Fonte: La stampa
Quei leader in gioco e l’arte dell’inganno
Come quei pesci degli abissi abituati alla pressione costante di molte atmosfere che quando salgono in superficie non riescono ad adattarsi alla sconosciuta levità e muoiono per insufficienza di pressione, i protagonisti dello stento negoziato per la guerra in Ucraina, rintanati comodamente da più di tre anni nei furori di reciproci vituperi sempre oltre misura, adesso che emergono alla superficie, affastellati in tavoli e tavolini negoziali, non riescono a fidarsi l’uno dell’altro. E rischiano di lasciar passare invano il breve momento buono, l’occasione per farla finita. Purtroppo questi sinedri di figure, gravi arcigne e sonnolente, mancano del nutrimento essenziale per qualsiasi accordo di pace, la fiducia e il rispetto reciproco.
Allora è tutto un tira e molla, una altalena, un dà che forse do, un va e vieni. La finta diplomazia di questi giorni non è l’arte della assicurazione e della contro assicurazione, ma semmai dell’inganno e del para inganno, dello scavare tante buche per l’avversario da non saper poi come camminare trovandosele intorno ai piedi. Democratici chiacchieroni, reazionari infrolliti, tirannelli arroganti: incapaci di volere il bene e il male fino in fondo, invischiati nei mezzi termini e nei pregiudizi. Berteggiano i creduloni che parlan dei loro post e dei summit come “storiche occasioni”.
Prendete Macron, l’europeista volenteroso che per “fidarsi” pretende di presidiare con i suoi soldati l’Ucraina per toglier la voglia alla “revanche” putiniana. Che cosa Macron non sa, lui zeppo di esperienze, che ha conosciuto tutto, catalogato tutto, sviscerato tutto, fatto i conti di tutto? Ha precisato, a scanso di equivoci che noi europei conviviamo con un orco alle porte… ovvero Putin. Un pensierino destinato a lasciare i suoi solchi. Avete mai letto una fiaba in cui si fa la pace con l’orco? Non sorprende che ci sia qualcosa che ci condanna nel Decrepito Continente a restare soli con lui, la trattativa con simili personaggi al tavolo è destinata a procedere a strattoni, a urtare con mille ostacoli, a capovolgersi. Come volete che venga fuori qualcosa di buono?
Ci vorrebbe semmai un farmacista politico che, non potendo guarire il mondo dal disordine, sappia almeno addormentarlo. Il sonnifero si chiama equilibrio. Che può esser bevanda composta da un equilibrato dosaggio di egoismi.
È un problema di uomini dunque. Ma soprattutto è un problema di regole, annaspa un Grande Gioco in cui non c’è accordo su come giocare. Il congresso di Vienna fu un esempio perfetto di trattativa ben condotta, che metteva alla pari perfino lo sconfitto. Perché tutti i protagonisti, anche Talleyrand condividevano un sistema di pensiero e un orizzonte politico, l’Antico regime, che avevano il compito di restaurare dopo la bufera napoleonica. Oggi non c’è nessun ordinamento, dritto o storto, a cui si possa far riferimento per verificare che ognuno dei contraenti poi applichi quanto promesso e che, in caso di violazione possa ragionevolmente mettere in conto una punizione collettiva efficace.
Allora: la fiducia. Prendiamo il più importante dei protagonisti, quello che si illustra come l’onesto sensale indaffarato a spegnere una “guerra stupida”, sì lui il melmoso Trump. È la dimostrazione antropologica del principio, condiviso anche da Napoleone, che ci sono due cose che muovono gli uomini, l’interesse e la paura. Tutto il resto è una stupida infatuazione su cui è pericoloso fare assegnamento. Trump non è amico di nessuno, neppure di quelli che potrebbero essere i suoi alleati. Agisce e si ritira, dice e poi dice il contrario secondo il proprio interesse. È intensamente egoista, è perfido, bara sulle carte, è un prodigioso pettegolo, si vanta di sapere tutto, ha maniere grossolane ma esige gli evviva e le adulazioni della strada e dei vassalli. Rifiuta di fare il garante, al massimo aderisce a qualche lucroso affare. Si sbaglia a sospettare dietro il pacifista il ciurmatore? Vi fidereste di uno così in cui il metodo diplomatico consiste nel sottoporre i suoi “ospiti” alternativamente a blandizie o a maniere da brigante, dar ragione sempre all’ultimo che ha incontrato salvo poi rovesciare il copione nell’incontro successivo. Zelensky è sopravvissuto a questo metodo, il getto di sassi che si mette in getto di fiori. Così è tornato a casa contento, soprattutto di far marcire nel vago queste dismissioni di terre sacre. Che sarebbe tra l’altro una delle chiavi da introdurre preventivamente per schiudere il negoziato.
E Putin? Che cosa ci vorrebbe per aver fiducia in uno che, come Gulliver a Lilliput, è convinto della inferiorità di tutti quelli che gli stanno intorno? Per tenere a bada un personaggio che legge la Storia come un immenso testo liturgico in cui i versetti sono gli immancabili destini della Santa Russia e crede nelle sue cinquemila bombe atomiche e non fargli venire tentazioni, forse non bisognerebbe ripetergli che non vediamo l’ora di poterlo processare in base a un diritto che solo noi riconosciamo. Putin e Trump: quale scintilla può mai nascere da queste due centrali elettriche?


