Il racconto da parte dei mass media delle recenti proteste internazionali antirazziste, sull’onda di #blacklivesmatter, ha quasi del tutto tralasciato e trascurato la questione dei diritti umani e civili dei Nativi Americani negli USA e delle loro attività di contestazione.
Essi, secondo Natalie Landreth, vivono ancora spesso una profonda esclusione dalla vita pubblica e dalle scelte politiche (politiche che comunque dispongono spesso ad esempio di terre sacre senza consultarli, come nel recente caso della riserva lakota di Standing Rock, a prescindere dal partito al potere), come ha osservato il Native American Rights Fund, attualmente attivo nel promuovere il censimento degli elettori nativi in Utah e Arizona.
A parere di chi scrive, inoltre, da un punto di vista storico, la gran parte delle proteste ha travolto, con un tentativo di “disinfezione sommaria”, una larga fetta di fatti e personaggi della storia mondiale che, lungi dal meritare una generica liquidazione drastica, meritano piuttosto un approfondimento, rifiutando una visione della storia così netta e deterministica al punto da confondere, come si suol dire, il bambino e l’acqua sporca.
Se per esempio, permettendoci una divagazione, Winston Churchill è senz’altro stato un sostenitore vigoroso e strenuo dell’imperialismo britannico, che ha fatto quello che ha fatto nel mondo, certo è stato anche un leader conservatore in grado di staccarsi dal suo partito per sostenere riforme sociali fra le due guerre mondiali, fu l’unico leader britannico di rilievo a intuire la minaccia rappresentata da Hitler per l’umanità, mentre conservatori e laburisti si affannavano a trovare modus vivendi con il Terzo Reich (come con la spartizione della libera Cecoslovacchia a Monaco, 1938) e del resto Churchill, finito anziano e quasi per caso alla premiership, fu l’unico leader occidentale a guidare poi la guerra contro Hitler, completamente da solo inizialmente, quando il fuhrer (con Mussolini e Stalin alleati) dominava l’intera Eurasia e gli USA erano lungi dall’idea d’intervento.
La riedizione per altro poi di leit-motiv anti-sudisti appare assurda ed esagerata, fuori contesto e senza senso del limite, oggi più che mai se si considera che il fatto scatenante è stato un fatto di violenza poliziesca a sfondo razziale, avvenuto nel Minnesota, stato del profondo Nord.
Dalla lettura di Raimondo Luraghi, docente di Storia dell’America del Nord a Genova e capo partigiano nella Resistenza, della sua monumentale “Storia della Guerra Civile Americana”, il senatore Jefferson Davis, primo e ultimo presidente degli Stati Confederati, si staglia come un personaggio assai diverso dall’immagine di tiranno retrogrado e razzista che ci viene offerta, da chi racconta queste vicende sui media oggi, a un’audience pigra.
Ricorda Luraghi, per dare un’idea, che se da una parte Giuseppe Garibaldi fu un acceso nordista, quasi in procinto di accettare l’invito del presidente Abraham Lincoln e partire, come fecero del resto numerosi garibaldini, dall’altra Giuseppe Mazzini, noto, a differenza del primo, per non essere per nulla incline ai compromessi, fu assai cauto nel considerare puramente antirazzista o antischiavista il movente del Nord puritano e industriale e mise in guardia da facili fraintendimenti delle due cause in gioco.
Jefferson Davis era un proprietario terriero del Mississipi che come tutta la sua generazione aveva ereditato gli schiavi e quel modello produttivo. La sua, però, era una “piantagione modello” in cui gli schiavi non solo non venivano puniti né forzati, ma avevano proprietà, libertà economica di fare acquisti e vendite, un “parlamento” e “corti di giustizia”, ricevevano istruzione, cure ed egli stesso era un lettore e promotore delle teorie dei socialisti utopisti, promotore della partecipazione degli indiani alla politica e dell’emancipazione dei neri e del loro reinsediamento in Africa, tanto che la Costituzione degli Stati Confederati del 1861, alla nona sezione, impedì la deportazione e l’acquisto di nuovi schiavi, con buona pace sia degli antirazzisti disinformati, sia del Ku Klux Klan e dei neo-nazi che all’ideologia degli Stati Confederati pensassero di rifarsi.
Davis aveva combattuto come ufficiale in Illinois contro i ribelli sauk guidati da Falco Nero, che reclamavano le loro terre devastate dai coloni minatori, e Falco Nero fu tenuto in custodia proprio da Davis stesso e nella sua autobiografia ricordò il suo scambio e rapporto cordiale con Davis.
Caso assai diverso dai sauk, i cherokee, popolo irochese, avevano acquisito in Georgia e Tennesee grosso modo lo stesso impianto culturale, sociale ed economico dei bianchi del Sud. Il modello politico statunitense è debitore non solo del diritto romano e britannico, ma anche della legge di pace delle sei nazioni irochesi (che ebbe influenza su Benjamin Franklin e Thomas Jefferson).
I cherokee avevano piantagioni di tabacco e cotone, coltivate da schiavi importati dall’Africa, avevano acquisito anche gli altri costumi dei loro vicini bianchi, in un mix culturale, condividevano l’ideale del Sud di liberi piantatori (che si confaceva alla loro tradizione antica di uomini della pianura), dediti a studi umanistici, in odio alla tecnica e alle macchine, ai fanatismi e ai bigottismi europei.
Fu la Virginia, nel 1786, il primo stato a riconoscere la libertà di culto e di coscienza ai suoi cittadini, grazie a Thomas Jefferson, promotore di quegli ideali sudisti democratici e dell’autonomia degli stati proprio per tutelare quell’idea di libertà dagli appetiti puritani del Nord rampante. All’opposto era invece il senatore Thaddeus Stevens, repubblicano radicale e abolizionista della Pennsylvania, a inneggiare nei suoi discorsi al modello di controllo zarista della Russia sette-ottocentesca.
Stand Watie, avvocato cherokee, democratico conservatore, si colloca precisamente all’incrocio di questi eventi, nato a Rome nel 1806, vicino a Calhoun, in Georgia, ai piedi degli Appalachi. Figlio di un cherokee e di una “mezzosangue” della Carolina del Nord, fu conosciuto da giovane con l’epiteto di “incrollabile certezza” (Ta-ker-taw-ker).
Watie frequentò la scuola dei Fratelli Moravi (nella missione di Brainerd, Tennesee), una minoranza religiosa cristiana raccolta intorno alla regola del riformatore boemo del XV secolo, Jan Hus, improntata all’idea della libertà di spirito e di coscienza, con un forte senso della libertà culturale e della cultura come motore di emancipazione. Imparò inglese e cherokee.
I cherokee avevano anche una Corte Suprema, riconosciuta dal governo USA, della quale Watie divenne segretario nel 1829, all’età quindi di soli 23 anni.
In quell’anno scoppiò un’aspra contesa all’interno del popolo cherokee, dovuta alla politica del presidente Andrew Jackson, militare di carriera, frontiersman, venditore di schiavi, rappresentante della fazione più opportunista del Partito Democratico (i “filo-britannici”, legati al Sud del grande potere economico espansionista e dei pionieri da esso dipendenti), opposta a quella “cavalleresca”, bonapartista (e anacronistica) di John Calhoun (senatore della Carolina del Sud), vicepresidente di John Quincy Adams, sostituito da Jackson, con Martin Van Buren alla vicepresidenza, presidente successivo, newyorkese e interprete di una mentalità democratica antitetica a quella sudista. Jackson e Van Buren per esempio allargarono il suffragio.
Quest’ultimo fatto era ostile alla frangia tradizionale democratica jeffersoniana, la quale, utopisticamente, avrebbe voluto un grande paese agricolo e “bucolico”, di individui liberi elettori di un potere che non fosse più di una “sintesi”, di un “mediatore”, primus inter pares, e aborriva l’idea di un paese di masse di elettori incolti, semi-analfabeti, fanatici, importati dall’Europa e avidi di guadagni e successo, dei quali aveva invece disperato bisogno l’industria del Nord in espansione.
Jackson trovò come soluzione alla pressione demografica quella di “liberare” le terre dei cherokee, dei choctaw, dei muscogee, dei seminole, dei chickasaw, dei creek e dei ponca, ovvero le cosiddette “tribù civilizzate” (perché avevano acquisito usi e costumi dei bianchi), cacciandoli a ovest, in cambio di un minimo indennizzo collettivo.
A questo punto Stand Watie cercò di imporsi, formando una fazione “non-violenta” e pro-trattato, con una ferrea fiducia nelle istituzioni democratiche e convinto che in questo modo i cherokee avrebbero potuto raggiungere un accordo e poi ricorrere alla Corte Suprema degli USA e riottenere le loro terre, evitando, sperava, di aggravare le cose con un disperato tentativo di resistenza.
John Ross, altro capo cherokee, all’opposto, invece, promosse una resistenza, vietando ai suoi seguaci di vendere le loro terre ai bianchi e cercando di eliminare lo stesso Watie che, dopo aver firmato il trattato di Echota (capitale dei cherokee, fondata nel 1825, sul modello di Washington) trovò rifugio presso i choctaw in Mississipi.
Risultato della coraggiosa resistenza di Ross fu comunque l’attuazione nel 1835 dell’Indian Removal Act, del 1830, che comportò la violenta e sanguinosa espulsione di decine di migliaia di nativi “civilizzati” dalle loro terre, con uccisioni, torture, anche ai danni di vecchi, donne e bambini, il tristemente celebre Trail of Tears. I cherokee e i creek furono deportati in terre aride in Arkansas e Oklahoma (dove i cherokee fondarono una nuova capitale della loro nazione: Talehquah, completata nel 1869).
Il deputato whigh Davy Crockett, poi eroe americano di Fort Alamo e della “liberazione” del Texas dal Messico, si dimise in spregio a quell’atto, pur avendo combattuto proprio agli ordini di Jackson contro i creek nel Mississipi nel 1812.
Si trattò di un’epoca spartiacque, di intenso e rapido sviluppo dal punto di vista economico e tecnico, nonché demografico, con un massiccio incremento delle nascite e degli arrivi dall’Europa. Fu un’epoca spartiacque anche per la formazione di due spiriti politici opposti nell’anima profonda della politica statunitense, per certi versi presenti entrambi nei due principali partiti, da sempre infatti conflittuali al loro interno, a dispetto di quanto possa apparire e si possa immaginare.
Ross ordinò l’uccisione dei firmatari del famigerato trattato e a tal scopo formò una società segreta, cui Watie fu l’unico della fazione pro-trattato a scampare, uccidendo il suo attentatore e venendo in seguito assolto per legittima difesa.
Nel gennaio del 1840 Stand Watie si recò a Washington per cercare inutilmente di perorare la causa del suo popolo, mentre continuavano le faide fra le fazioni cherokee che a quanto pare lui stesso cercava di placare, impedendo di portare a termine vendette ordite dalla sua cerchia.
Mentre Ross, ormai capo supremo dei cherokee, si avvicinava alla causa abolizionista e ai whigs, pur avendo una grande tenuta coltivata da schiavi neri, Watie, dimesso e morigerato, cercava di mantenere una posizione autonoma e cherokee, aliena dai partiti del grande conflitto Nord-Sud che si andava delineando. Si stabilì in Missouri per sfuggire agli attentati alla sua vita e cercando di sfuggire a quella vita pubblica, alla quale invece una parte del suo popolo lo chiamava.
Nel 1861 Jefferson Davis divenne presidente degli Stati Confederati e mandò lo scrittore Albert Pike (fervido sudista, sebbene nativo del Massachussets ed ex studente di Harvard), sostenitore dei diritti dei nativi, a negoziare con i popoli dispersi a ovest, trovando sostegno alla causa da parte di gran parte dei creek, dei chickasaw, dei choctaw, dei seminole, dei wichita, dei caddo e degli osagen. Anche in questa scelta i cherokee si divisero.
Ross si schierò con gli Stati Uniti, ma Watie invece si adoperò, invocato dai suoi sostenitori, per organizzare un esercito indiano da schierare a fianco degli Stati Confederati, per riunire i cherokee dispersi e soprattutto difendere sé stessi e le proprie nuove terre da ulteriori saccheggi, abusi, espropri e soprusi.
Accolto nell’esercito confederato con il grado di colonnello, Watie, ufficiale improvvisato, radunò i suoi uomini a Fort Wayne, in Indiana, nel luglio 1861.
Dopo la grande vittoria da parte di Watie contro l’esercito dell’Unione, nella battaglia di Wilson’s Creek, Ross volle organizzare un esercito cherokee per contrastare i successi militari del rivale, ma a sorpresa si trovò davanti a un popolo compatto nel sostegno alla causa sudista, ovvero, seguendo la logica che insegna che il nemico del mio nemico è mio amico, contro quel potere centrale che identificava con la tragica deportazione dalle proprie terre e non poté che affiancarsi a Watie. D’altra parte il governo confederato aveva promesso ai cherokee un indennizzo, cosa che il governo dell’Unione non si era sognato di fare.
Watie, come una sorta di Cincinnato cherokee divenne insomma, dal suo auto-esilio, il leader indiscusso del suo popolo, arrivando fino al grado di generale, nel 1864, unico nativo ad aver raggiunto questo onore. Come quel Jan Zizka, capo militare (senza essere un militare) degli hussiti nella resistenza boema cinquecentesca contro le truppe imperiali cattoliche, che sicuramente aveva studiato dai Fratelli Moravi.
Diversi colleghi dell’esercito confederato riconobbero il reggimento cherokee di Watie come il più disciplinato e coraggioso, abile di successi come la battaglia di Pea Ridge, nella quale riuscì a sottrarre una batteria completa d’armi agli unionisti. Riuscì a catturare treni e barche di rifornimenti, diventando famoso per i suoi raid, mettendo in pratica una vera e propria guerriglia ante litteram.
Uomo tarchiato e dai tratti felini, così appare nelle rare fotografie, Watie vide arrendersi uno dopo l’altro tutti i generali sudisti, con i quali egli invece sperò fino all’ultimo di riuscire ad unire i novantamila soldati sudisti dispersi, continuando a credere nella sua lotta per la sopravvivenza. Invece i sudisti capitolarono tutti prima di lui, disorganizzati su un fronte troppo ampio, contro un nemico ormai in grado di falciarli con la nuova mitragliatrice e capace di incendi e devastazioni, senza precedenti nella breve storia statunitense.
Watie, riuscendo a mantenere la posizione sul confine del Texas riuscì anche a mettere in salvo le sezioni più vulnerabili della sua gente (e anche di altre tribù che non avevano preso parte al conflitto), al riparo dagli appetiti dei pionieri e dei soldati nordisti, il suo fronte di Fort Davis (Texas) fu impenetrabile fino alla resa ed egli fu l’ultimo generale confederato ad arrendersi, il 23 giugno 1865 (a più di due mesi dalla fine ufficiale della guerra civile), continuando a combattere a lungo, anche se isolato dal resto del fronte e da tutti gli altri generali e reggimenti che via via si arrendevano e giuravano fedeltà al vincitore, spesso solo per mantenere le terre e gli schiavi, anche se sotto il nuovo aspetto di miserrimi salariati senza protezioni, non meno di prima in balìa dei loro padroni.
In una vera e propria operazione politica di giustizia sommaria le proprietà dei cherokee, quali capri espiatori, furono espropriate e date a schiavi liberati.
Watie si auto-escluse definitivamente, profondamente triste, malinconico, deluso e turbato dalla vita pubblica. Si stabilì a Webbers Falls, in Oklahoma, tornando alla sua vita casalinga e ritirata cui era stato strappato nelle vicissitudini della sua vita, di poche parole fin dalla giovinezza. Fece il verduriere e il mediatore commerciale. Poi tornò alla sua fattoria, vicino alla cittadina di Bernice, in Arkansas, sul Grand River. Morì il 9 settembre del 1871, all’età di sessantacinque anni, durante una visita ad Honey Creek, in Iowa.
Fu sepolto, nella commozione dei suoi veterani commilitoni, nel piccolo cimitero di Ridge, in Oklahoma, al confine con il Missouri, nei pressi di Southwest City (Missouri). Aveva speso tutte le sue ricchezze familiari per mantenere le vedove e gli orfani di guerra della sua armata (composta di cherokee, choctaw e creek).
La storia di Stand Watie è una storia che senz’altro aiuta a vedere in un modo più complesso la storia degli USA, dei nativi e della stessa guerra civile, del conflitto fra sudisti e nordisti, complica la capacità di appioppare facili definizioni di “conservatore” e di “combattente della libertà”.
Si è paragonato, nel 2016, il senatore dell’Arizona Barry Goldwater, ultra-conservatore degli anni ’60 (che ebbe fra i suoi seguaci anche lo scrittore John Dos Passos), all’attuale presidente Donald Trump, incommentabile. Tuttavia Goldwater, forse pochi sanno che, a dispetto della campagna di diffamazione messa in atto all’epoca della sua corsa alle presidenziali, per i repubblicani (nel 1964, contro il texano democratico Lyndon Johnson), a dispetto delle simpatie strumentali e non ricambiate che suscitò incomprensibilmente fra i neofascisti europei (aveva anche combattuto nella seconda guerra mondiale contro Italia e Germania), era un sostenitore della liberalizzazione della marijuana, dell’aborto, dei diritti delle minoranze culturali e dei nativi (ai navajos e agli hopi dedicò anni di studi e interesse), dei diritti degli omosessuali, dell’aumento delle quote di immigrati, della spesa pubblica nell’istruzione, nella protezione ambientale e nella cura dell’HIV, votò l’impeachment contro Richard Nixon e fece emergere l’Irangate, ai tempi di Ronald Reagan, non sostenne mai le carte dei diritti civili e ciò è discutibile, ma da sostenitore dello stato laico fu anche preoccupato dalla rimonta della destra razzista e dalla comparsa dell’estrema destra e della destra religiosa negli anni ’90, tanto da arrivare a sostenere Bill Clinton (dall’Arkansas).
Il conflitto civile americano, del 1861-1865, può essere efficacemente letto e guardato sotto la lente più trasversale e a maglie larghe del perenne scontro Nord-Sud, centro-periferia, vecchio mondo agricolo-nuovo mondo tecnico-industriale, più che con occhiali politico-ideologici, così come l’adesione alla causa sudista di Stand Watie. Assodato questo, a dispetto delle apparenze date dal voto, è assurdo pensare, oggi come allora, che un tycoon newyorkese possa, oggi come allora, davvero rappresentare gli interessi degli ultimi e delle periferie (intese geograficamente, socialmente e culturalmente). Anche nella recente crisi sanitaria gli stati periferici sono stati come sempre abbandonati, l’unica risposta che alcuni disperati sono stati in grado di dare è stata quella paradossale di occupare gli ospedali per protesta contro il lockdown, in totale assenza di altri sostegni, dopo aver votato in massa lo stesso autore del disastro, lo stesso che alle riserve indiane è stato capace di mandare solo qualche bara gonfiabile.
Come nel caso di Watie la questione di cosa significhi per ciascuno lottare per la libertà resta assai più complessa e assai meno banale di una semplice divisa o etichetta che, se forse ben si attaglia a personaggi triviali, oscurantisti e pericolosi come l’opulento Trump, senz’altro rischia di offuscare la complessità di tanti altri fatti e personaggi e l’eccesso di semplificazione non può che giovare sempre ai Trump di turno che imperversano nel mondo, dalle Americhe all’Italia, all’Ungheria, alla Gran Bretagna, alla Russia, alla Turchia, etc.
La causa vincitrice piacque agli dei, ma quella vinta piacque pur sempre a Catone e merita di essere compresa e non confusa, dal “tribunale della Storia” e, pur sempre lasciando il beneficio del dubbio, in un nuovo fanatismo della “coerenza”, bisogna anche osservare che alcuni cambiano partito per fedeltà ai propri principi ma troppi cambiano principi per obbedienza al proprio partito. Rari sono invece gli Stand Watie.
BIBLIOGRAFIA:
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- Luraghi, Gli Stati Uniti nell’età della guerra civile, Le Monnier, Firenze, 1978.
- Luraghi, La spada e le magnolie, Donzelli Editore, Roma, 2009.
- Luraghi, La guerra civile americana, le ragioni, i protagonisti, BUR, Milano, 2013.
- Zvengrowski, Jefferson Davis, Napoleonic France, and the nature of confederate ideology, 1815-1870, Louisiana State University Press, Baton Rouge, 2019.
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https://rep.repubblica.it/pwa/venerdi/2020/07/23/news/nativi_americani_utah_arizona_censimento_elezioni_trump_coronavirus-262486851/ (24/08/20).
- W. McCall, Thaddeus Stevens, Houghton Mifflin, Boston, 2020.
- W. Dean, B. M. Goldwater Jr, Pure Goldwater, St Martin’s Press, New York, 2008.


