Il lungo addio alla Crimea: ecco perché la “pax americana” è cominciata qui

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Domenico Quirico
Fonte: La stampa

Il lungo addio alla Crimea: ecco perché la “pax americana” è cominciata qui

Le memorie sono di un impasto colloso, i fatti si accavallano e occorrono sempre aggiunte. Che fatica! Solzenicyn diceva che te ne liberi solo quando allunghi le gambe. Nel caso della Crimea i Grandi e i Piccoli Timonieri dell’Occidente non sono mai riusciti a completare questo movimento liberatorio. Sì, se sul piano del diritto internazionale tutte le annessioni fatte con la forza o l’astuzia in teoria (e cosa c’è di più teorico e astratto di quel diritto?) sono illegittime, per la Crimea ci sono delle particolari “nuances’’ .

Dall’inizio, da quel 2014 quando con un contestato referendum la penisola ritornò, come sintetizzava la retorica di Mosca, alla Madre Russia e Putin diede il suo primo forte colpo di gong. Ebbene nessuno si impennò particolarmente per quell’insolenza. Gli alleati di Kiev, gli Stati Uniti all’epoca navigavano sotto i comandi dell’insospettabile Obama e non del “collaborazionista’’ Trump, lo considerarono un caso particolare: illegale sì ma… come se fossero stati, essi stessi, consapevoli e rispettosi di quella carica di memoria storica, culturale ed emotiva che la Crimea ha per i russi, non solo quelli putiniani. Ben diversa da territori come il Donbass, Cherson o Zaporija.

Già, la Crimea: il bastione Malakoff, “…qui durante l’assedio visse il conte Tolstoi..’’, i cannoni di Balaclava, Thor, il mortaio con cui Von Manstein martirizzò Sebastopoli, i sorrisi di Yalta…come se le cancellerie occidentali leggessero i libri di testo russi accomodati con la nuova Storia. A volte una spensierata miopia è una salvezza non solo per il cuore ma anche per la politica. La disintegrazione di quell’ipotetico diritto e del suo ordine, in realtà la pax americana, è iniziata in Crimea undici anni fa.

Il mondo non sarebbe più stato lo stesso. Era difficile capirlo? Ma la Crimea “da sempre russa’’ che vale? al massimo qualche inutile sanzione. Putin sapeva che quei signori occidentali altro non erano, come si diceva nel linguaggio criminale che dei “fraer’’, dei sempliciotti facili da raggirare. Putin ha ricamato su questa seduzione: «nel cuore e nello spirito dei russi – diceva nel marzo del 2014 – la Crimea è sempre stata una parte inseparabile della Russia».

E con sottile perfidia tracciava audaci paralleli con la riunificazione tedesca. Che cosa c’è di più genuinamente sovietico di Sebastopoli? Parla ancora a gran voce della Russia sovietica, delle sue glorie e dei suoi orrori, nel ferro, nella pietra, nella rabbia degli uomini. Da sempre qui l’uomo russo è stato rimpicciolito di fronte allo Stato onnipotente, ha imparato a sopravvivere, a resistere. Qui sanno cosa è la guerra. In giro ci sono duemila monumenti che ricordano massacri, assedi e battaglie. In fondo alla grande rada un mare duro, sgraziato, depositario indifferente di una antica, tirannica forza.

La riconquista fu una operazione perfidamente perfetta, con la “pacificazione’’ della Cecenia e il vertice di Anchorage, forse il summit della sua carriera di autocrate semplificatore: stile da iceberg, non si sa mai dove è la parte sommersa. Non i cainismi delle vecchie epoche sovietiche: una invasione bonsai, senza bandiere, ambigua fino a quando non ti accorgi che è un colpo freddo, arcigno manesco come un facchino.

Cadeva una neve incerta su quel frammento di capitale orribile che è Sinferopoli, sobborghi squallidi sfumavano nel cielo grigio come ardesia mentre si correva all’aeroporto «per vedere i russi». Invasione? Eppure tutto funzionava normalmente, luci accese sulla pista ricordo che rullava il primo volo per Kiev in perfetto orario: alle sette. Davanti all’ingresso, in stile tempio greco-staliniano, sostavano alcuni camion. Soldati in mimetiche verdi, le canne dei mitra rivolte verso il basso, pattugliavano placidamente il piazzale. Silenziosi, corretti, tranquilli, non fermavano nessuno, non controllavano documenti e soprattutto non esibivano insegne e mostrine.

In città già sfilavano auto con le bandiere russe, davanti al parlamento locale ondate di pop patriottico a tutto volume esorcizzavano ogni segno ucraino, tè e salsicce, un assordante brulicare da accampamento: viva la Russia e gli altri al diavolo! Già parlavano della prossima mossa, il Donbass e poi… Gli ucraini piangevano la fine della Crimea, forse dell’Ucraina come nazione libera: i russi ahimè sono lenti ma implacabili.

Putin correggeva gli errori di Kruscev e di Eltisn. Il primo aveva regalato amministrativamente la Crimea alla Repubblica ucraina, il secondo nella suo scombinata liquidazione dell’Urss non l’aveva chiesta indietro. L’ora venne regolata su quella di Mosca mentre l’affannarsi diplomatico dell’ Occidente portava al solito niente: splendido esempio di come si possa parlare di cose sublimi e poi agire meschinamente.

Il muezzin chiamava alla preghiera dal minareto del Palazzo dei Khan che ha al centro la fontana cantata da Puskin. I tartari: gli unici forse che potrebbero rivendicare indipendenze visto che fu a loro che la grande Caterina strappò questa parte del mondo. Centomila di loro, nel 1944, furono deportati da Stalin in Uzbekistan su carro bestiame come collaborazionisti dei tedeschi. Sono tornati, quelli rimasti, nel 1990.

Nella pianura di Balaklava vigne placide e mandorli presidiano la valle della morte dove la brigata leggera galoppò follemente verso la gloria. Una colonna con l’aquila dei Romanov ricorda l’eroismo micidiale degli artiglieri russi. Qui molti uomini morirono per una guerra che alla fine nessuno in fondo vinse. Putin nel 2014 fece un calcolo rivelatosi esatto: non ci sarà una nuova guerra di Crimea con l’Occidente, pensò, non ci sarà una Danzica quando l’Europa, seppure balbettante, reagì. La nuova Crimea assomiglierà a Praga 1968.

La storia si può modificare plasmare a piacere. Nel salone di un bianco accecante dove zarine in villeggiatura raccontavano fiabe dolcissime ai figli una statua di Penelope dagli occhi bassi ricorda forse ai Grandi che la principale virtù umana è la pazienza. Anche nel palazzo di Livadia a Yalta fu tutto un teatro di falsi , finsero di andare d’accordo e si divisero brutalmente il mondo. Putin ha imparato la lezione di Stalin con i suoi baffi e la sua pipa funesta: nutrirsi delle nostre debolezze, metterci di fronte al fatto compiuto. Primo o poi ci sarà sempre un Trump che verrà a trattare. Già, perché non riunire a Yalta in Crimea il vertice della nuova pace?

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