Fonte: L'Antidiplomatico
Patrick Lawrence – “Trump derangement syndrome”: dentro la mente di Thomas Matthew Crooks
Nel momento in cui scrivo è ancora impossibile dire perché un ventenne apparentemente normale abbia tentato di assassinare Donald Trump, mentre il candidato repubblicano alla presidenza parlava da un palco nella Pennsylvania rurale sabato scorso. Thomas Matthew Crooks non avrebbe potuto essere più comune di quanto gli americani di periferia si sforzino di essere: aveva vinto un premio di matematica e scienze dopo il diploma di due anni fa; i suoi insegnanti e i vicini lo descrivono come “tranquillo” e “un bravo ragazzo”; nella foto diffusa dalla stampa dopo gli eventi dello scorso fine settimana, la fa da padrone un apparecchio ortodontico.
E allora cosa può aver spinto Crooks a sparare più colpi da un AR-15, uno di quei fucili d’assalto che gli americani possono liberamente acquistare per soli 700 dollari, da un tetto di fronte al palco di Trump, con l’obiettivo deliberato di uccidere l’ex presidente e aspirante tale? Questa è la nostra domanda. Il livello in cui Thomas Matthew Crooks rappresentava l’americano comune, standard come se fosse stato stampato da una macchina, è esattamente la misura in cui questa domanda deve profondamente interrogarci.
Non potremmo mai sentire da Thomas Matthew Crooks un resoconto diretto delle sue motivazioni. Gli agenti dei servizi segreti gli hanno sparato alla testa, uccidendolo all’istante, quando lo hanno, in ritardo, individuato. Siamo difronte ad un chiaro caso di violenza politica, ma è difficile comprendere la motivazione politica di Crooks. Registrato come repubblicano, il partito conservatore americano, non molto tempo fa aveva anche fatto una donazione – 15 dollari – ad un progetto politico “progressista” vagamente identificato con i Democratici. Crooks, sembra evidente da quel poco che sappiamo, era come decine di milioni di altri americani: politicamente confuso, vulnerabile alle manipolazioni dei media e alla immane retorica che ha invaso il discorso pubblico del paese, spinto a passioni ideologiche da un bisogno subliminale di credere in qualcosa in una nazione in cui è rimasto ben poco in cui credere.
Cui prodest? Questa linea di ragionamento è emersa ancor prima che venissero resi pubblici i dettagli del tentato omicidio di Crooks. Si è subito ipotizzato che abbia agito per conto del Partito Democratico, che si sia trovato in uno stato di panico frenetico nelle settimane successive al giorno in cui – il dibattito televisivo con Trump del 27 giugno – Joe Biden ha mostrato la misura della sua senilità davanti a 50 milioni di americani. I Democratici, dopo tutto, hanno passato quattro anni a cercare di screditare Trump con il “Russiagate” e corrotto a fondo il sistema giudiziario federale nei molteplici tentativi di eliminarlo come candidato alle elezioni presidenziali di novembre.
No, personalmente non credo che i Democratici siano oltre il ricorso alla violenza, visto che Biden si rifiuta di ritirarsi da questa corsa e nell’impossibilità di trovare un candidato convincente per sostituirlo. Sebbene questo giudizio possa apparire estremo, è bene ricordare la lunga storia di violenza radicata nella cultura politica americana.
Si sospetta che Crooks non abbia agito da solo. Gli scienziati forensi dell’Università del Colorado riferiscono che le registrazioni sonore effettuate sulla scena del crimine sabato scorso suggeriscano che potrebbero esserci stati due tiratori che hanno sparato contemporaneamente a Trump. Tutto ancora da dimostrare e dobbiamo aspettare le prove che Thomas Matthew Crooks facesse realmente parte di un complotto elaborato, come quello che, come sappiamo, uccise Kennedy 61 anni fa. Ma – e qui c’è un grosso “ma” – questo non vuol dire che gli autoritari liberali che controllano la macchina democratica non siano responsabili del fatidico atto finale di Thomas Matthew Crooks. È così. Trump è stato oggetto di una retorica sconsiderata per mesi, e tornerò presto su questo punto.
Per comprendere veramente cosa abbia spinto Crooks a prendere di mira Donald Trump, dobbiamo infatti fare un passo indietro di qualche anno e analizzare la “Trump derangement syndrome” (si tratta di una definizione data negli Stati Uniti all’isteria degli avversari dell’ex presidente così intensa da non permettere un giudizio politico sull’ex presidente – ndt) il nome che gli americani che non hanno abbandonato la loro sanità mentale danno a questo fenomeno.
Questa sindrome è una condizione ossessiva che porta coloro che ne sono affetti a perdere la ragione e il giudizio su qualsiasi questione che abbia a che fare con Donald J. Trump. Le persone afflitte, tutti “liberali” nel senso americano del termine, lo hanno presentato come l’incarnazione terrena del male assoluto. Era un agente russo, un pericolo per l’alleanza atlantica, un fascista dichiarato, nulla di ciò che ha detto o fatto era minimamente da valutare. Nulla – nessuna guerra, nessuna politica interna, nessuna iniziativa diplomatica – era di alcuna importanza rispetto all’imperativo che Trump dovesse essere rimosso dall’incarico e completamente distrutto come figura pubblica.
La “Trump derangement syndrome” ha prodotto ogni sorta di teorie cospiratorie estreme tra coloro che vi hanno ceduto, la più famosa chiaramente lo voleva un agente al servizio del Cremlino.
L’origine di questa malattia ci porta alla stagione politica 2016, quando Trump e Hillary Clinton erano in campagna elettorale per la presidenza. L’esito delle elezioni del novembre di quell’anno ha prodotto la “Trump derangement syndrome”, facendole assumere il carattere di quella follia collettiva che esplode periodicamente da quando gli europei hanno colonizzato l’America nel XVII secolo. Come le impiccagioni dei quaccheri a Boston alla fine degli anni Cinquanta, i processi alle streghe di Salem qualche decennio dopo, la paranoia antipapale del XIX secolo o le paure rosse degli anni Venti e Cinquanta, anche questa sindrome ha assunto il carattere di panico morale. Si trattava in parte di un rituale di purificazione in cui bisognava scacciare i contaminati.