Il dolore dell’esodo dall’Egitto a Gaza, le lunghe file di profughi come nei secoli bui d’Europa

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Anna Foa
Fonte: La Stampa

Il dolore dell’esodo dall’Egitto a Gaza, le lunghe file di profughi come nei secoli bui d’Europa

Nelle raffigurazioni delle Haggadoth medioevali, il libro letto a Pasqua dagli ebrei, l’esodo dall’Egitto è rappresentato in vesti medioevali: gli ebrei sono raffigurati come nelle espulsioni che nel Tre-Quattrocento ne resero difficile la vita in Europa. Se ne andavano con i loro averi trasportati sui carri, uscendo dalle porte delle città, dopo che i decreti cittadini li avevano scacciati. Con le loro vesti medioevali, i loro cappelli segno di infamia, le loro donne e i loro bambini.

Se oggi dovessimo fare altrettanto, la nostra immagine dell’Esodo sarebbe quella che vediamo nei video trasmessi dalla televisione, della lunga fila di macchine, furgoni, carretti che portano i palestinesi di Gaza City verso Sudsgombrando la città per distruggerla dalle fondamenta. I carri medioevali hanno ora il motore, ma la lunga fila è la stessa, il dolore dell’esilio lo stesso. Forse adesso la prospettiva della morte è più vicina, perché gli esili degli ebrei nel Medioevo non erano sempre accompagnati dalla minaccia di una morte imminente. Gli ebrei potevano stanziarsi altrove, ricostruirsi la vita in altre città. Qui non c’è posto dove andare, solo tende sulla spiaggia, viaggi tra fame e bombardamenti, campi profughi nel migliore dei casi.

Chi sono coloro che si muovono in queste lunghe interminabili file? Di alcuni di loro abbiamo notizie, perché ne conosciamo il nome, hanno insegnato nelle università, lavorato negli ospedali, dato come giornalisti notizie che solo i giornalisti di Gaza erano autorizzati a trasmettere. Di altri, vecchi, donne, bambini, nulla sappiamo se non il dolore che leggiamo sui loro volti senza sorriso. Ma l’ordine di evacuazione varato dal governo di Israele azzera le vite di tutti. Non ci sono più privilegiati, se non coloro che hanno abbastanza denaro per farsi aiutare nella fuga, ma per andare dove? Amici, amici di amici, scrivono chiedendo di essere aiutati a uscire da quella prigione a cielo aperto. Ma come? Le difficoltà burocratiche, quelle politiche e militari dell’esercito e del governo israeliano, quelle stesse della inenarrabile confusione di questo esodo lo rendono difficilissimo, forse impossibile. L’ossessione israeliana per i muri, i check-point, le proibizioni di muoversi trova qui la sua mortale apoteosi. Quanti di questi individui in fila per salvarsi sopravviveranno? E potremo mai ricordare i nomi di chi non ci riuscirà, leggerli un giorno come il cardinal Zuppi ha letto giorni fa quelli dei bambini morti in questi mesi a Gaza?

E allora, cominciamo a ricostruire, attraverso gli scarsi frammenti che ne abbiamo, i nomi, i volti, le età, le professioni di alcuni di loro. È possibile. Vediamo di non cogliere in quelle lunghe file di esiliati solo numeri, ma vite. Vite troncate, forse distrutte, ma vite da ricordare, da ricostruire nella nostra mente. Lo facciamo, lo abbiamo fatto, per la Shoah, ridando nomi e storie ai sommersi. Allora, lo abbiamo fatto dopo, dopo che erano stati distrutti. E se ora provassimo a farlo quando coloro che sono destinati alla morte sono ancora in vita, quando temono per le vite dei loro figli? Una memoria immediata, di ciò che sta accadendo ora. Forse getterebbe un po’ di luce su quel milione di esseri umani in movimento, forse, chissà, ne salverebbe alcuni. È difficile ma possiamo almeno provarci. Di fronte alla negazione che questa tragica storia comporta della loro umanità, è una delle vie per ricordare che sono esseri umani uguali a noi.

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