Il nipote di Arafat: «La Palestina ai palestinesi»

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Nella Scavo
Fonte: Avvenire

Il nipote di Arafat: «La Palestina ai palestinesi»

Nasser al Kidwa per 15 anni è stato il volto della sua terra all’Onu: «Ora un piano di pace c’è, ma non ha vinto né Israele né Hamas. Gli Usa? Hanno agito per salvare Netanyahu»

Da mesi è indicato come l’uomo per Gaza. Non solo perché a Gaza è nato 72 anni fa. È il palestinese che piace agli Usa e che in Israele coltiva un rapporto quasi fraterno con l’ex premier Ehud Olmert, con cui ha messo a punto un anno fa un piano di pace secondo la soluzione dei “due Stati”. Nasser al Kidwa per quindici anni è stato il volto della Palestina all’Onu, e nel Dna ha un patrimonio che nessuna fazione palestinese si sente di profanare. È il nipote di Yasser Arafat. Un’eredità da custodire senza il timore di passare una mano di vernice. Anche se dirlo gli è costata l’espulsione da Fatah, il partito al governo in Cisgiordania. Fino a pochi giorni fa, quando il diplomatico palestinese che vive tra New York e Ramallah è stato riammesso con il voto di 12 dirigenti su 15 nell’ufficio di direzione. Ieri a Ramallah c’era la coda per festeggiarne il ritorno tra i ranghi. Una festa come sarebbe piaciuta allo zio Yasser. Poco sfarzo e molti abbracci. Ci sono anche giovani, nella folla di anziani tutti con qualche anno di prigione israeliana alle spalle. L’ha conosciuta anche lui, per cinque anni dopo la prima intifada del 1980. Si affaccia in sahariana blu, tra gli hotel dove si dà appuntamento la classe dirigente e la folla sulla strada che porta alla Muqata, il quartier generale di Abu Mazen, con cui la riconciliazione ha un sapore politico e affettivo.
Dopo due anni è stato concordato un cessate il fuoco in più fasi che, nelle premesse ufficiali, dovrebbe prima di tutto fermare il bagno di sangue. Come ci si è arrivati?
Prima di tutto perché Israele ha capito di non essere riuscito a vincere la guerra.
Sta dicendo che ha vinto Hamas?
No, che Israele non abbia vinto non significa che la vittoria sia stata di Hamas. Ma il fatto è che per la prima volta Israele non è uscita con la piena vittoria. Perciò credo che questo sia stato il vero intento dell’intervento di Washington.
In altri termini?
Gli americani hanno dovuto agire per salvare Israele che non sapeva come uscire dalla guerra.
E adesso cosa accadrà?
Non lo sappiamo, ma di certo ci troviamo davanti a una situazione nuova. Il piano del presidente Trump sta andando avanti. La prima fase è stata completata e bisogna entrare nella seconda. Qui però bisogna essere chiari: non c’è ancora unità di intenti nel definire ciò che è necessario fare.
Si riferisce alla comunità internazionale in generale o agli attori regionali?
A me sembra che gli arabi non mostrano di avere fiducia gli uni negli altri, e questo porta a non trovare una posizione unitaria, ad esempio a proposito di Hamas e del governo della Striscia di Gaza, della sicurezza, come per quello che è il tema chiave: la soluzione politica che è quella dei due Stati.
Lei vede un futuro per Hamas dopo quello che è successo?
Penso che si dovrebbe aprire la porta alla trasformazione di Hamas in un partito a cui dovrebbe essere permesso di partecipare alla vita politica palestinese. Più che di consegnare le armi (espressione che non può funzionare perché i palestinesi ricordano che in passato dopo avere consegnato le armi sono stati massacrati), vorrei si parlasse di trasferire le armi sotto il controllo di un’autorità riconosciuta. E poi bisognerebbe parlare ai giovani e dare loro una concreta speranza di futuro.
E come si fa a dialogare con Hamas? Il presidente Abu Mazen (Mahmud Abbas) li ha definiti “figli di cane”. Pensa che accetteranno dei colloqui con l’autorità palestinese?
Quando loro si lamentano perché Abbas non vuole parlargli, gli rispondo: “Chi vuole parlare con voi? Chiunque parlasse con voi perderebbe politicamente. Quindi dovete anche voi fare dei passi nella giusta direzione, e non far assassinare o uccidere persone, come abbiamo visto anche ieri a Gaza”. È pazzesco. Non si giustiziano le persone.
I 20 punti dell’accordo di pace non creano le premesse per una soluzione duratura?
Il piano di pace c’è, piaccia o no. Ma mancano ancora i dettagli per attuarlo. Questo vuol dire che bisognerà negoziare ancora, a cominciare proprio dal futuro di Hamas e dal ruolo dei palestinesi.
Che posto avranno secondo lei? Il “comitato” di transizione dovrebbe essere coordinato da Tony Blair. E poi?
I palestinesi e la terra palestinese devono essere governati solo dai palestinesi. Non posso accettare alcuna entità straniera che governi sui palestinesi.
Si parla di una lista di nomi per la gestione di Gaza. C’è anche il suo?
Non parlo di nomi, ma di metodo. Ci occorre saper scegliere le persone non secondo la loro collocazione politica. Il criterio non deve essere l’affiliazione. Non si tratta di indicare qualcuno perché aderisce a Fatah, ad Hamas o altri. Bisogna scegliere perché quella persona, donna o uomo, sia capace di svolgere il lavoro a cui sarà chiamato. Questo ci serve. Non per forza dei “tecnocrati”. Il presupposto sono le capacità, e se ha svolto attività questo non dovrebbe essere un ostacolo.
Ma lei conosce le liste di cui si parla?
In realtà c’era più di un elenco di proposte e di nomi. Alcuni anche piuttosto discutibili, altri anche molto simpatici. Ma quello che occorre è un elenco di persone rispettabili, capaci, non per forza personalità “apolitiche”.
Dicono che lei sia pronto non solo per Gaza ma anche per le elezioni presidenziali a Ramallah, quando un giorno verranno indette per il dopo Abu Mazen. Si sente pronto?
È troppo presto per parlarne.
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