura che si propaga nella struttura. Metafora qui aggravata dall’origine prevalentemente domestica delle pressioni, tipica di un popolo uso vivere col fucile al piede per timore dei molti nemici, spesso sopravvalutati per tenere il pubblico in allarme, comunque percepiti in modi differenti dalle fazioni in questione. Nessuno può vivere sempre in stato di guerra latente o effettiva. Anche per questo dal 7 ottobre decine di migliaia di israeliani sono emigrati, talvolta tornando dove i loro ascendenti si erano imbarcati per la terra promessa.
Cuore geografico e motore politico-militare dello Stato di Giudea è la Cisgiordania, biblicamente intesa Giudea e Samaria. I coloni, autorevolmente rappresentati nel governo da Smotrich, vi stanno conquistando con la violenza nuovi avamposti anche grazie all’appoggio delle forze di sicurezza che in teoria dovrebbero controllarli. Obiettivo l’annessione di tutti i territori formalmente affidati alla gestione palestinese. E a tappe forzate. Recente segnale lo sviluppo dell’area di Ma’ale Adumim via E1 per spezzare l’esile spina dorsale della Cisgiordania palestinese (carta a colori 4). Questa colonizzazione in stile Giudea differisce per l’esclusivismo religioso da quella di Israele, motivata dai laburisti in termini di sicurezza. La prassi di Smotrich riprende in veste religiosa la paradossale teoria dei primi coloni sionisti, parecchi dei quali non volevano nemmeno un proprio Stato: «Una terra senza popolo per un popolo senza terra». Gli estremisti l’applicano con l’intransigenza di chi è in missione per Dio e sente approssimarsi lo scopo di una vita. Ma il problema del Grande Israele non è tanto la terra quanto la popolazione. Nella traduzione dalla propaganda alla pratica, i territori abitati da arabi vanno svuotati per poterli annettere. Via gli autoctoni, dentro i colonizzatori. Con la violenza, anche quando non fosse necessario. Fuorviante l’analogia con l’apartheid alla sudafricana, pertinente quella con i cowboy a caccia di sempre nuove frontiere. Quasi sempre non spopolate, ma spopolabili per la legge del più forte.

Alle fessurazioni interne si sommano le esterne. La reputazione dello Stato ebraico crolla dappertutto. Il dato più allarmante viene dall’America. Per la prima volta nella storia, una maggioranza di elettori statunitensi simpatizza con i palestinesi: 35% contro il 34% di filo-israeliani. Quasi il 60% sostiene che la campagna militare ha da finire subito, con o senza liberazione degli ostaggi e liquidazione di Ḥamās (grafico). L’uso del termine «genocidio», così carico di senso perché accostato all’Olocausto, è impiegato comunemente per bollare la strage di palestinesi a Gaza. Fenomeno proliferante soprattutto fra i giovani. Compresi diversi ebrei israeliani o in diaspora.

Per restare in America, crepe si osservano persino tra gli evangelicali, strenui sostenitori di Israele. Cristiani sionisti, in grande maggioranza bianchi antisemiti flottanti nella galassia trumpista, che si rifanno alle profezie bibliche per cui gli ebrei devono tornare in Israele, dove nell’ora estrema si convertiranno o saranno massacrati: «Il filosemita è un antisemita che ama Gesù», nell’acida battuta di uno storico tedesco 9.
In questa chiave conviene leggere l’autocoscienza di Netanyahu su Israele «Super-Sparta», prorotta il 15 settembre in una conferenza riservata al ministero delle Finanze 10. Due minacce mortali: la de-occidentalizzazione dell’Europa provocata dall’invasione di migranti musulmani e il finanziamento ai media digitali europei e americani da parte di ong antipatizzanti, Qatar e Cina, che eccita la narrazione anti-israeliana. E spingono Gerusalemme all’isolamento. Financo all’autarchia. Sparta che dovrà saper difendersi da sola perché secondo Netanyahu non appartiene a nessuno dei due blocchi, Occidente e Sud Globale. E fabbricarsi le armi supertecnologiche che non avrà più dall’amico americano in confusione.
La somma delle lacerazioni domestiche e delle pressioni internazionali avvicina l’ipotesi del collasso di Israele. Della sua lacerazione in staterelli tribali, visibile nelle vite parallele che scolari e studenti universitari conducono in ossequio al principio di omogeneità culturale e/o religiosa con la propria tribù. Già baluardo dell’Occidente progressista in partibus infidelium, lo Stato ebraico sta portando alle conseguenze estreme il percorso di mediorientalizzazione accelerato nell’ultimo mezzo secolo. Altro che impero israeliano, questa è assimilazione dei presunti dominatori da parte dei dominati. Non nuovo ordine, altro caos.
Le divisioni investono direttamente le istituzioni dello Stato. Le Forze armate, con il capo di Stato maggiore Eyal Zamir che critica il primo ministro e considera assurda la campagna di Gaza; il Mossad, servizio esterno, che rifiuta di assassinare i capi di Ḥamās riuniti a Doha, sicché il più servizievole servizio interno, Shin Bet, ci prova e fa fiasco. Intanto Bibi impone al suo vertice David Zini, ultrà nazional-religioso, suscitando le proteste di spie e militari, Zamir compreso. Mentre l’opposizione attende il sospirato cessate-il-fuoco per rilanciare le manifestazioni di massa a sostegno del potere giudiziario che Netanyahu vuol mettere in naftalina. Siamo già in campagna elettorale, con Naftali Bennet e Gadi Eisenkot in prima fila per un’alternativa moderata che potrebbe mettere in minoranza la coalizione pro Bibi, scossa dal Piano Trump, nel voto possibile a inizio 2026.
5. Nel volume di Limes intestato alla pace sporca abbiamo azzardato un indice di dilatazione bellica da 1 a 10 applicato alla probabilità che i teatri freddi (Cina contro Usa nell’Indo-Pacifico) e caldi (Ucraina, Israele) della Guerra Grande inneschino la terza conflagrazione globale in poco più di un secolo. Allo scenario mediorientale abbiamo assegnato un 6 su scala mondiale, che vale 10 per noi 11. Aggiornamento: l’allarme generale sale di un grado, quello per noi eccede ogni misurazione.
Le guerre di Israele sono e saranno sempre più dirimenti per la nostra sicurezza. In tempi e spazi indeterminati. Ecco perché consideriamo varcata la soglia del 10. Oltre c’è solo l’imprevedibile.
Tre forze nefaste si intrecciano fra loro e agitano la spirale in cui Israele e i suoi nemici si avvitano in vincolo esiziale. Razza, religione, rifiuto reciproco. Miscela che abbatte la ragione di Stato, invenzione dei nostri geni rinascimentali. Da allora deputata a imporre un limes alla guerra, prima che gli attori in causa, vincitori della partita militare compresi, ne escano distrutti. Lo Stato moderno fu concepito strumento per amministrare la quiete in casa, fare pace fra omologhi, terminare le guerre di religione. Potenzialmente infinite: puoi uccidere l’ultimo nemico, non il suo Dio.
La ragione di Stato è arte che in geopolitica si declina secondo contesto. Nel Grande Medio Oriente, specie tra Nilo ed Eufrate – territorio assegnato dalla Bibbia esclusivamente agli ebrei, spiegano i teostrateghi di Gerusalemme – la ragion di Stato non è di moda per carenza di Stati effettivi, dotati del monopolio della violenza. A rigore, solo Turchia, Iran e Israele esibiscono rango statuale. Due eredi legittimi di gloriosi imperi e il nuovissimo Stato degli ebrei, fondato nel 1948 da laici superstiti dell’Olocausto. Oggi in mano a chi si vuole discendente da re Davide, si rappresenta guida della razza superiore quindi invoca il diritto divino alla sua terra. Dai confini adattabili, mai definitivi. Sicché continua a combattere le battaglie della sua Bibbia, contro l’Amalek di turno, per essenza nemico degli israeliti in ogni tempo. Nell’ebraico c’è un gioco di parole tra zar (straniero lontano) e sar (nemico da cui proteggersi) che nell’esegesi del compianto cardinale Carlo Maria Martini, fine biblista, illustra «il senso di estraneità (degli ebrei, n.d.r.) verso i popoli vicini aggressivi e prepotenti» 12. Per capire chi, come gli ebrei ortodossi in missione divina, schiaccia il presente sul passato, i riferimenti alla Torà fanno senso. Ma se gli amaleciti fossero loro?
La strategia di Israele, espressione della sua ragione di Stato, è segnata dal senso di precarietà inscritto nella memoria di un popolo nei secoli perseguitato e in diaspora (carta 2), esiguo per numero, stretto in spazi minimi spesso invalicabili, circondato da nemici. Ogni giorno di vita in più è miracolo benedetto. Di qui la necessità di dotarsi di Forze armate superiori per tecnologia, combattività e armi, più l’atomica non dichiarata. Tzahal è addestrato per campagne rapide e molto visibili, dunque deterrenti, possibilmente su un fronte per volta e fuori dei propri confini. Trionfi o pareggi provvisori. Classiche «tosature dell’erba», soprattutto a Gaza e nel Libano meridionale. Destinate a ripristinare la deterrenza in crisi.

Il 7 ottobre 2023 sarà ricordato come il giorno in cui Israele ha scartato dalla sua ragion di Stato per gettarsi nelle terre incognite dell’irrazionalità. Dell’irrealtà. Contro il parere di gran parte delle Forze di difesa israeliane (Idf) e dell’intelligence, Netanyahu ha bollato minaccia esistenziale il massacro ordito da Ḥamās. Nella sua narrazione, l’organizzazione terroristica era capace di distruggere Israele. Tesi non fondata su analisi di teatro, ma sulla scelta di militarizzare cuori e menti degli israeliani in vista di una guerra dai tempi indefiniti. Al posto della geopolitica, corroboranti fantasie militariste. Dalle campagne limitate alla Vittoria Decisiva. Basta falciare erbacce. L’ordine del giorno è allargare lo Stato a Giudea e Samaria, riprendere il controllo di Gaza, avanzare nel Libano meridionale e nelle Sirie, far fuori l’Iran. Obiettivi da raggiungere distruggendo Ḥamās e trattando tutti i gaziani da corresponsabili dell’orrore del 7 ottobre. Gli arabi sopravvissuti saranno respinti oltre le nuove frontiere di Stato, in Egitto, Cisgiordania o altrove. Fine della questione palestinese.
Bibi ha un’idea sua dell’interesse nazionale, che ne stravolge la natura. Lo Stato in asserito pericolo di morte scade a feticcio cui tutto sacrificare. Nell’indifferenza per l’altro. Maligno da eradicare. Rifiuto. Tutto per il Grande Israele. O per nessun Israele?
Tale deriva prevede la disumanizzazione del nemico. Se combatti contro animali feroci, carnivori che si nutrono delle fibre tue e dei tuoi cari, tuo dovere è sterminarli. Altrimenti saranno loro a uccidere te. Siamo alla guerra totale. Slogan spesso esiziale per chi lo brandisce. Sta qui la nevrosi che spinge le guerre di Israele, indifferenti al primo comandamento della ragione di Stato: «Non distruggerai te stesso».
La disumanizzazione del nemico vige anche fra i palestinesi. Marchio e garanzia reciproca di guerre senza fine – né scopo né tempo – e viceversa. L’epiteto di «terrorista» che i duellanti applicano al combattente altrui è il primo passo nella reductio ad bestiam. Non se ne può dare definizione oggettiva: un giorno lo trovi nella trincea opposta, fra le sabbie del deserto o le rovine di Gaza, l’altro in Norvegia a ritirare con te il Nobel per la pace. Ma intanto è stigma che squalifica il nemico e abilita a trattarlo da subumano.
Due giorni dopo il pogrom del 7 ottobre, l’allora ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, stabilisce: «Stiamo combattendo bestie umane, e ci comportiamo di conseguenza» 13. Rincara nel maggio 2024 la deputata del Likud Tally Gotliv, già fautrice dello sganciamento di un’atomica sulla Striscia, arma segreta a misura di palestinese, innocua per l’ebreo attiguo: «Avete presente i pidocchi? Le loro uova? E poi ancora uova e uova di pidocchio? Questo sono Ḥamās e la Jihad islamica! Vanno trattati come tali. Sterminati. Con ogni tipo di trattamento, come quelli usati contro i pidocchi» 14. Il 28 luglio scorso, il rabbino Ronen Shaulov determina: «Tutta Gaza e ogni bambino di Gaza dovrebbe morire di fame per quello che ora stanno facendo agli ostaggi». Perché chi nasce sotto le bombe israeliane è un «futuro terrorista (…). E se qualcuno ha un problema per quello che ho detto, il problema è suo» 15. Nell’evocare la soluzione finale (anticipata), sfugge forse al rabbino che il suo postulato ridurrebbe Israele a paria nella storia universale. Ma quel che interessa gli israeliani che invocano lo sterminio degli «animali» è consentirsi qualsiasi mezzo per eliminare il nemico. Dalla deterrenza al genocidio.
La riduzione dell’avversario a bestia corre parallela in certa propaganda palestinese, non solo islamista. Nei tardi anni Ottanta, attorno alla prima Intifada, proclami di Ḥamās, Jihad islamica e Fatḥ trattano gli ebrei da «figli o fratelli di scimmie e porci» 16. Nel 1992 Yasser Arafat viene registrato su nastro mentre equipara gli ebrei a «cani» 17, epiteto riferito in privato dal suo successore Abu Mazen a Ḥamās. Trent’anni dopo, il consigliere per gli Affari religiosi del presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Maḥmūd al-Ḥabbaš, bolla gli ebrei israeliani «umanoidi», discendenti da «scimmie e porci» 18. Una ricerca scientifica sulla disumanizzazione simmetrica nella guerra asimmetrica, centrata sul conflitto del 2014 a Gaza, osserva che una maggioranza di israeliani considera i palestinesi più vicini ai nostri antenati quadrupedi che al sapiens sapiens, e viceversa. Gli israeliani interrogati si dicono pronti a uccidere 575 civili palestinesi per salvare la vita di un soldato ferito da un miliziano nemico. Sull’altro fronte, si concede moderata disponibilità a sacrificare la vita di un palestinese per salvare quattro bambini israeliani 19.
Stupisce che molti fuori di Israele e Palestina stupiscano di questi accenti. Forse non ne considerano la profondità storica. Già nel 1910, notabili di Nābulus si rivolgono alla Sublime Porta perché non li annetta al distretto amministrativo di Gerusalemme, «in modo da non venire infettati dal germe sionista» 20. Nel 1921, il sionista laburista Aharon David Gordon, classificato moderato, avverte: «Dobbiamo essere lucidi sul punto che tutti gli arabi sono contro di noi. Faranno di tutto per distruggere quel che abbiamo costruito e per sterminarci tutti, finché ne avranno il potere» 21. La tendenza a considerarsi reciprocamente superiori/inferiori sulla scala dell’umanità/bestialità si afferma indelebile a partire dalla rivolta araba del 1936. Né è tema esclusivo di estremisti religiosi. Dirigenti del Mapai, partito della sinistra laica, e del sindacato Histadrut rifiutano il dialogo con gli arabi perché impari: «Non dobbiamo abbassarci al loro livello, sono loro che devono elevarsi al nostro». Eppoi, abbiamo a che fare con «bestie del deserto» 22.
Le tregue si possono fare con chiunque, «bestie umane» incluse. La pace no. Chi si illude che la pace in Terrasanta possa stabilirsi in tempi men che biblici per coraggiosa iniziativa di futuri capi illuminati, trascura l’odio che da troppe generazioni accomuna ebrei e arabi di Palestina. E le narrazioni incendiarie che l’alimentano. Siamo alle prese con il più tragico dei «conflitti intrattabili», nella definizione dello psicologo politico israeliano Daniel Bar-Tar 23. Non si danno cure radicali, solo preziosi palliativi che salvano vite e offrono pause alle popolazioni in sofferenza. Tregue sporche. Molto meglio delle stragi.
Per noi è pericoloso illuderci. Possiamo solo portare la nostra piccola pietra alla sedazione del conflitto. Umanitaria, politica e culturale. Se utile anche con forze di interposizione dal valore comunque simbolico. Senza perdere di vista le conseguenze del maremoto geopolitico in corso. L’Italia è il mare. Senza, deperisce e muore.
6. La storia ci cambia geografia. Quindi dovremmo cambiare strategia. Se solo ne avessimo una. Seguono appunti per incentivarla.
In apparenza, siamo lo Stivale di sempre. Di fatto, la nostra esposizione alle minacce è stravolta dalla rivoluzione mondiale in corso. Investiti da forte vento di sud-est, ci riscopriamo quasi isola esposta alle tempeste in accumulazione da Levante, Penisola Arabica e Nord Africa. La depressione geopolitica nel nostro estero vicino tra Libie, Mediterraneo centro-orientale e Balcani obbliga l’Italia a ridisegnare le sue priorità di sicurezza. Per fare i conti con l’espansione marittima della Turchia neo-imperiale (carta 3 e carta a colori 5) accompagnata dal parallelo aggiramento russo della Nato da sud, mentre i cinesi li trovi dappertutto, casa nostra inclusa. E soprattutto con le guerre di Israele che rischiano di affondarci.


L’onda di tempesta sta innalzando il livello del mare lungo le coste siciliane, ioniche e adriatiche. Fuor di metafora, le nostre prospettive si fanno scure sul fronte medioceanico più che su quello continentale, peraltro prossimi a congiungersi. Sempre che follie collettive o incidenti mal gestiti non scatenino lo scontro fra «volenterosi» europei e russi, variazione finale sulle due guerre mondiali. Inglesi, nordici e baltici si sentono già in guerra con la Russia, quasi ne anticipassero l’invasione prevista per il 2029, mentre l’America sembra lavarsene le mani per eccesso di instabilità domestica. Quanto al Medioceano, a Trump interessa solo per quel che tocca Israele e relativi giacimenti energetici, inclusi quelli al largo della Striscia (carta 4). Più i faraonici progetti geo-immobiliari, tra Riviera di Gaza e altri miraggi.

È tempo di diventare adulti perché in queste emergenze ciascuno è confitto nelle proprie isterie. Per non finire fuori rotta, incontro a brutte sorprese, conviene geolocalizzarci entro le nuove coordinate, che ci obbligheranno a svelti colpi di timone. Primum vivere.
Dopo mezzo secolo di concentrazione sulla soglia di Gorizia in chiave antisovietica e l’intermezzo a cavallo dei millenni oggi siamo sulla soglia di Taranto. Punto di Archimede verso cui convergono le nubi della Guerra Grande. Occhio del ciclone dal quale studiare in vigile calma le correnti geopolitiche in avvicinamento. Capolinea dello strategico corridoio scandinavo-mediterraneo, rivalutato dalla tensione con la Russia. Oggi in crisi di traffico, anche se turchi e cinesi vi hanno investito parecchio negli scorsi anni. A conferma del suo rilievo geopolitico.
La rotta che connette lo scalo ionico a Porto Said, imbocco del Canale di Suez, traccia infatti l’architrave dell’area a maggior rischio per la nostra sicurezza, fra Libie e Sirie in avanzato stato di turchizzazione (carta a colori 6 – in apertura). A Taranto la Marina Militare vanta la sua storica base principale, condivisa con le flotte Nato, americana in testa (carta a colori 7). Per curiosa peripezia della storia, infine, abbiamo visto Netanyahu rivendicare – forse senza saperlo – un gemellaggio storico fra Taranto e Gerusalemme nel segno di Sparta: la prima fondata dagli spartani sette secoli prima di Cristo e alquanto refrattaria a Roma, l’altra «capitale eterna» di Israele, da Bibi ribattezzata Super-Sparta per esaltarne lo spirito militare 24. Scegliamo quindi la Torre dell’Orologio, fulcro della città vecchia, quale osservatorio ideale per scandagliare l’alta marea che ridisegna il nostro profilo geopolitico. Sguardo fisso sul quadrante sud-orientale della rosa dei venti, fra ostro e levante.

7. Il cambio di soglia svela il nostro tallone d’Achille. Siamo paese senza diretto accesso all’Oceano, vitale per chi non dispone quasi di materie prime mentre conta sull’esportazione dei suoi manufatti nel mondo. Tanto che abbiamo elevato un marchio commerciale – Made in Italy – a identità del nostro «sistema paese». Per il divertimento di chi ne trae conferma degli stereotipi intorno al Belpaese quale super-azienda del turismo. Tutto fuorché soggetto geopolitico. Né Sparta né Atene.
Per congiungerci alle rotte commerciali globali facendo perno sullo Stretto di Sicilia dobbiamo attraversare i passaggi che ne incanalano le acque verso occidente (Gibilterra) e oriente (Suez e Bāb al-Mandab via Mar Rosso). Oggi il choke point siculo è molto più turco che italiano, le colonne d’Ercole paiono solide eppure trascurate dal guardiano americano. Il connettore con l’Oceano Indiano è zona di combattimento su entrambe le sponde (carta a colori 8).

Bordeggiamo il limes di Caoslandia, dove le scintille del disordine accendono incendi spesso colposi, quindi ingovernati, talvolta dolosi, lungo antiche faglie. Il Mar Nostro è Altrui. Il mare liberum teorizzato da Grozio scolora verso il mare clausum. Solcato da contese che ne investono sia la superficie sia i misteriosi fondali, lungo cui corrono le condutture energetiche e i cavi Internet che ne disegnano le nervature di valore globale (carta 5). Per tacere delle dispute intorno alle Zone economiche esclusive, estensioni informali delle ambizioni di tutti gli Stati costieri, con la nobile eccezione nostrana. La finta legge internazionale significa legge della giungla. Le aree di influenza s’incrociano e sovrappongono. C’era una volta l’arbitro-giocatore a stelle e strisce uso fischiare giusto il suo gusto. Ne restano ombre corte, salvo luci intermittenti che si accendono quando il sempre più diverso gemello israeliano pretende soccorso.


La dimensione medioceanica del Mediterraneo è in crisi. Per gli attori euro-afro-asiatici che vi si affacciano le acque sono contendibili quali terre dalle frontiere liquide in eterno movimento. L’Italia rischia di soffocarne. Il traffico via Suez è ridotto della metà. Le grandi navi aggirano l’Africa virando al Capo di Buona Speranza. Siamo tornati indietro di mezzo millennio, al periplo di Vasco da Gama, primo esploratore della via delle Indie.
Scenario per noi drammatico. Anche se fossimo risparmiati dai combattimenti. Il mare nel quale siamo immersi pare in tempesta permanente. Fuori controllo, la territorializzazione competitiva delle acque di casa ci abbassa l’orizzonte. Medioceano addio? L’Italia rischia di finire risucchiata nell’ecosistema a destabilizzazione galoppante del Mediterraneo centrale e orientale, arcipelago di anarchie o staterelli fittizi esposti alle scorrerie di pirati allenati a vivere di guerra. Da frontiera meridionale di Ordolandia può volgere in avanguardia settentrionale di Caoslandia. In frizione con gli europei d’Oltralpe, saremmo per loro quel che sono oggi le Libie per noi. Nessuna America ci salverebbe.
Preoccupa il nostro grado di inconsapevolezza. Forse spiegabile con il paradosso per cui rispetto al patrono d’Oltreoceano e ai nostri maiores europei, Francia e Germania, in crisi sociale, istituzionale e identitaria come mai dopo il 1945, sembriamo godere di miracolosa esenzione. Non vogliamo ammettere di aver perso le nostre sicurezze. Lo sguardo a sud-est può svegliarci in tempo per attrezzare le contromisure possibili.
Per gli europei settentrionali, affacciati su Atlantico e Mare del Nord, nessun danno e molti vantaggi. In termini commerciali: il porto di Rotterdam vanta in undici mesi volumi superiori a quanti ne sommano in un anno tutti gli scali italiani messi insieme. Il peso geopolitico dell’Europa settentrionale è moltiplicato dalla dimensione nordica della sfida di Putin, sulle orme di Pietro il Grande, mentre la sua pressione sul Mar Nero, in memoria dell’altrettanto Grande Caterina, serve alla Turchia per raddoppiare il valore dei suoi Stretti eponimi, tra Bosforo e Dardanelli, contro cui da secoli si infrangono le velleità medioceaniche di Mosca.
Il tempo gioca a nostro sfavore. Russia, Cina e Stati Uniti si sfidano nelle immensità dell’Artico, contando sulla fusione dei ghiacci che entro un paio di decenni aprirebbe la superstrada boreale tra Pacifico e Atlantico. E noi mediterranei a fare il bagno nel lago salato di casa, tornato libero sì, ma dal naviglio commerciale. In questo scenario il «Mediterraneo globale» su cui insiste il nostro presidente del Consiglio – taglia extra-forte del «Mediterraneo allargato» battezzato dalla Marina e recepito in dottrina dalla Difesa – parrebbe controintuitivo. I continenti si frammentano e noi universalizziamo i mari?
A complicare la presa d’atto dei cambi di scena che tendono a sfavorirci tanto sul fronte Sud quanto su quello Nord, il doppio equivoco europeista e mediterraneista. Due ideologie che ci sono care. E caro ci costano. Però attraggono perché pongono l’Italia idealmente al centro di entrambi, Europa e Mediterraneo. La prima rappresentazione postula un sentire comune dalla Scandinavia a Malta e dal Portogallo all’Estonia. Dogma che implica un grado di volontarismo, meglio di fede. La seconda suppone affinità elettive che il grande storico francese Fernand Braudel sintetizzava così: «Che cosa è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre» 25. Descrizione che senza muovere virgola potremmo applicare all’orbe terracqueo.
Spinti da afflato ecumenico, noi italiani amiamo cucire le due religioni in una: euromediterraneismo. Coltivato per ammorbidire il nostro atlantismo ufficiale, troppo stretto e impegnativo per il neutralismo spontaneo che succhiamo col primo latte. E che in questa età rivoluzionaria ci mette fuorigioco. Non possiamo stare con tutti e con nessuno. Restare passivi, poi, non vale sconti da parte di chi partecipa alla competizione geopolitica – grossomodo il resto dell’umanità. Forse pensiamo che in tanto furiosa mischia valga la regola 11 del calcio per cui l’offside è punito solo se sei coinvolto nel gioco attivo?
Se c’è un tratto evidente all’alba di questo salto d’epoca è la vivisezione geopolitica d’Europa e Mediterraneo. Ritagliati in porzioni vieppiù esigue e ostili. Balcanizzanti 26. Archiviata la cortina di ferro antisovietica, sul continente se ne sta costruendo una longitudinale. Barriera antirussa, molto più avanzata verso est, che spartisce le Ucraine fra Kiev e Mosca lungo la variabile linea del fronte e si promette d’acciaio. Mentre le frontiere medioceaniche e costiere di Caoslandia si agitano attorno a incerte latitudini, in un contesto etno-tribale più che statuale. Differenza di fondo con Ordolandia, finché dura. Molte Europe, molti Mediterranei, nessun Euromediterraneo. Conferma della celebre sentenza di Marc Bloch: «L’Europa, io credo, è nata molto precisamente quando l’Impero romano è crollato» 27. Veneriamo i maestri del lungo periodo, che esaltano le continuità della storia e ne relativizzano le fratture. Ma in tempi di rivoluzione i tempi di reazione si accorciano in base alla velocità dei mutamenti. Non tutti gli europei sono medioceanici, noi lo siamo più di tutti. Non veri europei, dunque, per quei nordici che ci scrutano come i piemontesi aborrivano Napoli appena strappata ai Borboni. Ne guadagniamo in buon umore.
Certo l’Italia rimane dov’è sempre stata. Geofisica conferma. Ma geopolitica obietta: intorno a noi tutto è in frenetico movimento. Ne siamo storditi. Viene spontaneo ficcare la testa nella sabbia e sperare che passi la nottata. Amici cinesi, forse sviati dall’ammirazione per i nostri antichi, ci vedono aderire al precetto taoista del wuwei, armonica inazione, metafora dell’acqua sempre uguale a sé stessa. Assimilabile al latino gutta cavat lapidem. A suo modo, una strategia. Grati, smentiamo. Purtroppo è solo riflesso della passività accumulata negli ultimi ottant’anni di pace sotto altrui protezione.
Ci conforterebbe scorgere seguaci del maestro Laozi in missione tra le bellicose fazioni dell’arco di Caoslandia che punta verso di noi per spargervi il verbo della pazienza strategica. Aspettando i taoisti, siamo commossi e rallegrati dalle voci di due psicoanalisti, l’uno israeliano l’altro gaziano, che hanno voluto trasmetterci un loro scambio di messaggi, qui in appendice. C’è ancora sale in Terrasanta.
Note:
1. W. Shakespeare, Re Lear, Atto I, Scena IV.
2. Cfr. «Isratine», Muammar Gathafi original website, 1/4/2004.
3. Cfr. A. J. Guzman, «La marcia dei coloni e la sfilata di Rāmallāh», Limes, 10/2023, «Guerra Grande in Terrasanta», pp. 95-100.
4. Cfr. A. Shavit, «Top PM Aide: Gaza Plan Aims to Freeze the Peace Process», Haaretz, 6/10/2004.
5. Cit. in M. Mazower, On Antisemitism. A Word in History, London 2025, Allen Lane, p. 194.
6. Cfr. I. D. Cohen, «From Nixon to Netanyahu: Political Genius Arthur Finkelstein Lived a Double Life», Haaretz, 13/9/2022.
7. Cit. in M. Mazower, op. cit., p. 194.
8. Cfr. I. Pappé, La fine di Israele, Roma 2025, Fazi editore.
9. Cfr. M. Mazower, op. cit., p. 259. Omesso il nome dello storico.
10. Il testo non scritto della conferenza in questione è fruibile in video: «Shidur chai – Kenes Agaf Haheshbon Haklali Ledorotav, Sheni|15/09/25|10:30-15:30|Binyanei HaUma, Yerushalaim» (Trasmissione in diretta – Conferenza della Divisione del Ragioniere Generale [ministero delle Finanze, n.d.r.], Lunedì|15/09/25|10:30-15:30|Binyanei Ha Uma [Centro congressi internazionali, n.d.r.], Gerusalemme).
11. Cfr. «Fiat mundus, pereat iustitia», editoriale di Limes, 7/2025, «La pace sporca», pp. 7-32.
12. C. M. Martini, Giustizia, etica e politica nella città, Milano 2017, Giunti Editore-Bompiani, pp. 1802 s.
13. Cfr. N. Resh, «Calling Gazans Vermin is More Than an Insult – It’s a Strategy of War», Haaretz, 20/9/2025.
14. Ibidem.
15. «Israeli Cleric Rabbi Ronen Shaulov calls for starvation of all civilians in Gaza», Trt World, YouTube, 28/7/2025.
16. A.M. Oliver, P.F. Steinberg, The Road to Martyrs Square. A Journey into the World of the Suicide Bomber, Oxford 2006, Oxford University Press, pp. 101 s.
17. J. Barry, «Outrage Over Arafat’s Taped Insults», The New York Times, 13/2/1992.
18. «Abbas’ advisor on Islam: Jews are humanoids… apes and pigs», Palestinian Media Watch, 20/5/2024.
19. Cfr. E. Bruneau, N. Kteily, «The enemy as animal: Symmetric dehumanization during asymmetric warfare», Plos One, 26/7/2017.
20. N.J. Mandel, The Arabs and Zionism Before World War I, Oakland (CA) 1976, University of California Press, p. 173.
21. Lettera di A. D. Gordon a Yosef Sprinzak, 26/5/1921, in A.D. Gordon, Mikhtazim ve’reshimot (Lettere e scritti), Jerusalem 1954, Ha’sifriya ha’tzionit, p. 139.
22. Cfr. M. Chazan, «Mapai and the Arab-Jewish Conflict, 1936-1939», Israel Studies Forum, Winter 2009, Vol. 24, No. 2, pp. 28-51.
23. Cfr. D. Bar-Tal, La trappola dei conflitti intrattabili. Il caso israelo-palestinese, Milano 2024, Franco Angeli.
24. Vedi nota 10.
25. F. Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni, Milano 2008, Bompiani, p. 43.
26. Il lettore ci perdonerà se non entriamo nella querelle sui confini d’Europa, di cui anche per carenza di netti segni fisici si danno versioni diverse. Esercizio semplificato, per la ragione opposta, nel caso del Mediterraneo.
27. M. Bloch, «Problèmes d’Europe», Annales d’histoire économique et sociale, t. VII (1935), p. 476. Per i cultori della cabala: il numero 476 corrisponde tanto all’anno della fine dell’impero romano d’Occidente quanto alla pagina del tomo annaliano.


