Vince sempre il populismo. Al governo manca un’idea di società

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti / Michele Prospero
Fonte: Striscia Rossa

di Alfredo Morganti

Il governo Conte e la ‘coalizione sociale’ di Prospero.

Leggo l’apocalittico articolo di Michele Prospero (Vince sempre il populismo) e poi, proprio verso la fine, dopo tanta pars destruens, arrivo inaspettatamente alla pars construens, e leggo (anche un po’ stupito): “La sinistra avrebbe dovuto costruire una coalizione sociale alternativa all’imbroglio populista e invece ha accettato di condividere il percorso verso il nulla”. Proprio così: “coalizione sociale”, locuzione che, in primo luogo, non vuol dire proprio nulla, e anzi penso andasse un pochino spiegata meglio. Ma, soprattutto, è una formula che fa sussultare. Perché? Perché se vuoi batterti contro il populismo, semmai, costruisci coalizioni politiche, non tout court sociali. Mi sono anche sforzato di comprenderne il contenuto: ho pensato che dentro potessero esserci il sindacato, i centri sociali, il ‘popolo’, e poi una sinistra non riducibile al “ceto politico” (termine con cui Prospero ‘marchia’ Leu, che quindi sarebbe stata fuori dai giochi) ma diffusa, quasi sciolta dalla propria attuale forma organizzativa, fatta di ‘popolo’ vessato, o meglio: che va ‘verso il popolo’ con forti contenuti radicali e sociali. Sarebbe senz’altro stata tutta roba di sinistra, non dico di no, ma di certo sarebbe stata anche roba ‘populista’. Populismo di sinistra. Linearmente succedaneo alla ‘chiacchiera’ attuale, a conferma che il populismo si è davvero mangiato tutto, anche la sinistra, anche la critica di sinistra, anche l’antipopulismo più intransigente.

Io resto convinto che solo i partiti (non i contenitori elettorali attuali, ma i partiti, al plurale, nel senso più nobile) possano salvarci dal populismo, e con essi un ritorno in auge del Parlamento, magari con una legge proporzionale corretta (appena appena). Ma non le coalizioni sociali, e cosa veramente vogliano dire (potere al popolo?). Il populismo si batte ripristinando la corretta dialettica di una repubblica parlamentare, e dunque curvando pian piano il sistema in quella direzione, non solo con la crescita economico-corporativa o rendendo tutti più ricchi e felici. “Il populismo non crolla per un soprassalto di spirito critico della società civile” difatti, lo dice proprio Prospero. Né per la diffusione ‘a palla’ del benessere. La risposta è la politica, solo la politica, e diventa sociale per deduzione. Evitando in primis i catastrofismi, che di solito producono una sorta di eterogenesi dei fini, oppure si auto-avverano in termini profetici (e non sarebbe auspicabile).

Nel pezzo di Prospero, peraltro, l’apocalissi non è sviluppata dialetticamente, come sarebbe stato invece opportuno. È talmente evocata e celebrata nonché rappresentata (la sanità pubblica sarebbe “classista”, in una iperbole che non aiuta a capire granché: la sanità classista è tutt’altra cosa, per quanto quella pubblica italiana vada migliorata, anzi salvata), che dire ‘coalizione sociale’, indicarla come soluzione al termine dello sfracello esposto precedentemente (che toccherebbe tutti, immagino quindi anche se stessi, sennò non vale) fa davvero sussultare e poi sorridere. Il Conte Bis è un governo di coalizione, politico, e nasce attorno alle due forze maggiori del Paese. È un campo di scontro, non una camera caritatis. Servono occhi critici, certo, severi, ma anche attenti a cogliere le differenze, perché fare un pastone di tutto è sin troppo facile. Tant’è che una parte almeno di questo governo un’idea di società ce l’ha: l’ha spiegata Gualtieri in un paio di interviste, così ha fatto Zingaretti in altre occasioni, Leu lo fa da tempo. Questa idea di società, che può legittimamente non piacere ma c’è (e può essere criticata da destra, da sinistra, da sopra e da sotto, ma mai negata) è un pezzo della dialettica di governo e tra le forze politiche di maggioranza. Negarlo, peraltro, a che serve?

Ma la cosa più inquietante è un’altra. Si dice nel pezzo di Prospero: Salvini oggi si prende la piazza; pensavate di fermarlo con un governo che lo escludesse e invece adesso è ancora lì. Io non credo che formare questo governo volesse dire cancellare d’emblée Salvini e il subbuglio sociale che rappresenta. Di certo ha significato sfilargli il Viminale, di certo ha significato impedire che si andasse a elezioni a suo piacimento, con lui Ministro dell’Interno, sotto la minaccia di pieni poteri. Non capisco perché una ‘coalizione sociale’, nel caso, avrebbe potuto invece impedire all’Italia malata terminale di populismo di spingere la destra in carrozza a Palazzo Chigi. Né capisco perché sarebbe stato meglio se questo fosse avvenuto. Né, ancora, capisco perché si debbano sparare palle incatenate all’esecutivo Conte (che non è certo il migliore dei governi possibili, ma è di sicuro un passo avanti rispetto alla destra-destra al governo) e quindi anche alla sinistra che ne fa parte, e perché questo furore antigovernativo possa essere l’anticamera o il viatico di un ordine nuovo.

L’incubo Salvini non si batte dipingendo di nero tutto, ma cogliendo differenze, scarti, toni e coloriture diverse che sono all’interno delle forze politiche e del governo, tant’è vero che l’equivoco Renzi è sciolto, Di Maio sta giocando il tutto per tutto, Forza Italia non mi pare compattissima né disposta in toto all’OPA renziana o, viceversa, a quella salviniana. Prima di consegnare il Paese e il Quirinale alla destra-destra si doveva tentare una soluzione, politica magari, ben più che populistico-sociale. Per responsabilità, per entrare in gioco, per fermare i propositi di destra. Se questa soluzione politica non riuscisse (anche per insipienza dei protagonisti, non lo escludo), Salvini andrà al governo come comunque avrebbe fatto adesso se si fosse andati al voto. D’altra parte, a forza di picconare Conte, alle elezioni si andrà senz’altro a breve, anzi a brevissimo, nella piena soddisfazione dei più intransigenti, e molti così forse usciranno finalmente dal loro sonno dogmatico, quello per cui basti evocare i subalterni, le ingiustizie che essi patiscono e la società sofferente per passare direttamente all’incasso politico. Non è così. Così si aggiunge solo populismo a populismo, nient’altro.

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Ecco l’articolo di Michele Prospero

Vince sempre il populismo
Al governo manca un’idea di società

Chi si era illuso che la follia d’agosto scoppiata nel Papeete avesse liberato la repubblica dall’incubo sovranista è stato risvegliato dal proprio sonno dogmatico dalle immagini di piazza san Giovanni. Prima del passaggio a un atteggiamento di collateralismo filogovernativo, solo il sindacato era in grado di occupare la piazza per reclamare una nuova politica economica. Ora le condizioni sono del tutto mutate e il governo è capace al più di riempire i teatri o la sala della Leopolda le cui imprese oratorie contro le tasse sono rigonfiate dai media che le impongono di nuovo ai vertici dell’agenda setting. Anche il decennale grillino si è svolto in una piccola sala oscura nella quale, tra le luci abbaglianti di una (anti) politica da avanspettacolo, il capo politico si esibiva con le parole che uscivano dalla sua nota intelligenza di statista addetto alla politica estera: “siete bellissimi, belli, belli”.

Il sistema politico è tutto ricompreso nei confini larghi di un regime populista. La sola lingua che si parla è quella imposta dal dialetto populista (che propone il voto ai sedicenni e il depennamento dalle liste elettorali dei vecchi) e getta ombre sulla politica in quanto tale. La gigantesca forbice esibita dai grillini davanti a Montecitorio, per celebrare la vittoria sulla casta e rivendicare il risparmio sui costi della rappresentanza politica, indica il trionfo simbolico della chiacchiera populista. Ad essa nessuno più si oppone, ha vinto sul campo l’antipolitica più folle che occupa il governo intimando a tutti di obbedire alla sua distruttiva logica.
Cosa importa che proprio la riforma costituzionale anticasta determina una grande forzatura istituzionale quando la volontà della coalizione “di svolta” è quella di durare comunque, con fibrillazioni quotidiane, fino al 2023 per eleggere il nuovo capo dello Stato? Il populismo non ha regole, limiti e quindi il nicodemismo dei costituzionalisti non trova alcuna stranezza nel proposito governativo, ribadito alla Leopolda, di resistere nel palazzo pur di far eleggere il prossimo inquilino del Quirinale “europeista e non populista” dall’attuale Parlamento (che però ha il 36 per cento in più di componenti rispetto al nuovo organo e un senato eletto con centinaia di migliaia di elettori in meno in confronto con la istituzione ridisegnata).

Anche la sinistra, che dopo l’esultanza grillina per la secolare vittoria riportata contro la povertà, festeggia anch’essa la vittoria definitiva sulla diseguaglianza con il modico costo dell’abolizione del super ticket, sostituisce la propaganda alla realtà e sfida la percezione reale dei nodi del servizio sanitario nazionale. A rendere classista la sanità pubblica non è certo il super ticket, che prevede anche larghe esenzioni, ma il salato costo delle prestazioni (non solo di quelle) più sofisticate, il regime dell’intramoenia come di fatto propedeutico al ricovero, il prezzo proibitivo degli accertamenti diagnostici, l’impossibilità di accedere ai medicinali più efficaci nelle cure. La sanità divenuta azienda si spinge infatti sino a imporre ai medici di base, che ne rispondono anche in solido, il suggerimento di non prescrivere i farmaci più costosi o di desistere dalle richieste dei pazienti più fragili di accedere a servizi, a nuove tecnologie e a macchinari considerati onerosi e quindi selettivi. I tempi biblici delle prestazioni vitali spingono il malato o a rinunciare alla cura o a rivolgersi al privato. Proprio la sanità privata è un’impresa in crescita, anche in tempi di grande stagnazione, e i suoi profitti dipendono proprio dalla condanna scientifica, operata dai governi centrali e regionali, in termini di risorse e di personale, che spinge all’eclisse della sanità pubblica. La carenza del sistema sanitario non è neppure di tipo edilizio, tanti ospedali sono cattedrali nel deserto, molti chiudono mentre in quelli che restano aperti il numero dei ricoverati è sempre più sproporzionato rispetto alla quantità di personale esistente dopo i tagli al turn over nella pubblica amministrazione. Macchine e tempo, altro che super-ticket, generano una diseguaglianza intollerabile tra le persone a seconda della ricchezza.

Quello che manca al governo “di svolta” populista è un’idea di società e una innovativa politica economica. La galera agli evasori stuzzica il giustizialismo dei grillini, ma ne minaccia anche la tenuta in una parte consistente del proprio elettorato residuo (partita iva, lavoro autonomo, del commercio, micro-impresa a conduzione individuale) che respinge l’idea dell’idraulico con il bancomat nella cassetta degli attrezzi. Continua a imperversare quella distruttiva politica delle mance, della distribuzione di bonus (a detrimento del pubblico) che trasforma il governo in un Babbo Natale con pochi doni che per avere il voto dà contentini a tutti mentre il sistema affonda (niente rende in maniera più trasparente la condizione odierna che la metafora della invasiva spazzatura di Roma). Un governo che inneggia a Rousseau lo tradisce perseguendo la perversa volontà di tutti (piccoli bonus a iosa) contro la retta volontà generale (politiche selettive di lungo periodo).

La malattia del micro-riferimento temporale dei governi impedisce di rispondere alla decrescita infelice che scandisce la seconda repubblica moribonda sin dal suo momento genetico. Nei 25 anni ricompresi tra il 1994 e il 2019, la crescita complessiva del paese è di soli 17,474 punti reali di Pil. La media della crescita registrata negli ultimi 25 anni è quindi di un misero 0,6 per cento. Il populismo è causato proprio da questa stagnazione ultradecennale e poi, con la sua condotta ingannevole, la conferma, la rende insuperabile condannando l’Italia a una perifericità che la strattona sino al declino. Il populismo non crolla per un soprassalto di spirito critico della società civile, che reagisce alla banalità del leaderismo ridicolo che domina nella rappresentazione mediatica, ma per l’autodistruzione catastrofica delle sue (anti) politiche.

La sinistra avrebbe dovuto costruire una coalizione sociale alternativa all’imbroglio populista e invece ha accettato di condividere il percorso verso il nulla. Costringendo il Pd ad accodarsi al Conte bis, il rottamatore redivivo aveva visto giusto: l’alleanza di governo con il M5S significava l’induzione al suicidio del Pd e del ceto politico di Leu e la condizione minimale di una sua rinascita con un ghiotto potere di ricatto. E così mentre il Pd è agli ordini dell’ex-avvocato del popolo, che su imbeccata dell’ineffabile Casalino si fa riprendere come direttore d’orchestra per rendersi simpatico, il capitano incombe acclamato dalla piazza. Il palazzo che con un’operazione di pura nostalgia enfatizza l’evento della Leopolda è assediato da una piazza che non si disperde a colpi di manovre e tatticismi.

 

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