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E venne un giorno, come nessun altro, in cui gli eroi più potenti della Terra si unirono contro una minaccia comune. Quello fu il giorno in cui nacquero gli Argonauti, per combattere quelle battaglie che nessun supereroe, da solo, avrebbe mai potuto affrontare.
E la storia degli Argonauti comincia, come spesso avviene nell’antica Grecia, con un vaticinio. La Beozia è sconvolta da una terribile pestilenza e l’oracolo dice che finirà solo con un sacrificio. Il re Atamante decide di sacrificare il proprio figlio Frisso. A dire la verità il re vuole ucciderlo perché è figlio della sua prima moglie e, togliendolo di mezzo, vuole favorire i figli avuti dalla seconda: una delle consuete beghe dinastiche di questi re fedifraghi. Comunque gli dei decidono di intervenire, Eracle arriva a Tebe proprio quando il re sta per uccidere il figlio e lo convince a desistere da quel gesto crudele. Poi Ermes, per ordine di Era, porta in città un ariete alato dal vello interamente d’oro. L’animale magico parla a Frisso e gli dice che è meglio fuggire da lì – Atamante può sempre cambiare idea – e lo invita a saltargli in groppa. L’ariete vola fino alla Colchide – la terra che ora conosciamo con il nome Crimea – e, una volta arrivati, Frisso, in segno di riconoscenza, sacrifica l’ariete. Il vello d’oro, rimasto intatto, viene venerato come un tesoro dagli abitanti di quella regione lontana.
Naturalmente Giasone chiede consiglio all’oracolo, che gli risponde di organizzare una grande spedizione via mare per recuperare quell’antica reliquia. Il più bravo a costruire navi è un certo Argo della città tebana di Tespie, che in poco tempo per Giasone ne fabbrica una con cinquanta remi. Adesso bisogna solo formare l’equipaggio e Giasone manda degli araldi in tutte le città greche, chiedendo aiuto. In cinquanta rispondono a quel singolare invito: nascono così gli Avengers, pardon gli Argonauti.
La storia degli Argonauti, a differenza di quella della guerra di Troia, si forma in un tempo in cui è ancora vivo il ricordo di un’altra storia, quella in cui comandavano le donne, quella in cui in Grecia veniva adorata la Grande Madre e il tempo veniva calcolato seguendo il calendario lunare. E infatti Atalanta è una vergine cacciatrice come Artemide, la dea lunare, e Cenis significa “nuova”, un attributo della luna.
È lungo e pericoloso il viaggio della nave Argo: occorre passare l’Ellesponto controllato dalla città di Troia, allora governata dal re Laomedonte, che impedisce alle navi greche di passare. La nave Argo riesce nell’impresa costeggiando di notte dalla parte della Tracia. Se le città greche vorranno fare affari con i popoli che si affacciano sul Ponto Eusino dovranno occuparsi di quella maledetta città. Ma adesso gli Argonauti non hanno tempo di fare quella guerra. Poi la nave Argo attraversa il mar di Marmara, passa il Bosforo e costeggia tutto quel grande mare dalla parte orientale, fino alla Colchide: un viaggio tutt’altro che semplice. In quelle terre, tra la penisola anatolica e il Caucaso ci sono popoli “strani”: là ci sono le Amazzoni – e Giasone capisce che è meglio evitare quelle donne guerriere – e più a nord i Tibareni, esperti lavoratori dei metalli, un popolo che ha una caratteristica davvero bizzarra: quando le donne stanno per partorire, sono i maschi che gemono. Ci vorrà del tempo prima che la “civiltà” arrivi anche in quelle lontane contrade.
Finalmente Giasone e i suoi compagni raggiungono la Colchide. Peraltro non sono gli stessi che sono partiti: Eracle ha lasciato la compagnia per compiere le sue imprese, qualcuno è morto e qualcun altro è stato arruolato per via.
Il re Eeta si stupisce non poco di trovarsi di fronte quegli stranieri: paga Laomedonte per tenere lontani i Greci. Giasone, dimostrando una gran faccia tosta, chiede a Eeta di dargli il vello d’oro. Naturalmente dapprima il re si rifiuta. Poi promette di dare il vello d’oro a quel giovane sfrontato se riuscirà ad aggiogare i due feroci tori dagli zoccoli di bronzo e dalle narici fiammeggianti, a tracciare quattro solchi nel terreno e a seminarci dei denti di drago, quei pochi che sono rimasti a Cadmo, quando li aveva seminati tempo addietro a Tebe. Anche Eeta, come Pelia, è convinto di essersi sbarazzato di quel visitatore importuno. E sarebbe così, ma la figlia del re, Medea, si innamora di Giasone ed è lei che permette a quello straniero di compiere l’impresa. Senza questa donna gli Argonauti, i più forti e valorosi supereroi della Grecia, dovrebbero tornare a casa sconfitti.
Con il suo prezioso carico la nave Argo può fare ritorno in Grecia. Il viaggio di ritorno è più lungo e complicato di quello di andata, anche perché a questo punto non è proprio possibile tornare per la via percorsa, attraversando come nulla fosse l’Ellesponto. Sulla rotta della nave gli aedi si sono sbizzarriti. Alcuni sostengono che gli Argonauti siano passati per l’oceano Indiano, entrando nel Mediterraneo dal lago Tritonide nell’Africa settentrionale. Altri che la nave sia risalita per il Danubio, abbia trovato il collegamento tra questo fiume e il Po fino all’Adriatico. Altri ancora che invece dal Po sia passata nel Rodano e quindi arrivata sul Tirreno, per fare tappa nell’isola di Circe, zia di Medea. Altri invece pensano che abbiano navigato lungo il Danubio fino al grande mare che circonda l’Europa a nord e quindi che la nave sia rientrata nel Mediterraneo passando per le colonne d’Ercole. Qualcuno racconta che quegli eroi abbiano risalito il Don per poi portare la nave a spalla fino a un fume che collega quelle estreme regioni alla Finlandia.
Qualunque sia la strada scelta, tutti gli aedi raccontano che Medea è diventata il comandante di fatto della spedizione: si è guadagnata sul campo quel ruolo. È Medea che sconfigge le navi mandate da Eeta per recuperare il vello d’oro e uccide suo fratello Apsirto che guida l’inseguimento. È Medea che esorta Orfeo a cantare mentre passano accanto alle Sirene, in modo che il suo canto sovrasti quello di quelle pericolose creature. È Medea che convince i “suoi” uomini a non catturare le bellissime vacche sacre di Elio sulle coste della Sicilia. Questa donna riesce a fare cose che anni dopo Odisseo non riuscirà a fare. Ed è sempre Medea a eliminate Talo, il gigante di bronzo costruito da Efesto che dall’isola di Creta lancia pesanti massi sulle navi che si avvicinano.
Quando finalmente la nave raggiunge la Tessaglia, Giasone viene a sapere che Pelia, poco dopo la sua partenza, ha ucciso tutta la sua famiglia e ha fatto spargere la voce che gli Argonauti sono morti. Gli uomini, riuniti in consiglio, affermano che la città di Iolco non può essere espugnata, che a quel punto è meglio rinunciare. Hanno il vello d’oro e soprattutto tante storie da raccontare. Naturalmente è ancora Medea che si incarica di preparare un piano: loro dovranno solo nascondersi in un bosco vicino, quando vedranno una fiamma brillare sul tetto del palazzo reale quello sarà il segnale che Pelia è morto e che la città è pronta per essere conquistata.
Medea si traveste da vecchia e, presentatasi alle porte della città, offre la fortuna di Artemide se la faranno entrare. Le guardie non temono quella vecchia ed è meglio non rifiutare l’aiuto di una divinità. E così quella donna misteriosa è condotta al cospetto di Pelia. Il re, sospettoso, le chiede cosa voglia la dea da lui e la vecchia dice che è giunta fin lì per offrirgli l’eterna giovinezza. Nessun tiranno può resistere a una proposta del genere, ma Pelia dice che non le crede. Allora la vecchia promette di offrirgli una dimostrazione del suo potere. Cade il travestimento e Pelia si trova di fronte una giovane e bella donna. Il trucco funziona: Pelia comincia a vacillare, ma ancora non cede. Allora Medea si fa portare un vecchio ariete, lo uccide, lo taglia in tredici pezzi e comincia a bollirne le carni, pronunciando misteriose formule magiche. Pelia ormai vede solo quello che vuole vedere e quando tra i fumi della pentola appare un agnello che Medea ha nascosto nella statua della dea che si è portata dietro, chiede cosa debba fare per tornare giovane anche lui. Medea dice che occorre fare come con l’ariete. Salgono sul tetto del palazzo per compiere quel rito più vicino alla luna e Medea spiega alle figlie di Pelia che devono tagliare il corpo del padre in tredici pezzi e poi gettarli in un calderone fumante. Quando l’hanno fatto devono agitare delle torce per invocare la luna. Gli Argonauti non credono ai loro occhi, anche se sanno quanto Medea sia brava.