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di Luca Billi, 23 maggio 2017
Francamente abbiamo parlato troppo di questa storia dei vaccini – l’ho fatto anch’io in un’altra definizione – e soprattutto ne abbiamo parlato male, senza mai davvero ascoltarci. Lo facciamo sempre di più, anche su argomenti meno importanti di questo. Ora io non voglio tornarci, però credo che questa vicenda possa raccontare qualcosa di noi, di quello che siamo diventati, meglio di tanti saggi e studi sociologici.
Al netto di tutte le speculazioni politiche, delle polemiche più o meno capziose, anche dei ragionamenti in buona fede, cosa ci dice questa storia? Semplicemente che non siamo più disposti a fidarci, che non abbiamo più rispetto per gli altri, o che ne abbiamo sempre meno.
Sarà che io sono nato e cresciuto in campagna nei Settanta del secolo scorso, ma ricordo un mondo un po’ diverso da questo. Mio nonno, il padre di mia madre, faceva il mio stesso lavoro: l’impiegato comunale. Era maestro elementare, scoppiata la guerra era diventato ufficiale, poi non aveva aderito alla repubblica di Salò e non appena finì la guerra, siccome era socialista e aveva un po’ studiato, entrò in comune; nulla di particolarmente eroico, una storia come tante, ma mio nonno, proprio perché era un dipendente comunale, era una persona stimata nel suo paese. Il suo giudizio valeva qualcosa, anche al di là dei suoi meriti e dei suoi demeriti; e come lui gli altri che facevano quello stesso lavoro. Per me e per quelli della mia generazione non è così; anzi se godo di un qualche credito è nonostante il fatto che sia un dipendente pubblico.
Ora non credo che quel mondo là fosse migliore di questo solo perché si credeva a quello che dicevano gli impiegati comunali, i dottori – a cui si faceva il regalo per natale – i maestri – anche quando tiravano una sberla ai loro alunni – si credeva perfino a quello che era scritto sui giornali e a quello che dicevano i politici. Anche allora i dottori mentivano, per incapacità o per dolo, figurarsi i politici e i giornali, però in quel mondo là c’era un rispetto diverso dei ruoli. E delle persone. Un rispetto di cui non godevano le donne e questo era un problema molto grave di quella società, su cui per fortuna c’è stata una reazione, c’è stata una battaglia, il cui esito però non è così scontato come ci illudiamo che sia.
Mi piacerebbe capire quando abbiamo smesso di avere questo rispetto, quando il mondo è così cambiato. Immagino che molti di voi mi considereranno un conservatore perché faccio un discorso del genere, che avrebbe potuto fare mio nonno, che infatti lo era, nonostante fosse socialista, perché ad esempio pensava che sua moglie avesse meno diritti di lui di decidere sulle questioni importanti della famiglia; e sua figlia ancora meno. Provo a non essere come mio nonno e credo che lui su molte cose sbagliasse, però non riesco neppure a farmi andare bene una società come la nostra, in cui non ci fidiamo più di nessuno. E in cui, quando leggiamo una notizia sul giornale, pensiamo sia manipolata, in cui siamo convinti che i medici siano tutti al servizio delle industrie farmaceutiche, e potrei andare avanti così facendo molti altri esempi, ma lo sapete anche voi, lo sentite tutti i giorni.
Poi il rispetto bisogna meritarselo e so bene che non ce lo meritiamo, tutti noi. Se non ci fidiamo è perché sono più le volte che ci hanno mentito di quelle che ci hanno detto la verità, ma anche perché noi abbiamo spesso mentito, e siamo pronti a farlo per averne un vantaggio. Siccome non abbiamo rispetto di noi stessi e sappiamo che saremmo pronti a fregare gli altri, se fossimo sicuri di farla franca, non abbiamo neppure rispetto per gli altri e pensiamo siano sempre lì pronti a ingannarci per il loro tornaconto. Per questo non è un bel mondo quello che stiamo per lasciare ai nostri figli.
La parola rispetto ha un significato etimologico interessante: deriva dal verbo latino respicere che propriamente significa guardare di nuovo, guardare due volte. E noi spesso non guardiamo neppure una volta, tanto siamo convinti di sapere già tutto. Avere rispetto non è solo fidarsi in maniera cieca di quello che ci dicono, solo perché quelli che ce lo dicono sono più importanti, più ricchi, più famosi di noi, ma capire quello che ci dicono, anche non accontentandosi, capire quello che ci vogliono dire. Usare la critica, pensare con la propria testa, non è sinonimo di non fidarsi, come avviene adesso, ma di riconoscere di chi fidarsi, sapendo che gli altri si possono fidare di noi. Perché il rispetto si concede, ma si ottiene, nello stesso tempo e nello stesso rapporto; questa regola vale in famiglia, come nella società. E una società in cui ci si fida funziona un po’ meglio, e forse non è un caso che vogliono che non ci fidiamo, vogliono che siamo sempre così violentemente diffidenti, vogliono che non ci parliamo e non ci ascoltiamo.



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COSI’ VICINI COSI’ LONTANI
di Fausto Corsetti
Quante sono le persone che incontriamo lungo la nostra giornata. Sono volti che guardiamo, storie che sfioriamo, mondi che non conosciamo. Ci si passa accanto, per tutta la vita: e ciascuno può restare se stesso, estraneo all’altro, sconosciuto all’altro.
Ci si può incontrare anche per una sola volta nella vita. Ma quale sarà il senso, il messaggio che ci viene, che può venire da quella persona che, molto probabilmente, non incontreremo mai più. Cosa resta? Cosa lasciamo? Quel passo frettoloso, quel sorriso distratto, quello sguardo interrogante, quella cortesia formale, quella estraneità che incuriosisce, quel mistero che attrae, quell’indifferenza che allontana, quella paura che mantiene le distanze, quella fatica che disarma… e quanto altro ancora è possibile leggere sul volto della gente che, da mattino a sera, affolla il nostro andare e venire, i nostri passi.
Ma non si può incontrare “la gente”. Si incontra solo una “persona”, una persona alla volta. Imparare a sentire l’altro, imparare a sentire i pensieri dell’altro: questa è l’arte e il segno di una vita presente, capace di leggere, di custodire… di ascoltare. Spesso, invece, siamo già oltre a tutto ciò che riempie i nostri passi e la nostra mente, e poi, arrivati al punto, siamo nuovamente oltre, occupati e preoccupati da ciò che viene dopo. Si ascolta, si incontra, ma il più delle volte si corre a ciò che si deve fare dopo.
Ascoltare sembra un’operazione abituale, quasi banale, eppure l’ascolto autentico è raro e difficile. Costantemente immersi come siamo in rumori di vario tipo, sollecitati da messaggi multiformi, non conosciamo più il silenzio come ambiente e condizione indispensabile all’ascolto dell’altro.
Silenzio e ascolto, infatti, pur non identificandosi, si nutrono reciprocamente: è solo nel silenzio che la parola può risuonare nitidamente, ed è lasciando che il nostro silenzio sia abitato da quanto abbiamo ascoltato in profondità che evitiamo di cadere nel mutismo o nel terrore del vuoto e del non senso.
Così, sempre più incapaci di silenzio fecondo, finiamo per smarrire anche l’arte dell’ascolto: lungi dal considerarlo un’opportunità preziosa, subiamo come pratica fastidiosa il dover “stare a sentire” qualcuno mentre, dal canto nostro, siamo sempre pronti a parlare, riversando i nostri confusi bisogni su chiunque si trovi a portata di voce.
Ma cosa significa ascoltare? Innanzitutto accettare in profondità di sacrificare ciò che ci sembra sempre più prezioso: il tempo. Occorre tempo per ascoltare, un tempo vissuto senza fretta, senza angoscia; occorre la consapevolezza che si deve decidere di ascoltare.
D’altronde, l’ascolto è la prima forma di rispetto e di attenzione verso l’altro, la prima manifestazione di accoglienza della sua presenza. Sappiamo per esperienza che l’altro non sempre pronuncia parole di reale interesse, che l’altro spesso chiacchiera o parla a se stesso.
Ma se è vero che l’ascolto esige impegno e pazienza, è altrettanto vero che solo un ascolto autentico sa discernere e trarre lezioni anche da dialoghi apparentemente insulsi…
Ascoltare significa essere attenti, accogliere le parole di chi ci sta di fronte ma anche, più in profondità, tentare di capire ciò che egli vuole comunicare al di là di quanto riesce a esprimere: per questo è necessario impegnarsi a cogliere anche il suo “non detto”, ciò che egli sottende o addirittura nasconde.
Ci vuole sensibilità per riuscire a percepire, per imparare ad ascoltare, per saper sentire l’anima delle persone. Se si continua ad andare avanti guidati solo dai propri pensieri, non solo sarà difficile, ma perfino impossibile ascoltare gli altri, incontrare l’altro.
L’altro resterà per noi solo uno tra i tanti, ma non sarà davvero l’unica persona che chiede la nostra presenza, la nostra attenzione, il nostro incontro.
Colori, profumi, pensieri: li vede, li sente, li insegue soltanto chi sa uscire da sé e accettare la sfida di lasciarsi fermare. Oggi le nostre esistenze scivolano una accanto all’altra, come pensieri anonimi che s’intrecciano e si sfuggono, senza mai diventare pietra che costruisce, fiore che profuma, acqua che disseta.