BERLINO 1989: MURI CADUTI DI IERI, SPERANZE CADUTE DI OGGI

per Malanra Malanra
Autore originale del testo: Franco Cardini
Fonte: Minima Cardiniana

1989. MURI CADUTI DI IERI, SPERANZE CADUTE DI OGGI
In pieno 1942, isolato in una Berlino impegnata nello sforzo bellico mentre sempre più chiaro appariva che il conflitto stava orientandosi verso un esito sfavorevole al Reich, un Carl Schmitt ormai abbandonato dalle sue illusioni – ammesso che se ne fosse mai davvero fatte – vergava l’ultima pagina del suo saggio Terra e mare: una pagina che, per il suo carattere profetico, sembra scritta mutatis mutandis adesso: “Viene a cadere […] il nomos della terra in vigore fino ad oggi. Al suo posto cresce, inarrestabile e irresistibile, il nuovo nomos del nostro pianeta. Lo invocano le nuove relazioni dell’uomo con i vecchi e nuovi elementi, e lo impongono le mutate dimensioni e condizioni dell’esistenza umana. Molti vi vedranno solo morte e distruzione. Altri crederanno di essere giunti alla fine del mondo. In realtà ci troviamo soltanto alla fine del rapporto tra terra e mare invalso finora. Eppure la paura umana del nuovo è spesso grande quanto la paura del vuoto, anche quando il nuovo rappresenta il superamento del vuoto. Perciò molti vedono solo un disordine privo di senso laddove in realtà un nuovo senso sta lottando per il suo ordinamento. Non vi è dubbio che il vecchio nomos stia venendo meno, e con esso un intero sistema di misure, di norme e di rapporti tramandati. Non per questo, tuttavia, ciò che è venturo è solo assenza di misura, ovvero un nulla ostile al nomos. Anche nella lotta più accanita fra le vecchie e le nuove forze nascono giuste misure e si formano proporzioni sensate”.
Può darsi che quelle righe, vergate quasi ottant’anni fa, appaiano oggi troppo ciniche, o legate con una fredda e quasi chirurgica considerazione “obiettiva” della realtà, o animate al contrario da un ottimismo non granché giustificato in un pensatore tedesco che le scrivesse nel ’42 e che avesse coscienza, oltretutto, delle sue compromissioni e delle sue corresponsabilità con il regime hitleriano dal quale stava irreversibilmente allontanandosi il favore delle armi.
Tra il 4 e l’11 febbraio del ’45 a Yalta i due veri vincitori della seconda guerra mondiale e colui che ne restava in fondo il vincitore morale, cioè lo statunitense Franklin D. Roosevelt e il sovietico maresciallo Iosif Stalin insieme con il britannico Winston Churchill – il quale non ignorava affatto che quell’atto di morte del nostro continente coinvolgeva anche il suo paese, candidato ormai all’eclisse come grande potenza – si accordarono sulla finis Europae.
Yalta, la Positano degli czar: i pini, gli aranci, i limoni, gli oleandri, i vini dolci e spumanti, il suono della balalaike tanto simile a quello dei mandolini. In questo pittoresco angolo di paradiso della Crimea, già colonia genovese nel medioevo e famoso per le ville della nobiltà russa immerse in fiabeschi giardini e per quello splendido film realizzato nel 1960 da Iosif Chejfic, La signora dal cagnolino, si consumò sessant’anni fa il tentato assassinio dell’Europa. I tre esecutori di esso li vediamo ancora immortalati nelle tante, celebri, citatissime foto: ammettiamo pure che uno di loro, il britannico, fosse solo responsabile di concorso in omicidio, non proprio assassino. Gli altri due erano anche, al tempo stesso, mandanti. Ma forse non erano gli unici.
D’altronde, i delitti perfetti non esistono. Per fortuna, fallì anche quello. Le premesse per commetterlo – avviate più o meno un quarto di secolo prima a Versailles e portate avanti dal Totentanzer Adolf Hitler – c’erano però tutte. La memoria è un dovere, come ci viene ricordato quotidianamente. Ricordiamola dunque con lucidità, quell’infamia i postumi della quale sono stati per fortuna quasi del tutto metabolizzati: del resto lealmente riconoscendo ch’essa era la conseguenza in un certo senso obbligata di una lunga, pluridecennale, addirittura secolare sequela di orrori e d’infamie fin lì perpetrati.
Si trattava di discutere l’assetto del continente europeo all’indomani della fine del conflitto, che appariva ormai prossima. I “tre grandi” si accordarono sulla spartizione della Germania in quattro zone d’occupazione, assegnandone tre ai loro rispettivi paesi e la quarta alla stessa Francia, formalmente assente dall’incontro in quanto la sua neobelligeranza gollista non aveva cancellato la sconfitta e l’armistizio del ’40, che dal conflitto che ora si stava concludendo la manteneva formalmente fuori: ma appunto con quella presenza ambiguamente “recuperata” si ribadiva così la continuità di Yalta rispetto a Versailles e al tempo stesso si vendicava la vergogna della sconfitta francese di cinque anni prima.
Nei confronti dei tedeschi, i capisaldi dell’accordo tra i vincitori prevedeva una dura e sistematica campagna di denazificazione, la punizione dei criminali di guerra, la smilitarizzazione e un pesante piano di riparazioni economiche: tuttavia, la decisione sulla sorte definitiva della Germania si rimandava a una conferenza di pace che sarebbe stata, in seguito, rinviata a tempo indeterminato. In un certo senso, lo smembramento della nazione sconfitta appariva quindi tacitamente inteso come definitivo.
Se le cose si fossero fermate qui, sarebbe stato comunque chiaro che lo specifico e diretto scopo della conferenza era di punire duramente la Germania e di fondare in piena Europa umiliata e smembrata l’egemonia e la presenza armata di due superpotenze extraeuropee. Yalta si situava sulla linea delle paci sette-ottocentesche e di quella di Versailles, caratterizzate dal concetto che i vincitori d’un conflitto hanno il diritto di accaparrarsene premi e vantaggi e che i confini e le genti ad esso interessate si trattano come oggetti prescindendo dalla loro volontà e dai loro diritti storici. Una pace esattamente come Versailles: pensata cioè – contrariamente ai suoi dichiarati princìpi – per farla obiettivamente finita con la pace futura e per seminare dunque le ragioni di possibili guerre future. In che misura e fino a che punto i tre protagonisti di essa ne erano coscienti?
Ma si andò purtroppo oltre. Non era esattamente il “tramonto dell’Occidente”, come aveva preconizzato più o meno un quarto di secolo prima Oswald Spengler: l’Occidente – proprio così come dal secolo prima lo concepivano e lo preconizzavano gli intellettuali statunitensi –, senza l’Europa e addirittura contro l’Europa, era essenzialmente il continente americano, schierato contro il vecchio mondo su una linea che dal “progetto Monroe” giungeva dritta alla guerra di Cuba.
A Yalta non era stato spartito solo il continente europeo: era scomparsa la compagine europea come entità sovrana. Il suo territorio fu in realtà diviso non già in quattro, bensì in due aree d’influenza, secondo le ragioni e gli interessi di tipo strategico, ideologico e geopolitico dei due effettivi vincitori extraeuropei entrambi, USA e URSS. Non si era salvato niente né nessuno. Il destino della Polonia – per difender la quale inglesi e francesi avevano pur dichiarato guerra a Hitler – fu sacrificato per mezzo di un provvedimento ipocrita, che aggiungeva al danno la beffa: il suo territorio metropolitano fu difatti allargato, spostandone a ovest i confini (anche se gli accordi specifici su quel punto furono rinviati alla conferenza di Potsdam del luglio successivo); ma al tempo stesso, con il riconoscimento del governo comunista di Lublino, gli alleati occidentali abbandonavano quel disgraziato paese a Stalin che già se n’era aggiudicato nel ’39 la metà con la complicità di Hitler. “Perché Roosevelt e Churchill non si opposero all’infame diktat del dittatore sovietico?”, si scandalizza ancor oggi qualche ipocrita. Ma è chiaro non solo che non ne avevano la possibilità materiale, dal momento che l’Armata Rossa occupava fisicamente già quei territori, bensì anche ch’essi erano intanto occupati a imporre in Grecia, con la forza, un governo conservatore contro la volontà della maggioranza dei greci. Insomma, fu un baratto.
D’altronde, che Stalin – il quale aveva ripreso chiaramente la politica di spinta degli czar verso il Mediterraneo – rinunziasse alla Grecia, mentre tramite i regimi comunisti che là si stavano insediando s’impadroniva di tutta l’area carpatico-danubiano-balcanica, consentì quantomeno a statunitensi e britannici di reclamar garanzie a proposito dei confini dell’Italia, che sarebbe rimasta sotto la loro influenza, rispetto ad Austria e Jugoslavia, candidate a passar sotto quella del loro potente e temibile interlocutore. In cambio, Roosevelt pretese che i sovietici entrassero in guerra contro il Giappone: e Stalin accettò con riluttanza, ma in cambio di buoni compensi territoriali come Sahalin e le Curili. In tal modo si annullavano le conseguenze della sconfitta russa nella guerra contro il Giappone del 1905: ancora una volta, nel più spregiudicato stile dei trattati sette-ottocenteschi.
Qualcosa di nuovo si fece comunque, sempre sul modello di Versailles. All’indomani di esso, Wilson aveva proposto il suo progetto di “Società delle Nazioni”; Roosevelt, seguendone il copione, presentò un piano per la costituzione di un’Organizzazione delle Nazioni Unite, in effetti istituita poco dopo, con la conferenza di San Francisco del 24 maggio successivo che varò la “Carta dell’ONU”, del resto già anticipata dai princìpi di “democrazia universale” della carta dell’Atlantico del 14 agosto 1941.
L’equilibrio stabilito a Yalta fra statunitensi e sovietici, i nuovi padroni del mondo, era quello di una “brutale alleanza”: e la successiva Guerra fredda non solo ne avrebbe messo allo scoperto l’iniquità, ma ne avrebbe dimostrato la debolezza. Comunque, durò a lungo. E fu, per noialtri europei, solo grazie al coraggio e alla costanza di alcuni nostri uomini politici, quali Alcide De Gasperi, se la divisione dello spazio politico fra Atlantico e Urali in un “mondo libero” a Ovest e un “mondo socialista” a Est, cioè la cancellazione effettiva e formale dell’Europa, non funzionò.
In effetti, la prospettiva di chi ha vissuto i decenni della Guerra fredda non era quella del pessimismo. Il quarto di secolo dall’inizio degli anni Sessanta alla metà degli anni Ottanta del Xx secolo fu per molti versi decisivo a livello di storia mondiale. Si aprì sulle prospettive di giustizia sociale indicate da papa Giovanni XXIII nell’enciclica Mater et Magistra, che preludevano al Concilio Vaticano ii inaugurato nell’ottobre del ’62, e – dopo la crisi determinata dal tentativo d’installazione di missili sovietici a Cuba – proseguì con la breve ma intensa stagione delle speranze di pace che in tutto il mondo sembravano garantite dall’azione congiunta e convergente di papa Giovanni, del presidente John Fitzgerald Kennedy e di Nikita Krusciov. L’enciclica Pacem in Terris, del 1963, parve siglare questo momento: ma preluse alla scomparsa di quel pontefice, quasi immediatamente dopo, e nel novembre successivo alla tragica morte del presidente Kennedy in un attentato, mentre l’anno dopo nell’URSS cadeva Krusciov, sostituito dalla lunga era “neoconservatrice” di Leonid Breznev.
Erano anni di speranza. Nel “ciclo economico” di quel periodo, e in special modo per l’Italia, si parlava di un boom, per quanto il paese fosse molto scosso, nel ’62, dall’“incidente” ch’era costato la vita a un organizzatore imprenditoriale come Enrico Mattei. Erano gli anni dei grandi successi di Leonardo Sciascia, di Giorgio Bassani, di Carlo Emilio Gadda, nell’urss del dissidente Aleksandr Solzenicyn: ma già si annunziava, con l’inizio dei bombardamenti aerei statunitensi sul Vietnam del Nord dell’estate del ’64, la nuova fase di tensione mondiale che si stava aprendo. La guerra “dei sei giorni” in Palestina, nel ’67, e quindi il generale indurirsi del conflitto vietnamita, mentre in Cina si avviava nel 1966 la “rivoluzione culturale”, condussero a un lungo momento d’inquietudine il cui segno immediato fu – dalle “rivolte studentesche” negli li Stati Uniti (Berkeley) alla Francia (il joli mai parigino del ’68) alla stessa Italia – lo scoppiare della “contestazione giovanile”, che assunse il fatidico nome di “Sessantotto” ma che continuò per tutti gli anni Settanta aprendo la strada agli “anni di piombo”, la lunga e feroce stagione degli attentati inaugurata il 12 dicembre del 1969 da quello milanese della Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana, che costò 16 morti e una novantina di feriti. Si parlò allora di “piste rosse”, di “piste nere”, di “strategia della tensione”; si assisté al costituirsi, alla sinistra del PCI, di numerose formazioni estremistiche e, nel ’70, alla rivolta “populista” di Reggio Calabria e ai due episodi praticamente contemporanei dell’approvazione della legge sul divorzio e di un tentativo di golpe politico-militare di estrema destra nel quale parvero implicati i “servizi” del regime militare dei “colonnelli” greci.
La crescita del malessere dovuto al terrorismo e all’insicurezza che serpeggiava nel paese, insieme con l’inquietudine causata dall’affermarsi di modelli repressivi che sembravano trionfare dalla Grecia al Cile all’Argentina, indusse nel settembre-ottobre 1973 il segretario del PCI Enrico Berlinguer a farsi fautore della linea del “compromesso storico” tra comunisti, socialisti e cattolici, tesa sia a render impossibili eventuali soluzioni golpiste della destra, sia ad arginare l’ondata di simpatie extraparlamentari di sinistra che pareva interessare soprattutto i giovani e cresceva di pari passo con la “tentazione terroristica”, come si vide proprio a Genova con l’esecuzione da parte delle “Brigate Rosse”, nel ’76, del magistrato Francesco Coco; d’altro canto il terrorismo di destra si faceva a suo modo sentire con l’uccisione del magistrato Vittorio Occorsio, nel medesimo anno, da parte di un commando di “Ordine Nuovo”.
Dopo il “delitto Moro” del 9 maggio del ’78, comunque, la classe dirigente italiana pose fine agli indugi. Quella specie di guerra civile interna al mondo progressista nella quale del resto si proiettava in qualche modo l’inimicizia tra URSS e Repubblica Popolare Cinese, doveva trovare uno sbocco politico. Intanto, sul piano dell’ordine pubblico, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro erano stati un punto di ormai intollerabile “non-ritorno”, al quale del resto avevano tenuto dietro, fra ’77 e ’80, gli omicidi del giornalista Casalegno, del magistrato Alessandrini, dell’ufficiale dei carabinieri Varisco, del sindacalista Rossa, del dirigente FIAT Ghiglieno, dal magistrato Bachelet, del giornalista Tobagi.
Era troppo. Nel 1980, un distaccamento speciale di carabinieri agli ordini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa eliminava la “colonna genovese” delle “Brigate Rosse”. Ma gli assassinii politici non si arrestarono: il 2 agosto 1980 si ebbe la strage della stazione di Bologna, sulla quale mai si sarebbe in realtà fatta piena luce; fra 1981 e 1985 sarebbero ancora caduti l’ingegner Taliercio, l’economista Tarantelli, lo stesso generale Dalla Chiesa, il senatore Ruffilli. La paura di quegli anni sarebbe culminata, il 13 maggio del 1981, con l’attentato a papa Giovanni Paolo II: un’altra pagina oscura relativamente alla quale il mondo sembra essersi rassegnato all’ignoranza.
Frattanto, anche il panorama politico internazionale cambiava vistosamente con l’ascesa alla Casa Bianca di Ronald Reagan, la progressiva affermazione di “Solidarnosc” in Polonia, l’avvio sia della crisi in Afghanistan, sia del nuovo regime repubblicano e islamico in Iran, la vittoria del socialista Mitterrand in Francia.
Nell’agosto del 1983 il socialista Bettino Craxi inaugurava il suo governo appoggiato a un pentapartito, che si affermava anche attraverso un serrato duello col Partito Comunista, colpito poco tempo dopo, nel giugno dell’84, dalla precoce, inattesa scomparsa di Enrico Berlinguer.
La metà degli anni Ottanta – era “reaganiana” e “thatcheriana” – si caratterizzò come quella della rapida eclisse della visione sociale del mondo e dell’altrettanto rapido insorgere di una serie d’istanze a carattere liberale e liberistico che, ritenute a lungo minoritarie se non addirittura residuali – fin da quando, all’indomani della crisi del 1929, in America come in Europa ci si era orientati nella direzione del welfare state mentre d’altronde in una metà del mondo trionfavano sistemi socialisti e addirittura collettivistici –, sembravano ora rivelare d’un tratto la loro debolezza e inadeguatezza.
Nel marzo del 1985 era assurto all’ufficio di segretario generale del PCUS un personaggio che si presentava come il coraggioso fautore di un rinnovamento all’interno del sistema sovietico: Michail Gorbaciov, iniziatore di riforme alla luce della glasnost (“trasparenza”) e della vera e propria perestroika (“cambio d’indirizzo”). La fine del socialismo in Polonia e l’impantanamento dell’URSS in quella campagna afghana che sembrava sempre più trasformarsi in un “Vietnam sovietico” suggerivano l’adozione di drastiche misure vòlte non già – come fu detto con opposte intenzioni da duri denigratori interni e da entusiastici ammiratori esterni – ad affossare definitivamente, bensì a salvare il socialismo sovietico. Nel febbraio dell’86 Gorbaciov aprì il XXVII Congresso del PCUS criticando con molta durezza la troppo lunga “era Breznev”, con ciò significando ch’essa si era chiusa per sempre; al tempo stesso, egli indirizzava alla volta degli USA una sfida epocale, quella dell’abolizione bilaterale e concordata di tutte le armi atomiche entro il 2000. Ma naturalmente il governo statunitense non aveva alcuna intenzione di disfarsi del suo formidabile arsenale, che anche in Italia aveva provocato la reazione del presidente Craxi e del suo ministro degli Esteri Andreotti, contrari a un impiantarsi di ordigni nucleari in Sicilia. Si preferì presentare la proposta di Gorbaciov come un immenso bluff: e perdere così un’occasione storica irripetibile, alla quale peraltro era stato forse ingenuamente utopistico guardare come a qualcosa di realizzabile.
Il disarmo era comunque uno dei grandi obiettivi politici, morali e propagandistici di Michail Gorbaciov, che trovò in ciò un naturale ma – viste le rispettive origini di ciascuno di loro – insperato ed energico alleato in Giovanni Paolo II: fra 1987 e 1989 Gorbaciov e Reagan trovarono un accordo relativo all’eliminazione dall’Europa dei missili di entrambe le parti. Ma il collasso del sistema sovietico impedì di procedere su quella strada.
Nel 1989 l’ultima reliquia dell’iniqua costruzione ideata sul Mar Nero, il Muro di Berlino, venne cancellata: frattanto, l’Europa era risorta ed era divenuta Unione Europea. Nonostante Yalta e contro Yalta. Quel che Schmitt andava lucidamente scorgendo allora – e descrivendo con parole che parrebbero quasi perfettamente attagliarsi ai giorni nostri – era, attraverso la notte della guerra, l’aurora del nuovo nomos che si sarebbe affermato nel 1945 per tramontare oltre mezzo secolo dopo, nel 1989, alla fine del “secolo breve”.
Questa sembrava, all’indomani del 9 novembre, e ancor più negli anni appena successivi, la prospettiva sul futuro, almeno quella più auspicabile. Forse aveva sul serio ragione Eric Hobsbawm: il XX secolo è stato davvero un “secolo breve”, finito con il disgregarsi dell’impero sovietico, simbolo del quale è stata la caduta del Muro. Lo festeggiammo un po’ tutti o quasi: Francis Fukuyama giunse a parlare di “fine della storia”, anche se poi si è ricreduto.
Tuttavia, la speranza da tanti riposta in un’Unione Europea che proprio in quel momento cresceva con la prospettiva (com’è avvenuto) di allargarsi all’est, è stata largamente tradita. Il 25 dicembre del 1991 il presidente Gorbaciov, contro il quale si era organizzato nell’agosto precedente un golpe risolto a vantaggio del suo diretto avversario Boris Eltsin, annunziava le sue dimissioni. La gloriosa bandiera dell’URSS veniva ammainata: nasceva, al posto della vecchia Unione, la Confederazione degli Stati Indipendenti (CSI) sotto l’egemonia d’una Federazione Russa a sua volta ridotta a potenza regionale.
Il colossale sistema di potere organizzato circa quarantacinque anni prima, dal “Patto di Varsavia” al COMECON fino alle lontane frontiere sudorientali dell’Asia, cadeva a pezzi nel giro di un paio d’anni lasciando dietro di sé confusione, insicurezza e un vuoto di potere nel quale si precipitavano i più incontrollati e avventuristici appetiti di lobbies internazionali in cerca di profitti, mentre si assisteva al risorgere di ambizioni e di passioni etniche ritenute ormai – a torto – da decenni morte e sepolte. L’epoca del controllo e del containment reciproco tra le due superpotenze era tramontata: chi aveva sperato che la fine della diarchia mondiale USA-URSS aprisse un periodo di pace e di prosperità fu costretto amaramente a ricredersi. Sintomaticamente, tra 1990 e 1992 l’ONU riuscì sì a metter fine alla guerra civile in Cambogia, ma non seppe risolvere la crisi irakeno-kuwaitiana se non con le armi e assisté impotente sia alla dissoluzione della Jugoslavia, sia alle ripetute repressioni del governo israeliano nei confronti dei palestinesi. Anzi, da lì cominciò, dopo quello avviato nel ’39, il nuovo Totentanz che dura ancora: prima crisi del Golfo nel 1991, macello nei Balcani, nuova Intifada, incalzare del terrorismo “islamista” (uso questo termine, seguendo l’indicazione di Gilles Kepel, per indicare quei gruppi dottrinari che si servono dell’Islam come di un’ideologia politica). Dopo la pubblicazione, da parte di Samuel Huntington, del suo “profetico” (in realtà programmatico) Clash of Civilizations, un gruppo d’intellettuali e di “consiglieri politici”, fra i quali abbondavano gli ex-trotzkisti, inviò nel 1997 all’allora presidente Clinton un documento, il PNAC (“Project for a New American Century”), nel quale si proponeva – neomarxianamente – di smetterla di contemplare il mondo e di cominciare a cambiarlo, naturalmente secondo i princìpi e gli interessi degli Stati Uniti. Il punto è che alcuni tra i firmatari di quel documento, al quale non pare che Clinton attribuisse grande importanza, divennero poi la punta di diamante del think tank del suo successore alla Casa Bianca.
All’inizio del nuovo millennio, poi, le cose sono ulteriormente peggiorate: l’attentato (dai contorni ancora dubbi) alle Torri Gemelle di New York, la guerra in Afghanistan e poi di nuovo quella in Iraq (entrambi i conflitti sostanzialmente non sono nemmeno conclusi), la destabilizzazione della Libia e della Siria, la nascita dell’ISIS-Daesh sono eventi che, mentre si gioiva per la caduta del Muro di Berlino, non avremmo mai immaginato. Le speranze riposte allora nella capacità dell’Europa di unirsi fra Est e Ovest sono vanificate: la politica aggressiva nei confronti della Russia sembra condurre a una sorta di neo-Guerra fredda mitigata solo dagli interessi economici che legano molti paesi europei alla potenza eurasiatica. A sua volta, l’Europa appare divisa al suo interno da interessi contrastanti, con il caso eclatante del Regno Unito e della Brexit ancora lontano dal risolversi in modo chiaro: ma, in generale, la fiducia nell’Europa unita sembra ormai minata in tanti paesi che pure l’avevano accolta con favore e speranza. Vero è che la Germania ormai unita è tornata a svolgere il ruolo di motore dell’economia, se non della politica, che le era stato proprio già in passato, e che se il Regno Unito dovesse davvero uscire dall’UE, non potrebbe che aumentare. Tuttavia, dinanzi a un mondo percorso dalle tensioni belliche, dalle politiche militari aggressive degli Stati Uniti, da nuovi equilibri che si vanno delineando – come il Patto di Shanghai fra Russia, Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, Pakistan, India, forse tra un po’ Afghanistan e Mongolia: insomma, buona parte dell’Asia continentale –, è proprio il sentimento europeista che, all’indomani del 9 novembre 1989, aveva entusiasmato tanti fra noi a uscire sconfitto.
Quanto fin qui richiamato non è affatto il puro e semplice abrégé di eventi ben noti. La demolizione del maledetto muro che dal 1961 spezzava in due il cuore di Berlino e dell’Europa, quel commovente ed esaltante 9 novembre 1989, sembrava davvero aprire una nuova, decisiva e definitiva fase nella vita del continente e di quella Comunità Economica che il 1° novembre 1993, con l’entrata in vigore del trattato di Maastricht, era trasformata in Unione Europea. In meno di quattro anni, il cammino verso l’unità politica del continente sembrava finalmente aver imboccato la dirittura d’arrivo. Ma di quale “Unione” si stava parlando? Dov’erano le linee di un impianto costituente? D’accordo: una compagine politica può reggersi anche senza una costituzione, com’è dimostrato dai casi del Regno Unito e dello stato d’Israele. In tali contesti, però, un forte e coerente cammino storico avviato da tre secoli prima oppure un profondo legame linguistico-religioso sigillato dal sacrificio della shoah costituivano una garanzia fondante d’intenso valore. Nulla del genere esisteva nell’“Arcipelago Europa”, nonostante la lunga storia comune e il comune patrimonio di radici, di sofferenze, di auspici e di speranze.
Dalla metà degli anni Sessanta, il nostro gruppo di alcune centinaia di militanti di Jeune Europe, sparsi in tutto il continente, avevamo lavorato seguendo le linee di fondo ispirate da Jean Thiriart alla costruzione di un “nazionalismo sociale europeo”: ma ci eravamo gradualmente convinti che la storia policentrica e plurilinguistica del nostro continente, complicata dal processo di secolarizzazione e dalla crescita inarrestabile dell’individualismo, non avrebbe mai potuto condurre all’esito unitario e centralistico da Thiriart auspicato per la “Nazione Europea” ch’era la sostanza del suo sogno. Quella avviata da De Gasperi, da Adenauer e da Schuman – e che non era la stessa auspicata dal “Manifesto di Ventotene” – era stata una sia pur generosa “falsa partenza”. L’unità politica, sotto concreta forma federale o – più realisticamente – confederale, era ancora tutta da costruire. Tempo prezioso era andato perduto, sforzi formidabili erano stati sprecati: la fatica di Sisifo doveva cominciare di nuovo. Ogni europeo aveva e ha la sua Heimat, il suo cuore profondo fatto di miti, di memoria, di tradizioni; la storia delle nazioni – radicate nell’antichità e nel medioevo, ma sviluppate e articolate solo nel corso dell’età moderna – aveva fornito alcuni di loro (non tutti: esistono anche le “nazioni negate”, le “lingue tagliate”) di un Vaterland; il senso di “comunità di destino” emerso in lunghi secoli d’incontri e di scontri, di affinità e di differenze, e culminato nella “guerra dei Trent’Anni” 1914-1945 e nei reiterati esperimenti mai riusciti di costituzione di una “terza forza” alternativa alla convergente e complementare inimicizia-spartizione sovietico-statunitense degli anni della Guerra fredda, dovrebbe averci ormai insegnato che il comunitario riconoscerci in un Grossvaterland europeo, e quindi la costruzione di un “patriottismo europeo”, non sono ulteriormente dilazionabili. “Patriottismo europeo” come sentimento intimo da tradurre in valore civico: se non intendiamo arrenderci, è questa la sfida che ci aspetta. Ora che tutto è più difficile e che la mèta sembra essersi irrimediabilmente allontanata. Utopia? Tale non è l’irraggiungibile, l’irrealizzabile: è, semplicemente, il non raggiunto, il non realizzato.
Novembre 2021, in un mondo impaurito dal clima impazzito, dall’inquinamento che avanza, dalla foresta di armi nucleari che fioriscono dal Mediterraneo al Pacifico.

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