Fonte: Il Fatto Quotidiano
Netanyahu se la ride dell’Europa
Chissà le risate tra Netanyahu e i caporioni della destra religiosa se, tra una strage e l’altra, hanno avuto modo di informarsi sul kamasutra del dico e non dico, no meglio che non dico, andato in scena giovedì scorso al Parlamento di Strasburgo. Chiamato a condannare Israele per il genocidio del popolo palestinese ma che di genocidio non si azzarda neppure a parlare. Non si riesce a capire cosa diavolo dovrebbero temere i massacratori con la stella di David dal momento che nei contorcimenti linguistici del sinedrio Ue (poche ore prima che a stragrande maggioranza l’assemblea dell’Onu approvasse la risoluzione sui due Stati senza Hamas) la frase più dura ed esplicita invita “a valutare la possibilità di riconoscere lo Stato di Palestina nell’intento di realizzare la soluzione dei due Stati”. Brrr che paura, avranno pensato Bibi (un nome che profuma di violetta) e la sua band di criminali di guerra davanti a tanta faccia feroce, mentre va steso il classico velo pietoso sulle divisioni nello schieramento cosiddetto progressista, come sempre indeciso a tutto. In attesa che “si valuti la possibilità nell’intento” eccetera, i cari dirigenti di centrosinistra avrebbero dovuto ascoltare con attenzione la voce di chi subisce la pulizia etnica dei coloni in Cisgiordania, là dove sostengono che “riconoscere la Palestina non cambia niente”. Ne scrive Alaa Salama per “+972 Magazine” (il testo integrale è su “Internazionale” del 5 settembre), un sito indipendente dove lavorano giornalisti israeliani e palestinesi, affermando che con questi ipotetici riconoscimenti “si rischia di sprecare altri trent’anni di vite palestinesi visto che Israele da tempo ha messo in chiaro che non accetterà mai uno Stato palestinese”. Insomma, la soluzione dei due Stati sarebbe una “ennesima mistificazione” che non fa altro che sviare l’attenzione dalla vera soluzione: “denunciare il regime di apartheid di Israele, agire per sanzionarlo e dare spazio alla volontà dei palestinesi”. Afferma Salama che “riconoscere ufficialmente che il sistema israeliano si basa sull’apartheid, anche solo lo facesse una manciata di Stati renderebbe legalmente e politicamente indifendibile continuare a sostenere militarmente ed economicamente Israele”. E, soprattutto, “aprirebbe la porta alle sanzioni, al ritiro delle rappresentanze diplomatiche e ai divieti di viaggio per i funzionari che sostengono il sistema”. Si metterebbe in questo modo “pressione sulle aziende, con la minaccia di boicottaggio e con la condanna pubblica nei confronti degli azionisti se non rivedranno le loro operazioni in Israele”. Un precedente esiste: nel caso dell’apartheid in Sudafrica l’attivismo e le condanne internazionali costrinsero gradualmente le aziende a disinvestire, anche se molte resistettero per anni. Mentre sembra evidente che adesso più che mai i gesti simbolici fanno guadagnare tempo a un regime che commette crimini, è lecito però chiedersi quale autorità internazionale sarebbe in grado di imporre una qualsiasi sanzione nei confronti di Gerusalemme (e figuriamoci l’apartheid)? Visto e considerato che i cosiddetti “buoni” si nascondono tremanti perfino dietro le virgole.


