E’ morto Gianni Mura storica “firma” di “La Repubblica”, indimenticabili i suoi racconti sul tour de France – “Le parole più belle di tutti”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Maurizio Crosetti/ Malcom Pagani e Andrea Scanzi / Matteo Spini
Fonte: La Repubblica, Il fatto Quotidiano, L'Eco di Bergamo, Storie di Calcio-Altervista.org
Il ricordo di Gianni Mura
Prima le persone e poi le parole, e lui le parole le aveva bellissime, le più belle di tutti. E andare, andare sempre a guardare. Parlare con gli altri, osservare i dettagli, gli oggetti, le forme e le tinte delle cose. Scrivere, quello viene dopo. Scrivere, diceva Gianni, è come cucinare, ma conta molto di più fare la spesa. Quando hai le cose giuste sul tavolo, quando al mercato hai scelto bene, poi i piatti vengono buoni per forza.
Gianni, mi spieghi come giocava Peirò? Gliel’ho chiesto l’altro ieri sera al telefono, quando Gianni mi disse che aveva ancora una discreta scorta di Settimana Enigmistica e Domenica Quiz, e poi sul comodino la saga familiare di Giorgio Fontana, “un bel Sellerio spesso così”, e un giallo di Robecchi. Com’è Robecchi?, gli ho chiesto. Non male, mi ha risposto Gianni. E poi ha cominciato a parlarmi di Peirò, di come nell’Inter giocasse quasi solo in Coppa, di quel gol al Liverpool naturalmente. E poi mi ha parlato delle matite e dei pennarelli, mi ha detto che era stato giusto scriverne su Repubblica. Lui, le matite le usava per i cruciverba. Gianni Mura mi ha insegnato che scrivere è prima di tutto leggere, ed è ascoltare una canzone. E’ curiosità degli altri, altrimenti cosa scrivi a fare. Scrivere è ricordare, certo, ma anche immaginare. Gli piaceva quella cosa della nostalgia del futuro, quella malinconia che ci prende quando le cose non ancora accadute ci mancano già.
Da Gianni ho imparato che una coppa di pesche e spumante è formidabile contro la febbre alta. Lui mi curò così, una notte, nel nostro mondiale tedesco del 2006, tornati a Dusseldorf da Dortmund. Era la sera della semifinale vinta. Febbre a 39°, viaggio in treno in piedi, caldo torrido. Poi, nel bar deserto dell’albergo quell’insalatiera piena di pesche e spumante, lasciata lì chissà perché, come un sogno, un’invenzione. Ci sedemmo, bevemmo, mangiammo. Poi una dormita biblica, e la mattina freschi come rose.
Da Gianni ho imparato che in qualunque posto del mondo bisogna creare casa: la trattoria, il giornalaio, il fruttivendolo. Se ci torni ogni giorno, sei a casa. E bisogna mandare cartoline, non lettere ma cartoline, alle persone che amiamo. Lui alla sua Paola ne mandava sempre, da qualunque posto del mondo. Il fruttivendolo è molto importante. Bisogna comprare un po’ di frutta la mattina delle partite in notturna perché poi, tornati in albergo, è meglio mangiare quella piuttosto che le schifezze.
Da Gianni ho imparato che la cosa degli aggettivi da togliere è una scemenza. Bisogna metterli, invece, ma solo quelli giusti, Ma vale per tutto, i nomi, i predicati, i complementi, le virgole, i punti. Solo il punto e virgola non gli garbava: è come il vino rosé, diceva. E il vino o è rosso o e bianco, meglio naturalmente il rosso. A proposito: mica vero che si deve rinfrescare in frigo solo il bianco. Anche col rosso si può, anzi si deve. E poi l’altra stupidata: col pesce solo il bianco. Ma quando? Certo non un barolo, ma un buon barbera non troppo vecchio sì. Tutto questo mi ha insegnato Gianni.
Da Gianni ho imparato che le parole sono un gioco. Nella loro forma più intima, corporea, le assonanze, le sillabe, lo sposalizio tra vocali e consonanti, la rima, il ritmo, c’è già il loro destino nel mondo. Scivoleranno nella frase proprio dal modo in cui sono fatte. C’è chi la chiama poesia, io lo chiamo Gianni Mura. Lui le parole le conosceva tutte, amando di più quelle francesi così come amava il Tour quasi più di ogni cosa. Da Gianni ho imparato che il racconto è movimento: prima di noi stessi, poi delle nostre frasi. E mai fare le mnemoniche con lui (calciatori con la effe, scrittori con la erre): avresti sempre perso.
Da Gianni ho imparato che i maschi, quando si vogliono bene, si abbracciano come orsi. La sua guancia pungeva, la sua pancia arrivava prima di lui. E tu eri timido, sempre un po’ in soggezione di fronte al più grande giornalista italiano di tutti i tempi, non il più grande sportivo, il più grande e basta, non ci sono giornalisti sportivi, o sei giornalista o sei altro. Per me, Gianni Mura è più grande di Brera che gli fu maestro, perché è più buono.
Da Gianni ho imparato che le cose si dicono e si scrivono, costi quel che costi. E che la tenerezza è la migliore forma di forza. Lui era un mite duro, un romantico con la faccia da romanzo. Il bicchiere, diceva Gianni, sempre mezzo pieno. E il pezzo, sempre dieci righe in più che in meno: per chi lavora in redazione sarà più facile metterlo in pagina, tagliare si può sempre, aggiungere no. 
Quando morì Brera, Gianni scrisse il suo articolo più commovente. Un flusso, come galleggiare da un’altra parte, in qualche spazio perduto nell’universo. Le parole vennero chissà come, in tutto quel dolore. Arrivavano dalla vita di prima, tutto arriva da lì. Ma io adesso non riesco a immaginare una vita di parole senza le sue parole.

Malcom Pagani e Andrea Scanzi per “il Fatto Quotidiano”

gianni mura gianni mura

Con il menisco evaporato: “È a pezzi, strano per uno che dallo sport è stato lontano” e le sigarette razionate: “Ormai, a un passo dalla crisi d’astinenza, prediligo solo quelle più importanti: al cesso, dopo il caffè, alla fine del pasto” Gianni Mura non ha mai venduto fumo. Non firma appelli e rifiuta da sempre di iscriversi al Partito. A 68 anni, non ha cambiato idea: “Vorrei chiamarmi fuori dai due schieramenti che dalla morte di Pantani si danno battaglia con immutabili argomentazioni che non mi appartengono”.

Ce le espone?

Chi urla: ‘Cazzo, ancora ce la menate con questo drogato’ e chi risponde: ‘Lo hanno imbrogliato, era un angelo caduto dal cielo, vittima di un complotto cosmico’. Pantani aveva una grandissima umanità. Se lo sono dimenticati tutti.

Non i tifosi.

Pantani ha vinto una quarantina di corse, quante Merckx in una sola stagione. Ma sapeva accendere la fantasia come pochissimi altri. Durante il tour del ’98 l’Italia si bloccò. Le vecchiette in estasi, la gente accalcata al bar come negli anni 50. Se ancora, in quei sacrari verticali che sono le salite, la gente mette cartelli per ricordarlo significa che l’eco delle emozioni non si è spenta. Nei suoi confronti c’è una gratitudine che va oltre il rimpianto e la Pietas. È un riconoscimento costante, silenzioso, non appariscente.

MARCO PANTANI VINCE IL TOUR DE FRANCE MARCO PANTANI VINCE IL TOUR DE FRANCE

Perché secondo lei?

Non conta solo vincere. Conta soprattutto come lo si fa. E Pantani, rispetto al suo microcosmo, era un alieno. Nel parlare e nella pedalata. Se lo osservi, manifesta un’inesausta stanchezza. Una sofferenza nutrita da pochi sorrisi e nessuna ombra di felicità, neanche sul traguardo. Non ho mai trovato ciclisti che per rilassarsi ascoltassero Charlie Parker, né scalatori che come lui dicessero: “Vado forte in salita per abbreviare la mia agonia”. Pantani era di quella pasta. E comunque, come lui non ne vediamo più.

Lei lo aveva soprannominato Fossile.

O Pantadattilo. Un cardellino di 56 chili in mezzo alle aquile che portava fieramente pizzetto e baffi non diversamente dai primi ciclisti dei tempi eroici alla Petit-Breton. Entusiasmava perché scuoteva dalle fondamenta uno sport di ragionieri o, per essere più precisi, di grandi passisti che andavano forte a cronometro e in salita si limitavano a controllare. Pantani in salita tirava colpi pazzeschi. Non calcolava. Che gli andasse bene o male, giocava d’istinto. Dava retta a pochissime persone. Non distingueva gli amici veri da quelli falsi. Un vizio che alla lunga lo ha progressivamente avvicinato alla fossa.

A chi avrebbe dovuto dar retta?

pantani pantani

A chi cercava di riportarlo in pista perché gli voleva bene e capiva che senza bici, Pantani era mutilato. C’era chi gli riempiva le notti di coca e donne a pagamento per scroccargli denaro o stordirlo. La sua fine, tristissima e molto dolorosa, tecnicamente è un suicidio lungo 5 anni. Con tentativi di riemersione e nuovi inabissamenti. Ed è soprattutto una storia di profonda e straziante solitudine. Se avesse avuto vicino uno come Luciano Pezzi, l’ex comandante partigiano che era stato con Gimondi e che a Marco fece firmare un contratto mentre era in stampelle parlando in romagnolo stretto, Pantani forse sarebbe ancora qui.

La avvertirono a pranzo.

Ero con mia moglie, in ferie, senza computer. Mi chiamò un collega quasi omonimo, Aligi Pontani: “È morto Pantani”. Io di getto: “Che cazzo dici? Inventatene un’altra”. Poi dettai a braccio. Un quarto d’ora. L’articolo meno scritto della mia vita.

Lei su Pantani ha scritto molto.

pantani pantani

Anche se a lui è legato il momento più difficile del mio percorso, non ritiro una virgola. Dopo Madonna di Campiglio, quando venne trovato con l’ematocrito impazzito, venni investito dalle lettere. Il senso era: ‘E adesso, dopo averci aiutati a innamorarci di lui, come la mettiamo con la sua squalifica?’. Mi mandarono in crisi. In questo sempre più sputtanato mio mestiere, il rapporto di fiducia con il lettore è tutto. . Avremmo dovuto disporre di provette e intercettazioni. Non le avevamo. Puoi andare a 200 all’ora in autostrada, ma se il Tutor non ti becca sei pulito.

Cosa è cambiato in 10 anni?

L’unica cosa nuova è che l’ultima disperata invocazione di Pantani: ‘Leggi uguali per tutti’, è stata inascoltata. Per qualcuno, un nome a caso Armstrong, si faceva un’eccezione. Per tenergli un bell’ombrello aperto sulla testa si scomodava L’Uci, L’unione ciclistica internazionale. Non Fracazzo da Velletri.

Il “coccodrillo” di Gianni Mura in ricordo di Gianni Brera

  Da https://storiedicalcio.altervista.org/

Dicono che la nebbia sia il vestito migliore, nella Lombardia di pianura, e questi sono giorni di nebbia a San Zenone, dove Gianni Brera nacque ed è sepolto, di nebbia anche tra Maleo e Casalpusterlengo, sulla strada dove morì. Sono già dieci anni. Che sono tanti e sono pochi, dipende da come li si è vissuti, chi li ha vissuti. Dieci anni fa non c’ era nebbia, quella notte. Dicono che lui dormisse, dietro. Sicuramente aveva bevuto solo acqua il suo amico che guidava.

In questo Brera aveva anticipato di molto il palloncino. Come in Germania e in Scandinavia, o si hanno amici astemi (non è così facile) o uno a turno non beve. Strana la vita, e anche come finisce, in uno speronamento tra navi di terraferma. Gli speronatori si salvano tutti, tutti gli speronati muoiono. Sono andato a vederlo, quel pezzo di strada. Nemmeno due camion riuscirebbero a speronarsi, due macchine sì. Non è giusto, ho pensato. Lo penso ancora, come uno dei Senzabrera che avrebbe amato sentirti raccontare le tue storie e il nostro sport, e non solo quello, a lungo e a lungo.

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Ecco che sono passato al dialogo, mi viene naturale. Non hai idea di quelli che scrivono o semplicemente mi fermano per la strada e chiedono: ma Brera cos’ avrebbe detto di questo? E questo può essere tante cose: il Pallone d’ oro a Ronaldo, l’ albero di Natale o 4-3-2-1 del Milan, Pantani, il Chievo, la Lazio. Mi usano come un tavolino a tre gambe. Il bello è che anch’ io ogni tanto mi chiedo cos’ avresti detto di Buffon, o di Totti, o di Zidane, o degli ultimi mondiali.

Non andandoci, sicuro: già avevi schivato la Corea nell’ ’88, e Tokio ’64 ti era bastata. Ricordi? «Una giapponese di orrenda dolcezza istruiva allieve nell’arte di intingere fiori (mo seh) nella sabbia quarzosa d’ un riquadro. Kokorekè nikè, neh. Ciocciorekè minè, mah. Nennenne, correggeva la maestra. E al fiore secco da campanula vetrata aggiungeva la mimosa la querquedula la blastula la morula e so mare japanica».

Pantani mollica Pantani mollica

Avresti chiamato Ronaldo abatone come già avevi fatto con Eusebio? Penso di sì, ma non posso giurarci. Invece giurerei che da tempo avresti scritto un pezzo (ne avevi facoltà) che cominciava così: «Egregi Signori del Calcio, ritengo opportuno segnalarVi che mi avete veramente rotto i coglioni».

Capello, il tuo Gran Bisiaco, l’ avresti difeso comunque. E avresti fatto bene: di tutti gli allenatori in attività, era l’unico al tuo funerale. Mi chiedo, ancora, come reagiresti a una critica, forse il termine è eccessivo, insomma a dei colleghi che battezzano come nuovo Riva, nuovo Pelé e nuovo Maradona il primo ragazzotto che indovina due colpi di fila. E a giornali, sportivi e no, che invocando le leggi di mercato di solo mercato fanno leggere, pagine e pagine, arrivi e partenze, il tutto reso più grottesco dal fatto che non c’è una lira, anzi un euro, ma nel caleidoscopio impazzito che è l’ informazione vale tutto e il contrario di tutto. La competenza, mon vieux, alle ortiche. Conta il volume, non nel senso del libro o della stazza.

Christine Jonsson PANTANI Christine Jonsson PANTANI

Chi vosa pussée la vaca l’ è sua (Piero Mazzarella, giusto?). E trasportare il faccione su qualunque teleschermo. Te lo dico perché tu, da direttore della Gazzetta, avevi aperto le pagine (anche la prima, per essere precisi) a chiunque, sportivamente parlando, avesse una competenza specifica e un italiano decente. Più di 50 anni fa. Senti queste righe: «Entrato in surmenage, il pedatore si comporta come la scimmia che è in ciascuno di noi quando gli vengon meno i freni inibitori. Sul campo è istrione da fescennino e mattatore drammatico. Al primo colpo inizia le laudi della professione della madre di colui al quale appartiene il gomito o il piede che l’hanno colpito. Il dialogo è serrato e chiama in causa anche i compagni, l’ arbitro e gli avversari.

E quando è lui a commettere il fallo, e l’ arbitro lo ferma, subito alza le braccia al cielo, inarca le reni, sbuffa, spergiura. In un paese civile questi lazzi di provocazione verrebbero puniti con l’ espulsione immediata. In Italia sono scoppiati anche gli arbitri, e tutto fila».

Marco Pantani Marco Pantani

Tutto fila, in questa direzione, molto più di prima, e questo ti è risparmiato. Tu (vent’ anni fa, venticinque?) t’indignavi, tu che nello sport esaltavi il vir, il combattente leale, fosse Rombo di Tuono o Pinna d’ oro, non so come ti ritroveresti a cantare le gesta di fighettoni montati che comunicano via Internet, che guadagnano quello che Di Stefano non s’è mai nemmeno sognato, che il sabato dicono che siamo una bella grande famiglia e com’ è giusto il turn over (credo che tu avresti coniato qualcosa, al posto di turn over) e la domenica vaffanculano l’ allenatore che li sostituisce a cinque minuti dalla fine. Nemmeno so, ma non importa poi tanto, come ti saresti ritrovato davanti a certi presidenti-padroni delle ferriere (o della melonera), ai morti e feriti da pallone, all’ Epo e al Gh, al dibattito su Recoba per il quale abatino sarebbe già un complimento.

GIANNI MURA GIANNI MURA

A proposito di presidenti, certamente ti sarebbe piaciuto il giovane Campedelli, che ha un’ aria mammolona ma col calice davanti vale un paio di alpini. Non solo per questo. La prima volta che l’ho visto il Chievo andava bene, più o meno un anno fa, e tra le varie cose gli chiesi se avesse rimpianti. E pensavo mi rispondesse (come Rivera): quello di non essere mai stato giovane. Invece disse: uno solo, quello di non poter leggere un pezzo di Brera sul Chievo. L’ avrei abbracciato (ovviamente, non l’ ho fatto) perché era una risposta asciutta e consapevole, piena di nostalgia e di stima.

E poi perché l’ avevo già pensato io: come mi piacerebbe leggere un pezzo di Brera sul Chievo, come quelli scritti per la mirabellissima Atalanta, per il Cagliari, per il Verona di Osvaldo Schopenauer Bagnoli, per il Perugia di D’Attoma, per tutte le piccole grandissime squadre che riescono a infilare il loro bastone nelle ruote dorate, per le scarpe grosse e il cervello fino, per quelli che dal loggione arrivano alle prime file, per il riscatto dei poveri o dei meno ricchi, diciamola tutta. Anche Del Neri ti sarebbe piaciuto.

TOMBA DI MARCO PANTANI TOMBA DI MARCO PANTANI

Non quello che continua a dire che il primo obiettivo è la salvezza, ma quello che ama parlare dopo l’ ora canonica, come Rocco, quando la luce delle lampade è azzurrata dal fumo e sul tavolo restano le briciole e qualche bottiglia, e si parla per il piacere di parlare, perché comunque c’è una passione condivisa, ‘sto porco pallone, e si sentono meno gli anni e i chilometri.

Forse ti piacerebbe anche Cuper e sull’ Inter sapresti tutto (senza scrivere tutto) perché Moratti te lo racconterebbe, per antica tradizione di famiglia, mentre a me non lo racconta. Sembra che stiano tornando di moda le ali, ed è grazie al Chievo. In compenso, Milano è piena di ristoranti giapponesi (cioccioreké miné). Dei tuoi amici osti è morto Franco Colombani, è morto Giuliano Metalli, è morto Alfredo Valli, ma prima ha fatto in tempo a mettere in menù un risotto dedicato a te (coi borlotti).

tonina pantani tonina pantani

E adesso devo dirti una cosa. Io questo pezzo dei dieci anni ho cercato di schivarlo fino all’ultimo giorno, di dribblarlo come nemmeno Rocco Fotia. Perché credevo di aver detto tutto quello che c’ era da dire nel coccodrillo, e nei pezzi a un anno dalla tua morte, a due e a cinque, e in tutti quelli fatti sulle pagine di Milano, in nome e per conto dei Senzabrera.

pantani, 10 anni dalla morte del pirata 8 pantani, 10 anni dalla morte del pirata 8

Adesso l’Arena di Milano, a due passi da casa tua, è dedicata a te, con tanto di lapide, e mi sembra una bella cosa dopo tante figure di merda. Sì, una bella cosa. Hai anche una via a Soveria Mannelli, in Calabria, e una a Roma. Milano è molto cambiata, io direi in peggio ma molti direbbero in meglio. Non parliamo di politica, altrimenti dovrei informarti che l’Italia ha già partecipato a una guerra umanitaria e sta per partecipare a una guerra preventiva. O dovrei immaginare cosa pensi della devolution, tu che hai parlato di Padania prima di altri.

COVER LIBRO GIANNI MURA COVER LIBRO GIANNI MURA

Ma già così l’abbiamo tirata per le lunghe. Il pezzo l’ho scritto perché al giornale hanno detto che dovevo scriverlo io, e un po’ di senso del dovere mi rimane (sarà l’eredità del padre carabiniere) anche quando non sono molto d’ accordo. Ma credo che sarà l’ ultimo. In questi giorni di rievocazione si discute sulla tua eredità professionale. Mi sembrano discorsi inutili. Non si misura la vastità di un lago dal numero degli emissari, né l’altezza di una sequoia dal numero di sequoiette che ha sfornato. E quindi nel nostro paesaggio professionale tu vali Ayers Rock, punto e basta. Averti letto e poi conosciuto è stata una fortuna e una ricchezza, averti perso un dolore. I ricordi pubblici sono faticosi, quasi imbarazzanti, preferisco ricordarti rileggendoti o bevendo un bicchiere di Barolo (scusa, ma ultimamente mi piace più del Barbaresco) o tossendo con la prima sigaretta del mattino. Per il resto, vale la promessa da Malta: continuerò a portarti in giro, ma selezionando i luoghi. L’ erba di San Siro ti farebbe smadonnare, il prossimo Tour promette bene.

gianni mura (2) gianni mura (2)

È morto Gianni Mura, aveva 74 anni
L’ultima intervista rilasciata a L’Eco

 

Notissimo giornalista e firma di Repubblica, per 50 anni ha raccontato con uno stile personalissimo lo sport italiano. Leggi l’ultima intervista rilasciata a L’Eco di Bergamo il 10 marzo prima della sfida contro il Valencia.

Lutto nel mondo del giornalismo. E’ morto all’età 74 anni, stroncato da un attacco cardiaco, il giornalista Gianni Mura, firma storica di Repubblica. Mura si è spento questa mattina all’ospedale di Senigallia, in provincia di Ancona.

Memorabili le sue cronache su calcio e ciclismo ospitate dal quotidiano fin dal 1976. Restano nella storia del giornalismo i suoi racconti dal Tour de France e dal Giro d’Italia. Nato a Milano nel 1945, ha dato alle stampe 4 libri, il più noto dei quali il romanzo «Giallo su giallo» vincitore del Premio Grinzane.

Ecco l’ultima intervista rilasciata a Matteo Spini per L’Eco di Bergamo del 10 marzo scorso prima della sfida dell’Atalanta in Champions contro il Valencia.

Dopo la qualificazione all’eliminazione diretta, aveva definito l’Atalanta «felicemente operaia». Gianni Mura, storica e raffinata penna de «La Repubblica», argomenta quel concetto, introducendo il ritorno degli ottavi con il Valencia: «Avevo usato quell’espressione anche per il Verona scudettato di Bagnoli: è la sublimazione del gioco del calcio, tutti si adattano a fare tutto. L’Atalanta è il nuovo Ajax: arriverà ai quarti e poi chissà, ma di certo farà sempre bella figura».

I quarti sono cosa fatta?

«L’Atalanta è vicinissima. Non può festeggiare in anticipo, ma al 99% ha la qualificazione in tasca. I nerazzurri sarebbero stati favoriti anche in caso di 1-0 all’andata, figurarsi con un 4-1 bello e rotondo. Anche se il risultato di San Siro va soppesato rivedendo la partita: l’Atalanta avrebbe potuto segnare anche otto gol, ma avrebbe potuto pure subirne tre o quattro, se il Valencia avesse avuto un centravanti più preciso. Avrebbe potuto finire diversamente, ma sempre con una vittoria nerazzurra».

Quali sono le trappole da evitare al ritorno?

«Gli stadi spagnoli sono caldi, anche il Mestalla, ma tre gol di vantaggio sono un bel patrimonio. L’Atalanta non dovrà prendere l’imbarcata nella prima mezz’ora e non perdere la testa. Ma non mi aspetto che succeda: questa squadra ha un gioco definito, che esprime indifferentemente in casa e in trasferta, e una faccia, che le ha dato il suo allenatore».

Quali armi ha l’Atalanta?

«Un gol riesce sempre a segnarlo: questa è la vera eredità. E in contropiede sa essere micidiale, grazie ai suoi gioielli e ai suoi gregari di lusso, gli Hateboer e i Gosens: non è un caso, se sono stati decisivi nelle partite chiave».

All’andata è stato un Valencia sottotono.

«Ha pagato le assenze e i gravi errori sotto porta. Anche l’Atalanta ha sbagliato qualcosa, ma non ha niente da rimproverarsi, perché da centrocampo in su ha giocato una partita eccezionale. E poi ci sono i segnali del cielo: se Ilicic fa gol di destro…».

All’Atalanta gira tutto per il verso giusto?

«Si è qualificata con un basso punteggio e ha trovato una rivale soft negli ottavi. Sono segnali da prendere e portare a casa: vanno considerati ottimi compagni di viaggio».

Viaggio fin dove?

«Per cominciare ai quarti, poi dipenderà dal sorteggio: va bene l’ottimismo, ma ci sarà anche da fare i conti con certe grandi squadre. Se l’Atalanta uscisse con il Liverpool, però, non sarebbe un disonore: e sono sicuro che farebbe comunque bella figura, perché questa non è una squadra che si fa asfaltare facilmente. L’Atalanta è l’Ajax di quest’anno».

Il Liverpool è la squadra imbattibile?

«L’ultima versione non mi sembra irresistibile: Salah non indovina più un dribbling. La più debole agli ottavi è il Chelsea, ma è difficile indicare la più forte: direi che l’Atalanta non deve augurarsi le tedesche. Il Bayern è una macchina da calcio e il Borussia ha un Haaland straordinario».

Ha definito l’Atalanta «squadra felicemente operaia»: è un complimento?

«Eccome. Avevo usato quell’espressione per il Verona dello scudetto: è la sublimazione del gioco del calcio. Ogni giocatore si adatta a fare tutto e il suo capitano incarna l’operaismo: Gomez fa l’attaccante, il terzino, il mediano».

È lui l’uomo in più?

«Ci sono lui e Ilicic, che ora è molto più continuo di un tempo e partecipa di più al gioco: un ballerino alto 1,90. L’Atalanta non ha un Cr7, comunque, la sua forza è in tutti gli altri bravi soldatini: gli ex sconosciuti come Hateboer, Freuler, Gosens, Castagne. Se devo scegliere un solo nome, dico de Roon: è fondamentale per l’equilibrio, è uno dei più efficaci a rubare palla e il disimpegno passa da lui».

E Zapata?

«Aspettiamo la sua migliore versione, quella che abbiamo ammirato prima dell’infortunio. Intanto è utile anche quando non gioca: senza centravanti, l’Atalanta non dà punti di riferimento. Gasperini non è impazzito quando l’ha tolto, perché ha reso meno prevedibile il gioco. Contro il Valencia l’assenza di un centravanti è stata una mossa decisiva: se a due centrali scarsi togli un riferimento, vanno in tilt».

Questa Atalanta ricorda quella della cavalcata in Coppa delle Coppe?

«Io c’ero con il Malines: quella squadra, con il totem Stromberg, fece una bella strada. La costante sono gli ottimi allenatori, Mondonico e Gasperini: questa Atalanta può avvicinarsi».

Una volta ai quarti vedremo il sorteggio, ma uscire con una big non è un disonore»

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