Fonte: facebook
di Alfredo Morganti – 22 novembre 2014
Oggi Repubblica regala a Renzi un box di prima pagina non firmato (quasi un comunicato), ben centrato tipograficamente affinché non possa sfuggire all’attenzione del lettore. E lo mette in guardia contro il linguaggio e lo stile che usa quando attacca il sindacato italiano, segnatamente la CGIL. Il premier, secondo Repubblica, “dileggia il sindacato, banalizza le ragioni della protesta, svaluta insieme con lo sciopero una storia legata alla conquista e alla difesa di diritti che tutelando i più deboli contribuiscono alla cifra complessiva della democrazia di cui tutti usufruiamo”. Rileggete l’ultima frase: si dice che senza il sindacato, senza la tutela che fa dei più deboli, la cifra stessa della democrazia ne sarebbe oltraggiata. Come dire che la coesione sociale, ossia la riduzione al minimo della distanza tra ricchi e poveri, la tenuta della trama e del tessuto della ‘nazione’ (di cui pure Renzi tanto parla a proposito di nuovo ‘partito’), dipende dalla possibilità di rappresentare anche (soprattutto) interessi deboli e disagiati, non solo quelli forti degli imprenditori o dei finanzieri d’assalto.
Senza coesione sociale poco resterebbe della ‘nazione’, appunto. E poco del ‘partito della nazione’, tanto esaltato dal premier. Mi chiedo: che partito sarebbe quest’ultimo se la nazione si presentasse ‘monca’ all’appello, priva di un segmento essenziale di ‘disagiati’, di ‘ultimi’ (non solo i non-garantiti in assoluto, ma i dipendenti, gli operai, le famiglie che vivono del solo lavoro, gli spezzoni sociali che il sindacato rappresenta)? Perché la ‘nazione’ non è un territorio, non è uno Stato, ma è costituita da persone, donne e uomini che parlano una lingua, sono accumunate da una cultura, dalla storia, dalla tradizione, da un senso di fratellanza. Una nazione non esiste, non ‘tiene’, se una parte di essa non si sente rappresentata nel consesso, se l’abisso della diseguaglianza si estende sempre di più. Ciò vale per i precari, i non-garantiti, dicevamo, ma vale anche per gli operai, i lavoratori dipendenti, per i quali le ‘garanzie’ sarebbero 1200-1300 euro al mese e le fabbriche che chiudono, nonché gli smottamenti sociali continui a cui vengono sottoposti.
Quale ‘nazione’ dunque dietro il nuovo ‘partito’ renziano? Dove si arriverà mai se una quota consistente di interessi deboli non venissero più rappresentati autonomamente? Se il governo si arrogasse il diritto (come già fa) di rappresentare ESSO STESSO quegli interessi, direttamente, senza più ‘intermediazioni’ sindacali (perché questo è)? Ecco. Un bene da preservare, dunque, è proprio l’autonomia degli organismi di rappresentanza, la forza della mediazione sociale, l’idea che ricchi e poveri, per stare tutti sulla stessa barca, non debbano trovarsi i primi su una nave crociera e gli altri in zattera, se non direttamente a nuoto e privi di salvagente. Non nasce bene un ‘partito della nazione’ che lavora alla divisione delle persone che ne dovrebbero far parte. Sarebbe un truffa bella e buona. Sarebbe una questione solo di ceto politico, che non riguarda ‘direttamente’ le donne e gli uomini, ma il Palazzo, visto che il sociale resta sullo sfondo, inibito a farsi rappresentare autonomamente, libero solo di votare lui, il leader e poi basta.
Ed ecco il punto: il consenso. Costruito sulla pelle del sindacato e nel deserto della mediazione sociale, che consenso è? Quale qualità esprime? Perché la democrazia non è fatta soltanto di risultati elettorali, non è solo quantità. Senza coltivare un senso della comunità, della prossimità, senza restringere i baratri, senza abbattere i muri, senza contenere il più possibile le disuguaglianza (tanto più nei momenti di crisi), senza consentire, incentivare e anzi agevolare le rappresentanze popolari, senza dialogare con esse davvero, tutto si riduce a una stupida conta tra parti politiche che non sono più parti, né veri avversari, ma complici del medesimo gioco politico. E il ‘partito della nazione’ non potrebbe essere affatto quello delle donne e degli uomini che condividono un destino storico, ma semplicemente la casa comune di un ceto politico di transfughi, un specie di magnete che li attrae ipnoticamente nel miraggio di un lungo, lunghissimo periodo di gestione del potere. Un po’ poco francamente per tirare fuori questo Paese dalla croce della crisi e della diseguaglianza in cui affonda.




