Fonte: La Stampa
Destra e patriarcato, le ombre del Circeo
L’orrore che covava nella «fascisteria» dei ragazzi bene impedì manipolazioni
Il brutale assassinio di Giulia Cecchettin è per i tempi nuovi quello che fu la strage del Circeo per la mia generazione: uno spartiacque, un delitto che segna un prima e un dopo, con la più solenne sconfessione di quanti si cullavano nell’idea che la sopraffazione e la violenza sulle donne fossero figlie del disagio e della marginalità, qualcosa che non riguarda le vite «perbene». Quasi mezzo secolo dopo l’omicidio di Rosaria Lopez e il tentato omicidio di Donatella Colasanti la riflessione più amara riguarda la percezione collettiva dell’evento. Nessuno, all’epoca, avrebbe neppure immaginato di rimbeccare una parente delle vittime che chiama in causa la cultura patriarcale. Nessuno avrebbe difeso o addirittura proposto come consulente di rango l’autore di un libro che mette alla pari, sullo stesso piano, l’aggressività predatoria degli uomini e la cattiveria delle donne in un capitolo intitolato «Il diavolo è anche donna». Nessuno avrebbe puntato l’indice sulla «caccia al maschio» – come ha fatto ieri un quotidiano vicino alla destra – anziché sull’evidente caccia alla femmina ribelle testimoniata dal numero dei femminicidi.

Siamo tornati indietro? Sì, ed è successo anche a destra, perché non ammetterlo? All’epoca della strage del Circeo la scoperta dell’orrore che covava nella «fascisteria» dei ragazzi bene dei Parioli azzerò ogni istinto manipolatorio della verità, zittì ogni battuta, nessuno mise in dubbio il diritto del mondo femminista a sfilare, protestare, additare le responsabilità sociali e culturali di quell’aggressione, persino presentarsi parte civile nel processo. Fu silenzio, riflessione dolorosa. Alla superstite della strage, diventata ascoltata e inflessibile testimone delle battaglie contro la violenza, sempre a testa alta malgrado la durissima esperienza subita, qualche anno dopo fu addirittura offerta una candidatura a Roma. Risultava inimmaginabile, allora, anche a destra la discussione che abbiamo visto di recente in tanti casi di stupro sulla leggerezza delle ragazze che si accompagnano a sconosciuti, l’alcol e le droghe, o addirittura sulle colpe delle madri «anormali« che non sanno educare le bambine.
Oggi la leader della destra Giorgia Meloni ha una storia personale lontanissima dall’ancella del patriarcato, come ci ha tenuto a testimoniare nel tweet che la ritrae con nonna, mamma e figlia: un oggettivo matriarcato che ha cresciuto una personalità capace di affermarsi a prescindere dagli uomini, dimostrando radicalità nell’affrontare i comportamenti ambigui pure di chi le era più vicino. Ma una parte del mondo che la circonda, pezzi della sua maggioranza e soprattutto i referenti mediatici che costruiscono la sua narrazione nei talk show e sui social, hanno un imprinting diametralmente opposto: lo si è visto con chiarezza dal braccio di ferro indecente che molti hanno ingaggiato, fin dall’inizio, con la sorella di Giulia arrivando al punto di definirla «satanista», senza concederle nemmeno il diritto che spetta a ogni vittima di un atto così mostruoso: quello di dare la sua versione, di esporre i suoi pensieri.
Serve formazione scolastica, certo. Ma serve anche educazione politica e segnali incontrovertibili di distanza verso chi cavilla persino sull’espressione «femminicidi», negando la specificità di un reato che un’esperienza di sangue ci ha insegnato a riconoscere, o ancora si oppone alla ratifica europea della Convenzione di Istanbul al solo scopo di vellicare gli istinti maschilisti di una parte dell’elettorato. L’equazione tra destra e patriarcato dovrebbe risultare inaccettabile e inaccettata dall’intero mondo che lavora alla costruzione delle nuove egemonie culturali e che si fregia di aver portato per la prima volta una donna al vertice delle istituzioni italiane. E dovrebbe esserci, soprattutto, la consapevolezza che l’assassinio di Giulia segna una linea di confine oltre la quale ogni giustificazionismo dei violenti e ogni scarso credito ai timori delle donne non è più ammissibile, da parte di nessuno, perché il dibattito sulla violenza maschile da ora in poi non sarà più teorico o ideologico: risulterà come cinquant’anni fa un dibattito sulla vita e sulla morte delle ragazze, e si dovrà decidere da che parte stare.


