Fonte: i pensieri di Protagora...
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È bellissima Smyrna, è ancora una bambina che raccoglie fiori nei giardini del grande palazzo e gioca con le sue compagne, ma ormai il suo corpo è quello di una donna. Sua madre vede lo sguardo con cui il padre osserva le forme di Smyrna, che il peplo non riesce più a nascondere. E sa cosa succederà, perché Cencreide conosce bene suo marito e sa che non si fermerà, che il desiderio sarà più forte di qualunque altra cosa, spezzerà ogni limite, anche il più sacro. Quando la donna lascia il palazzo per partecipare alle cerimonie in onore di Demetra, sa che sarà proprio quella notte. Non ha neppure il coraggio di guardare sua figlia, di salutarla un’ultima volta. Cencreide non si sbaglia. L’uomo ha deciso, ha già trovato la complice, che per paura o per avidità, quella notte porterà Smyrna nella sua camera.
Lo so, né l’autore della Biblioteca, né Igino, né Ovidio raccontano la storia in questo modo. Dicono che è stata Smyrna a innamorarsi del padre, punita da Afrodite perché un giorno si è rifiutata di fare un sacrificio o perché la madre ha peccato dicendo che la ragazza era più bella della stessa dea. E che la nutrice ha propiziato quell’incontro incestuoso per salvare la vita alla giovane, che altrimenti si sarebbe suicidata. E naturalmente che il padre non sapeva: tutto si è consumato al buio. O secondo un’altra tradizione, che è stato fatto ubriacare. Lui credeva soltanto che fosse una giovane della stessa età della figlia: è stato ingannato, poveretto. E infatti, dopo nove notti, quando ha scoperto la verità, si è così infuriato da voler uccidere la figlia colpevole di un tale delitto. No, mi dispiace, non credo a questa versione così rassicurante e comoda per noi maschi, in cui l’uomo è l’unico innocente.
Il mito racconta che alla fine Smyrna muore. Anzi che benignamente gli dei l’hanno trasformata in un albero di mirra. Poco prima che il padre la raggiunga e così l’uomo non può che sfogare la propria rabbia su un tronco. Ma Smyrna è rimasta incinta e da quell’albero nasce un bambino. Come dice Ovidio
at male conceptus sub robore creverat infans
Adone è un mortale e i mortali devono appunto morire. Ares è geloso di quel giovane effeminato per cui Afrodite ha perso la testa. Mentre il giovane è a caccia – o meglio gioca alla caccia – il dio si trasforma in un orrendo cinghiale e uccide Adone. Afrodite è disperata: Zeus a questo punto non può che sancire quello già deciso da Calliope. Adone rimarrà solo per una metà dell’anno nell’Ade, mentre l’altra metà tornerà sulla terra.
E questi giorni che stanno intorno all’equinozio raccontano, ogni anno, il ritorno di Adone. Ci fanno tirare un sospiro, perché il peggio è passato, ma raccontano anche una storia di violenza e di morte.
Ce lo ricorda Ovidio. Afrodite dal sangue di Adone fa crescere dei fiori del colore del sangue.
Ma è fiore di vita breve:
fissato male al suolo e fragile per troppa leggerezza,
deve il suo nome al vento, e proprio il vento ne disperde i petali.


