Fonte: Il Fatto Quotidiano
Dem e 5S trovino l’intesa per superare la destra
L’Appello unitario affinché non si consegnasse la Regione Lazio alla destra – firmato da autorevoli personalità come Barca, Giorgio Parisi, Montanari, De Masi, Ferraioli e sottoscritto da migliaia di cittadini – non è stato raccolto. Lo si può comprendere: la situazione era già pregiudicata. Non è una buona ragione per archiviarlo. Esso trascende il caso del Lazio, riveste un valore nazionale, ha dalla sua realismo, razionalità, responsabilità. Lo si è osservato a valle del 25 settembre (in realtà era già chiaro a monte): non solo ragionando sui numeri – la destra non ha sfondato, ha raccolto i suoi voti di sempre, solo redistribuiti al suo interno; le forze alternative vantano un consenso equivalente, semplicemente si sono autolesionisticamente divise – ma anche considerando che le divisioni politiche e programmatiche a destra non sono inferiori a quelle a sinistra. Ove, volendolo, una mediazione e una sintesi non era e, a mio avviso, non è impossibile. Certo, ora tutto è più difficile, la sconfitta acuisce le divisioni e gli egoismi di partito e un po’ tutti sembrano rassegnati a non prendere iniziativa unitaria alcuna in attesa delle elezioni europee del 2024. Le quali, a loro volta, per definizione (la regola proporzionale), esalteranno i particolarismi.
Un documento animato dalla medesima ispirazione unitaria fu stilato già nell’ottobre scorso (alcuni dei firmatari sono i medesimi). Si raccomandava di fare tesoro della bruciante lezione e di – era il titolo – “ripartire insieme”. La premessa era ed è decisiva altrimenti non ci si capisce: convenire sulla circostanza che tutte le forze alternative alle destre, senza eccezione alcuna, hanno subito una disfatta. Di che altro c’è bisogno considerando l’esito, ovvero il governo più di destra in Europa? Possiamo pensarla diversamente alla luce dei suoi primi passi? Ci si indirizzava a tutte le forze democratiche e di sinistra. Ma in particolare, pur senza menzionarli, a Pd e M5S. Quale era il messaggio? Dove sta tuttora la sfida per loro? Circa il partito di Conte – questo il chiaro sottinteso – si deve vincere una doppia tentazione.
La prima: quella di iscriversi tra i vincitori. Vero è che sono stati smentiti quanti davano per estinto il Movimento; che Conte ha condotto una efficace campagna elettorale; che il M5S, a dispetto della legione dei suoi detrattori, si conferma un attore politico non effimero. E tuttavia il profilo che Conte gli ha conferito – quello di un partito progressista se si ha remore a chiamarlo di sinistra – non può che iscriversi tra gli sconfitti di una tornata elettorale che ha premiato la destra di Meloni.
Seconda tentazione: la pretesa di intestarsi il monopolio del campo progressista. Esso è assai più largo, specie nella società. Come si è visto, per esempio, nella manifestazione per la pace del 5 novembre. In misura cospicua, quel mondo è confluito nel non voto. Lo stesso Pd, ben oltre il suo gruppo dirigente e, a volte, nonostante esso, non va dato per perduto, se si pensa a tanti elettori, militanti, amministratori. Incredibilmente fedeli. E qui, appunto, l’attenzione va volta all’identità irrisolta di un partito sospeso alle prese con il suo congresso. Per il Pd, semplificando, la sfida sta nel battere presunzione e conservatorismo. Penso a chi, reiterando il “ma anche” veltroniano, che forse aveva un senso nel quadro di un “partito pigliatutto” e di un sistema quasi bipartitico, si rifiuta di “prendere parte”, di operare scelte che di necessità discriminano gli ideali e gli interessi da rappresentare. Una pretesa/presunzione che in parte spiega il malsano istinto governista del Pd, quasi a prescindere da programmi e alleati. Vi sottende l’idea che il Pd sia, per diritto divino, il dominus del campo progressista o addirittura l’ombelico dell’intero sistema politico. Penso a chi (vedi caso gli stessi che si oppongono alla estensione al voto online per il leader), brandendo come un feticcio la Carta dei valori Pd del 2007 (un testo necessariamente “concordista” e comunque figlio di un tempo culturalmente e politicamente remoto), semplicemente non vuole cambiare nulla. Come se nulla da allora e tanto più ora, dopo la disfatta, fosse accaduto. Riproponendo, del Pd, l’identità pratica già nota e sconfitta.
Uno spunto utile al chiarimento congressuale lo ha fornito di recente Pagnoncelli con riguardo alla base sociale rispettiva degli elettorati di Pd e dei M5S: operai 9% al Pd e 20 al M5S; disoccupati 13 al Pd e 26 al M5S; più poveri 9 al Pd e 28 al M5S; giovani 16 al Pd e 22 al M5S. C’ è chi dice che vi sia un nesso stretto tra i soggetti sociali rappresentati e l’identità politica. Si può diffidare di Conte, ma non disdegnando un confronto-dialogo-cooperazione, che non esclude ma anzi contempla una sana competizione emulativa, per rappresentare quei ceti sociali. L’ancoraggio ai quali è nel Dna della sinistra. Salvo rassegnarsi entrambi, Pd e M5S, a una misera contesa a due (a somma zero) a tutto vantaggio della tranquilla, incontrastata navigazione della destra al governo.


