L’economia in crescita del keynesiano Obama

per nicola
Autore originale del testo: Nicola Boidi

di Nicola Boidi

 «Basta austerity, basta ossessione per il pareggio di bilancio, bisogna tornare a spendere per favorire la crescita. Poi quando la ripresa si sarà consolidata, ci saranno il tempo e le risorse per affrontare la questione del debito e del deficit……. non puoi continuare a spremere i Paesi che sono nel mezzo della depressione. A un certo punto ci deve essere una strategia per la crescita affinché possano pagare i debiti ed eliminare una parte del deficit»

Barack Obama.

In economia come in politica non esistono ricette miracolose che risolvano istantaneamente gravi stati di crisi o recessione economica, così come non esistono uomini della provvidenza. Fatta questa premessa si può però dire che ci sono politiche economiche e politiche economiche, quelle che sono in grado di avviare un processo di ripresa, di seminare le premesse perché una crescita economica sia di nuovo possibile, e altre invece che perseguono ostinatamente, con una convinzione che sfiora il fideismo o abbraccia l’ideologia, condotte e strategie economiche e sociali che non fanno altro che avvitare la recessione su sé stessa, alimentare la sua spirale«mortale», prolungare l’immane sofferenza e privazione materiale di milioni di individui e famiglie, procrastinare sine die la prospettiva di un ‘uscita dal tunnel.

Il primo caso è quello dell’inizio di un nuovo ciclo di crescita, incentivato, sostenuto, spinto dall’amministrazione del presidente Barack Obama negli Stati Uniti, il secondo è invece quello che si muove in direzione « ostinata e contraria», il modello dell’Unione Europea che, nel fatidico 2010, con la crisi dei debiti sovrani degli Stati europei, causati dalla necessità di risanamento dei bilanci in default delle banche private – prima la Grecia, poi L’Irlanda e il Portogallo, seguiti dalla Spagna , dall’Italia e dalla Francia – ha deciso di perseguire una drastica riduzione della spesa statale (dei deficit nazionali) e il ripagamento dei debiti nazionali.

A sei anni dall’inizio della «cura Obama » il presidente degli Stati Uniti ha potuto annunciare l’uscita dal paese dalla fase di recessione, la diminuzione del tasso di disoccupazione dal 10% (15 milioni di persone) al 5, 6 (8 milioni di disoccupati), una percentuale di crescita costante del Pil tra il 3,5 % e il 4,5 % e l’assunzione di 2,6 milioni di persone nell’anno 2014, con la prospettiva di una nuova direzione dell’economia nazionale, dopo la «sbornia» trentennale dell’economia «postindustriale» o «virtuale » della «finanza creativa». Come si diceva la bacchetta magica non esiste in queste faccende e solo un ostinato, diuturno impegno del governo americano nel perseguire determinate strategie d’incentivo economico ad ampio raggio ha potuto infine sortire i suoi effetti.

Si possono tranquillamente etichettare come politiche economiche «keynesiane» quella avviate da Obama a partire dal febbraio 2009, una serie di misure economiche assunte dal governo che incontrano in una prima fase serie difficoltà. La prima misura presentata è il cosiddetto Recovery act, una legge di stimolo economico da 787 miliardi di dollari in esenzioni fiscali a imprese e lavoratori, spese per le infrastrutture (e di conseguenza per la creazione d’impiego) e l’estensione dei sussidi di disoccupazione,che viene fatta approvare dal congresso. Questa misura non ottiene una rapida efficacia, perché, come è stato osservato, gli sconti fiscali invece di essere impiegati dalle imprese per nuovi investimenti e dai lavoratori per aumentare la loro spesa pro capite (la domanda aggregata individuale) vengono depositati in banca e le aziende incominciano ad accaparrarsi il contante come forma di risparmio.

L’iniezione di liquidità immessa nell’economia anche attraverso il quantitative easing (acquisto di titoli di stato pubblici e privati, o di pacchetti di azione, sul mercato delle borse finanziarie in cambio di denaro contante da parte della Fed , la Banca federale) filtra con lentezza e un ritardo di mesi se non di anni. I progetti previsti e proposti dall’amministrazione Obama di lavori pubblici infrastrutturali «di rapido intervento e attivazione» sul modello del New Deal di Roosvelt per dare rapidamente lavoro ai disoccupati, non vengono accolti dai parlamentari dei differenti Stati federali che lanciano controproposte di progetti a lungo termine nei propri Stati, con pochi effetti immediati sull’economia. In quel torno di tempo, tra il 2009 e il 2010, sembra valere il vecchio detto keynesiano che la politica monetaria del quantitative easing «nel suo splendido isolamento» non è in grado da sola di fare da stimolo alla ripresa economica, perché per quanto denaro tu immetta non si possono costringere le aziende a fare investimenti:« non puoi spingere da dietro con una corda» o«costringere il cavallo a bere se non vuole».

Economisti keynesiani come il premio nobel Krugman, poco convinto che quel primo stimolo sia stato abbastanza largo o immediato, insiste sulla necessità di una seconda e più robusta iniezione di liquidità, crediti e opere infrastrutturali pubbliche nel sistema dell’economia. L’immissione di liquidità nel sistema economico da parte della Fed (Banca federale ) è effettivamente continuata nel «combinato disposto» di quantitative easing e finanziamento diretto della spesa pubblica in deficit : ben 3.000 miliardi di dollari dal 2009 ad oggi sono stati immessi in quantitative easing dalla Fed sul mercato finanziario statunitense, tenendo al minimo i tassi d’interesse a lungo termine, e svalutando il dollaro ;il deficit della spesa pubblica è cresciuto in soli due anni dal 2,8% del 2008 al 12,2% del 2010. L’amministrazione Obama ha di fatto seguito il consiglio degli economisti keynesiani di implementare la spesa pubblica con un ulteriore pacchetto di «stimolo economico» di 858 miliardi di dollari in due anni in sussidi di disoccupazione, in aumento dei contributi previdenziali e degli investimenti in infrastrutture e istruzione. Il Tesoro americano ha acquistato inoltre ingenti pacchetti di azioni delle tre maggiori aziende automobilistiche americane : General Motors , Chrisler e Ford.

Le tre principali autoindustrie ,nel momento in cui vengono rilevate nella loro direzione dal governo federale, sono ormai «decotte» e prossime allo stato di bancarotta in seguito a politiche aziendali a dir poco «inopportune», in cui hanno prevalso le attività delle divisioni finanziarie interne all’azienda: piani d’investimento per l’acquisto dell’automobile, polizze assicurative automobilistiche o financo generali, mutui ipotecari per l’acquisto della casa, proposte di fondi d’investimento. Quel modello imprenditoriale rivelatosi fallimentare assegnava la mission, ai «manager per procura»da parte dei loro azionisti di maggioranza, di massimizzare il valore delle azioni in borsa , di ottenere un elevato rendimento a breve termine del capitale di proprietà degli azionisti sotto forma di dividendi distribuiti o interessi pagati sul debito (le obbligazioni) che l’impresa emette,e di porre come priorità assoluta il flusso di cassa trimestrale o semestrale dell’azienda. Il perseguimento generalizzato di tali logiche aziendali,che ha trovato solidali il management, i sindacati di azienda e importanti esponenti repubblicani dell’amministrazione Bush junior, al culmine del crack dell’economia finanziaria nel 2008, mette a nudo come le tre autoindustrie statunitensi siano incapaci di far fronte al crollo della domanda interna con piani d’investimento e produzioni tecnologicamente innovative e finanziaramente convenienti in grado di rivolgersi a clienti del mercato interno ed estero.

La rilevazione della gestione delle aziende da parte dell’amministrazione Obama ha comportato un cambio totale di strategia,«un viraggio di 180° gradi» della loro politica. E’ stato messo in piedi un Clean Energy Plan or Game,«un piano o partita per l’energia pulita», un grande progetto di riconversione, anzi di «ricostruzione» dell’industria automobilistica più orientato all’utilizzo delle energie rinnovabili e meno dipendente dai combustibili fossili (petrolio e gas), che innova i prodotti e cambia gli impianti. Il sud-ovest degli Stati Uniti, lungo la fascia desertica che unisce Santa Fè in New Mexico a San Francisco, passando per l’Arizona, è un brulicare di aziende che stanno creando nuovi fonti d’energia, nuovi motori d’automobile, nuovi componenti, nuovi materiali, nuove tecniche di produzione. La California ospita il maggior numero di aziende che operano nella Clean Energy industry. Tutto è iniziato parecchi anni fa, ma soltanto recentemente il gran lavoro su motori, gomme, combustibili, strade, trasporti, ha trovato un obiettivo preciso: reinventare l’auto e, di conseguenza, l’industria automobilistica.

Sono ormai avviate aziende che producono e vendono auto elettriche che vanno più veloci di quelle a benzina; anche la finanza, il «convitato di pietra» dell’economia dei nostri anni, mostra di poter svolgere un ruolo più «virtuoso» se è vero che proliferano fondi d’investimento sulle nuove energie; la ricerca scientifica fa anch’essa la sua parte se viene promosso il Precourt Institute of Energy all’Università di Stanford, con un finanziamento di 100 milioni di dollari per migliorare l’efficienza delle cellule fotovoltaiche, sviluppare energia sostenibile, e ridurre il carbon footprint.  La Clean Energy attrae soldi, crea posti di lavoro, apre  nuovi mercati. L’amministrazione Obama guarda alla legislazione della California e degli altri Stati più avanzati in materia di energia pulita, di consumi e di riduzione dell’inquinamento, come modello da assumere a livello governativo.

Il processo di riconversione dell’autoindustria ha i suoi costi – chiusura di stabilimenti obsoleti e 100.000 posti di lavoro, che però vengono in buona misura «salvati» dallo sviluppo dei nuovi impianti e dei nuovi stabilimenti tecnologicamente avanzati e dal sostegno dei sussidi di disoccupazione – d’altra parte l’alternativa era la bancarotta generalizzata delle«tre sorelle automobilistiche» con la prospettiva della disoccupazione per 1.300.000 dipendenti e costi per sussidi di disoccupazione, assistenza sanitaria e sostegno alle famiglie disagiate enormemente superiori al finanziamento pubblico dei processi di ristrutturazione.

Altra fondamentale ristrutturazione è stata quella operata dall’amministrazione Obama nel personale del ministero della difesa, il Pentagono, e nelle industrie degli armamenti. Negli anni dell’amministrazione Bush Junior, della sua«guerra globale» al terrore» il Pentagono da città si era trasformata in metropoli passando da 100.000 mila a 800.000 tra dipendenti, collaboratori e consulenti. La politica di spending rewiew dell’amministrazione Obama, oltre alla riduzione di tale pletora di personale del ministero della difesa, si esplica anche in un piano di risparmio annuo di 46 miliardi di dollari programmato fino al 2023 in commesse a industrie di armamenti:  eliminazione degli arei F 35 , considerati ormai obsoleti e di  diverse basi e di  vecchi arei d’attacco ( A-10) e arei spia ( U-2) degli anni 70. Anche il programma di armamenti nucleari avrebbe dovuto essere ridimensionato ma le recenti tensioni internazionali con Mosca e l’apertura della crisi medio orientale, pare riorientare i progetti verso un ammodernamento del settore. Le industrie belliche che vivevano di commissioni pubbliche, quelle più avanzate tecnologicamente, hanno potuto trovare uno sbocco alternativo nel mercato privato.

Ugualmente altri settori industriali, tra cui i settori dell’intrattenimento e del consumo, hanno subito una conversione verso internet e conoscono il loro rilancio. Lo stimolo fiscale è stato utilizzato anche per incentivare le aziende a invertire le loro delocalizzazioni e riportare gli impianti a casa, o per invogliare le aziende straniere a costruire le loro fabbriche negli Stati Uniti, come è noto per il caso esemplare della sinergia tra Chrisler e Fiat, a danno degli stabilimenti della madepatria della fabbrica torinese. In generale le articolazioni produttive dell’economia reale statunitense in questi anni di amministrazione Obama hanno avuto la loro rimonta e conosciuto una rivincita nei confronti dello strapotere acquisito nel corso degli ultimi trent’anni dal capitalismo finanziario speculativo, che aveva mortificato i gangli dell’economia produttiva.

Nelle scorse settimane Obama ha presentato la sua legge di stabilità (la sua« finanziaria») al Congresso americano rilanciando la posta, sfidando l’avversa maggioranza congressuale del partito repubblicano sul piano di un intervento economico globale di circa 4.000 miliardi di dollari . Il piano prevede: 428 miliardi di dollari d’investimento in infrastrutture perché necessitano di un rinnovamento e creano posti di lavoro, incentivano i consumi e, incidendo sulla domanda, necessariamente favoriscono una crescita reale dell’economia; inoltre Obama lancia la battaglia contro la disuguaglianza economica offrendo agevolazioni fiscali alla classe media per circa 300 miliardi e inasprendo al contrario le tasse per le grandi corporation – in particolare con l’una tantum del 14% sui 2 trilioni di profitti accumulati all’estero – e per i cittadini più ricchi che vedranno le loro imposte sul reddito aumentare di 630 miliardi; è infine previsto che la regolarizzazione di molti lavoratori immigrati porterà a un risparmio di 360 miliardi di dollari e a un incremento della bilancia commerciale.

Come detto nell’introduzione politiche economiche miracolistiche e salvatori provvidenziali non esistono, ma il costante e inflessibile lavoro per riformare con modelli keynesiani un ciclo di accumulazione del capitale giunto a una fase catastrofica della sua parabola, sta infine dando i suoi frutti: che la notte porti consiglio agli inflessibili paladini europei dell’austerity e del pareggio di bilancio….

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