Anamnesi del piano Trump

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Antonella Caruso
Fonte: Limes

Anamnesi del piano Trump

Analisi dei dettagli e delle omissioni del progetto lanciato dal presidente americano. Il buio oltre la prima fase. Hamas non disarma né abbandona Gaza. Il rischio di una guerra civile palestinese.

Donald Trump non ce l’ha fatta a conseguire il premio Nobel per la pace. E a giusta ragione. Nonostante l’indubbio successo diplomatico conseguito con la firma dell’accordo IsraeleHamas per la liberazione di tutti gli ostaggi israeliani in cambio del rilascio di duemila prigionieri palestinesi, il suo piano di pace in Medio Oriente rimane al momento un ennesimo cessate-il-fuoco temporaneo. Il terzo dall’inizio della guerra nell’ottobre 2023.

Molto si è già scritto sui meriti straordinari dell’azione originale del presidente americano, poco avvezzo alle lungaggini dei negoziati politici tradizionali e ai dettagli delle questioni spinose che essi intendono risolvere pacificamente. Il presidente ha sempre fretta. Il suo metodo transattivo ha attualmente una sua efficacia negoziale e un’innegabile presa mediatica. Ma è l’abbaglio di notizie flash e di dichiarazioni dirompenti a indurre a guardare oltre, in quelle pieghe del suo piano di pace rimaste volutamente ombrate, che potrebbero dare origine a interpretazioni diverse e discordanti tra le parti coinvolte nel negoziato e spingerle ad arrestarlo pericolosamente.

Il piano Trump prevede tre fasi. Accettato nella sua interezza dal governo israeliano, è stato invece approvato parzialmente da Hamas, il quale ha ottenuto il consenso delle fazioni alleate soltanto sulla prima delle tre fasi.

 

La prima fase, attualmente in corso, ha richiesto la cessazione immediata delle ostilità e il ritiro parziale dell’esercito israeliano fuori dai centri abitati per consentire a Hamas di raggruppare, in 72 ore, i 48 ostaggi da consegnare – vivi e morti – al Comitato internazionale delle Croce Rossa, e di accogliere, tra i duemila prigionieri palestinesi menzionati dal piano, coloro che ritorneranno nella Striscia. A rilascio avvenuto, sarà dato il via agli aiuti umanitari. L’accesso e la distribuzione dovrebbero essere coordinati tra le organizzazioni umanitarie e l’esercito israeliano, fintantoché un’amministrazione locale – che non sarà legata né a Hamas né all’Autorità nazionale palestinese (Anp) – sia velocemente costituita e approvata.

Questa è l’unica fase del piano ad avere una chiara sequenza temporale. Tuttavia Hamas potrebbe avere difficoltà a reperire i corpi degli ostaggi deceduti, presupponendo così un possibile ritardo nella loro consegna e aprendo, di conseguenza, una finestra di incertezza e di tensione nel negoziato. Questo ritardo può infatti diventare un primo punto critico del piano Trump, in considerazione sia della sfiducia tra le parti sia della facoltà israeliana di riprendere le ostilità, qualora il movimento islamista non ottemperi alle sue obbligazioni.

Le pressioni americane su Israele e quelle arabe e turche su Hamas saranno cruciali per smussare le intransigenze di entrambi e assicurare che il rilascio venga completato senza pregiudicare l’esecuzione delle altre fasi del piano. Sembrerebbe che il recentissimo coinvolgimento turco nel negoziato Egitto-Qatar-Hamas a Sharm al-Shaykh sia stato richiesto dal presidente americano anche con lo scopo di affrettare la localizzazione dei cadaveri.

 

La seconda fase del piano Trump rigetta la partecipazione di Hamas nell’amministrazione della Striscia e ne richiede il disarmo e la distruzione delle infrastrutture militari, tra cui i tunnel – che hanno sostenuto la sua economia sommersa e la sua forza militare.

Con l’obiettivo di annientare ogni qualsivoglia minaccia alla sicurezza di Israele, e riconosciuta l’impossibilità di “de-hamasizzare” Gaza, il piano offre un’amnistia ai combattenti e ai seguaci del movimento palestinese che intendono rimanervi. Dovranno quindi deporre le armi e abiurare l’ideologia islamista sulla base del riconoscimento e della coesistenza con lo Stato di Israele. L’esilio, volontario o forzato, è destinato invece a coloro che si ostinano a rifiutare l’offerta. Il disarmo dei combattenti e la stabilizzazione delle aree evacuate da Hamas saranno il compito di una forza di stabilizzazione internazionale (Fsi) temporanea, araba e islamica, che prenderà gradualmente il posto dell’esercito israeliano e avrà anche il compito di formare la polizia locale, l’unica presenza permanente a Gaza.

La smilitarizzazione della Striscia sarà invece monitorata indipendentemente, mentre – secondo il New York Times del 9 ottobre – un contingente statunitense di 200 soldati comincerà a mettere in piedi in Israele un centro di coordinamento che, costituito di esperti militari, politici e umanitari, garantirà la corretta esecuzione del cessate-il-fuoco, dell’assistenza umanitaria e del supporto alla sicurezza. Sarà una missione civile-militare di back-stopping.

Si prevede inoltre che Israele mantenga il controllo della gran parte del territorio e che si ritiri fra la seconda e la terza fase soltanto se i parametri della sicurezza lo consentiranno. Ciò fino a una zona cuscinetto che si estende lungo tutto il perimetro della Striscia. Se ne deduce che Gaza finirà per essere controllata militarmente dalI’Fsi fino a quando il processo di smilitarizzazione si completerà e la polizia palestinese sarà in grado di riscattarne i compiti di sicurezza interna. La Fsi sarà quindi circondata dall’Idf, la cui presenza potrebbe diventare invece permanente. Entrambe, Fsi e Idf, dovrebbero fare capo al centro di coordinamento americano in Israele.

 

Carta di Laura Canali - 2025
Carta di Laura Canali – 2025 

 

Amministrativamente, la Striscia sarà invece gestita da un governo locale transitorio preposto a garantire l’erogazione quotidiana dei servizi e ad avviare la ricostruzione. Costituito di tecnocrati palestinesi indipendenti e di esperti internazionali, sarà supervisionato dal Consiglio della Pace, autorità internazionale presieduta dal presidente Trump, che darà anche le linee direttive per il piano di ricostruzione e la gestione dei fondi per lo sviluppo del territorio.

In sintesi, il governo americano si mette alla testa di un mandato internazionale su Gaza che durerà fintantoché una nuova autorità palestinese potrà prenderne le funzioni. A differenza dei precedenti, questo mandato a conduzione americana non godrà della legittimazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, di cui farà comunque volentieri a meno.

Si tratta a ben vedere di una fase particolarmente complessa che, pur porgendo il calice della vittoria al governo israeliano, rischia tuttavia di contaminarlo con una resa di Hamas imperfetta ed incompleta. Il movimento palestinese, che pure ha accettato di non partecipare all’amministrazione transitoria di Gaza, rifiuta infatti di deporre le armi e di lasciare che il governo della Striscia sia posto sotto tutela straniera.

Seppure fortemente indebolito, militarmente e politicamente, Hamas ha ancora una volta conseguito la “sua” vittoria sopravvivendo a un quinto e ancora più devastante conflitto con il potente esercito israeliano. Sulle macerie di Gaza e con il sangue di circa settantamila vittime, Hamas ha altresì ottenuto la promessa di un cessate-il-fuoco permanente e del ritiro israeliano da una gran parte del territorio, mentre la sua forza armata rimane capace di nuocere sia alla sicurezza di Israele sia alla stabilizzazione di Gaza e alla coesione della sua popolazione.

 

 Carta di Laura Canali - 2025
 Carta di Laura Canali – 2025 

 

In questo contesto, il suo disarmo da parte di un contingente arabo-musulmano potrebbe trasformarsi in uno scontro “fratricida” perpetrato all’ombra della persistente occupazione israeliana, parziale o transitoria che sia, e incensare la sua “resistenza” contro traditori e occupanti assieme. Così come potrebbe fomentare una guerra civile – come in Iraq a seguito dell’invasione americana del 2003 –  se le sue armi si volgono contro i clan e i gruppi armati che, alleati dell’esercito israeliano, ne hanno finora accompagnato operazioni umanitarie e di sicurezza.

Osserviamo infatti, accanto al ritorno del personale civile di Hamas nelle operazioni di ripristino dei servizi essenziali e nella distribuzione degli aiuti umanitari, anche l’inizio della resa dei conti con clan opposti al suo governo a Gaza¹. La frammentazione politica e militare palestinese rischia di spargere altro sangue e di provocare altre dispersioni all’interno dell’inferno gaziano, così aumentando la pressione di masse disperate sul confine egiziano e trasformando una tenue pace in un miraggio sfocato e lontano.

Ed è in particolare l’Egitto, che ha preso la guida del negoziato dopo il recente attacco israeliano contro i leader di Hamas a Doha (Qatar), a voler scongiurare questo scenario per il timore degli effetti nefasti dell’instabilità di Gaza sia sulla risoluzione della questione palestinese sia sui suoi ingenti piani di sviluppo nella penisola del Sinai. Non stupisce quindi che la diplomazia egiziana sia al lavoro da giorni per avviare un dialogo di riconciliazione tra le fazioni e i partiti palestinesi al Cairo, con la speranza che questa volta esso riesca non soltanto a smussare le tensioni interne ma, anche e soprattutto, a creare il consenso su quel governo locale temporaneo che sarà preposto ad amministrare la Striscia.

 

 

La terza fase del piano Trump, quella della maturità, si inaugurerà con il ritorno dell’Autorità nazionale palestinese insediata in Cisgiordania – o in quanto resterà di quel territorio – la quale, riformata all’ombra del protettorato americano, sarà considerata idonea ad assicurare la gestione, lo sviluppo e la sicurezza della Striscia di Gaza. Il ritorno dell’Anp a Gaza non sembra tuttavia essere sufficiente a garantire la creazione di uno Stato della Palestina indipendente e unito.

Il piano afferma infatti che soltanto quando la ricostruzione della Striscia sarà arrivata ad uno stadio avanzato e l’Anp avrà completato il suo programma di riforme, “le condizioni potrebbero essere idonee per un percorso credibile verso lo Stato palestinese, che si riconosce essere l’aspirazione del popolo palestinese”. L’amministrazione americana si farà quindi carico di avviare un dialogo di riconciliazione israelo-palestinese che abbia come obiettivo la ricerca di un “orizzonte politico di coesistenza pacifica”.

Questa fase manca a ben vedere di parametri definiti per il processo di riforma interna dell’Anp e di una tabella di marcia che ne scandisca i possibili traguardi. Analogamente, essa è priva di dettagli sul “percorso credibile” verso la creazione dello Stato di Palestina lasciando ambiguo l’uso dell’aggettivo “credibile” che, non accompagnato dal complemento di termine, non definisce quale autorità o agente dovrà validare quel percorso: sarà il Consiglio della Pace, o forse i paesi arabi sostenitori del piano, o infine il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite?

Stridente è anche la mancanza di ogni riferimento alla Cisgiordania, dove la violenta azione dei coloni e l’espansione di colonie e avamposti israeliani si coniugano con la volontà dichiarata del governo ultranazionalista e ultrareligioso di Benjamin Netanyahu di annetterla, tutta o in parte. Il piano di Trump, che pure contiene l’esplicita negazione dell’annessione di Gaza e dell’emigrazione forzata dei suoi abitanti, resta invece muto sul futuro della Cisgiordania che dello Stato palestinese possibile e ancora auspicabile sarà, insieme con la Striscia di Gaza, parte integrante e insostituibile.

 

 Carta di Laura Canali - 2024
 Carta di Laura Canali – 2024 

 

Il presidente americano ha captato correttamente il sentimento dominante in Israele, contrario alla creazione di quello Stato e restio a riconoscere nel palestinese oltre il Muro di sicurezza un partner della pace. È altrettanto evidente che Trump condivide quel sentimento. Prova ne è l’assenza di palestinesi nell’elaborazione del suo piano, o meglio di quell’Autorità nazionale palestinese in Cisgiordania che li rappresenta ufficialmente fin dal 1994 e che pure si è affrettata a sostenerlo. Il presidente americano non l’ha difatti mai incontrata durante il suo primo mandato e nemmeno nel corso di quello attuale. E la neglige a tal punto da non curarsi di proiettare la benché minima immagine di neutralità – essenziale per il ruolo di broker in un possibile negoziato di pace – quando, nell’annunciare ufficialmente il suo piano il 29 settembre scorso, lo ha fatto alla sola presenza del premier israeliano, alla sua quarta visita alla Casa Bianca dall’inizio dell’anno.

Ma a dispetto delle sue falle e lacune, questo piano americano ha già fermato l’assalto israeliano alla città di Gaza, ha fatto tacere le armi e si appresta a liberare ostaggi e prigionieri aprendo uno spiraglio di luce nel tragico e difficile percorso verso la pace. A poco serve adesso soffermarsi sui suoi obiettivi reconditi: forse un nuovo ordine regionale migliore di quello precedente o forse, più banalmente, la difesa di affari e di commesse con i paesi arabi del Golfo.

Si può solo auspicare che il piano non duri soltanto settantadue ore e che si prolunghi fino a diventare un cessate-il-fuoco permanente. La realizzazione di questo auspicio dipenderà più che mai dall’attenzione e dal coinvolgimento del presidente americano in tutte le fasi del suo piano. L’America di Trump, mercuriale, frettolosa e sfrontata, si corona ciononostante come il broker essenziale e insostituibile della pace ancora possibile in Medio Oriente. E con la pace vicina, il suo presidente potrà finalmente meritare il Nobel oggi negatogli.

 

Antonella Caruso è consigliere scientifico di Limes, già direttore per il Medio Oriente e l’Asia occidentale del dipartimento Affari politici delle Nazioni Unite.

 

Note: 

1. Rushdi Aboualouf, Hamas mobilizes fighters in Gaza as fears of internal violence mounts, BBC News, 11/10/2025.

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