Fonte: La Repubblica
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ABOLIRE IL CARCERE – di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta – Postfazione di Gustavo Zagrebelsky – ed. Chiarelettere
recensione di Silvana Mazzocchi
IL CARCERE non riabilita, esclude, emargina e riproduce delitti. Sbarre e celle costringono i detenuti in spazi estranei e angusti dove cambia la percezione dello spazio e del tempo e, soprattutto, non garantisce la sicurezza dei cittadini. Il carcere annienta, non salva e, dunque, deve perdere la sua centralità. Luigi Manconi, parlamentare e fondatore di Buon Diritto, associazione per la libertà, ricorda in questa intervista che, fra coloro che escono dopo aver scontato la pena, ben il 68% torna a delinquere; una percentuale assai maggiore di quella che si registra tra chi ha beneficiato delle misure alternative o ha pagato con sanzioni diverse dalla reclusione.
E allora, come intervenire per spezzare quella logica che affolla i penitenziari italiani all’inverosimile, ma non produce un calo di criminalità né mette al sicuro i cittadini? Un libro, Abolire il carcere (Chiarelettere), tenta una risposta e avanza un decalogo di proposte per cambiare un sistema che si rivela addirittura dannoso e che, secondo le parole pronunciate nel 2013 dall’allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano, si configura come “una realtà non giustificabile in nome della sicurezza”.
Firmato da Luigi Manconi, da Stefano Anastasia, ricercatore di Filosofia del diritto, da Valentina Calderone, direttrice di buon Diritto e da Federica Resta, avvocata impegnata nel settore, Abolire il carcere illustra una serie riforme “ragionate e possibili” per cambiare: fra queste, la differenziazione delle pene, la depenalizzazione per i reati meno gravi, l’abolizione dell’ergastolo, l’applicazione di misure alternative a largo raggio, le sanzioni pecuniarie, l’esclusione dei minori dal carcere e la concessione dei domiciliari alle detenute con figli fino ai 10 anni.
“Il carcere è un lungo e minuzioso processo di spoliazione, dal primo ingresso fino al momento dell’uscita (se uscita vi sarà).”, sottolinea Manconi. E ammonisce Gustavo Zagrebelsky nella sua postfazione: “Diciamo che il crimine determina una frattura nelle relazioni sociali. In una società che prende le distanze dall’idea del capro espiatorio, non dovrebbe il diritto mirare a riparare la frattura?”
Luigi Manconi, come conciliare l’abolizione del carcere con la sicurezza dei cittadini?
Il vero problema è che il carcere non garantisce affatto la sicurezza dei cittadini. É vero l’esatto contrario: contribuisce in maniera rilevantissima alla insicurezza collettiva. Le statistiche dimostrano, infatti, che chi ha scontato la pena in carcere torna a delinquere nel 68% dei casi: e con una frequenza assai maggiore rispetto a chi invece abbia beneficiato di misure alternative o comunque di sanzioni diverse dalla reclusione. Il carcere, dunque, non solo non è utile ma è addirittura dannoso per la sicurezza dei cittadini, che ne viene “più insidiata che garantita”, come scrisse Giorgio Napolitano nel 2013, nel messaggio alle Camere, affermando espressamente che il carcere è una “realtà non giustificabile in nome della sicurezza”.
Per garantire davvero la sicurezza dei cittadini la risposta al reato deve essere totalmente diversa e, soprattutto, differenziata: non una pena, la stessa per tutti e la più inutile (come il carcere oggi), ma la più appropriata per ogni reato e ogni soggetto. Così, le sanzioni patrimoniali (multa, confisca, ecc.) saranno molto più efficaci, perché più dissuasive, per tutta l’area della criminalità economica e “da colletti bianchi”, in quanto capaci – ben più del carcere – di annullare i vantaggi derivanti dal reato. Per altro verso, un ampio ricorso al risarcimento e a prestazioni riparative in favore della vittima consentirebbe di tutelarne i diritti ben più di quanto lo permetta l’attuale sistema penale. Tali prestazioni dovrebbero poi essere il presupposto per la composizione del conflitto attraverso la mediazione penale, che sta dando, in molti Paesi europei, ottimi risultati anche in termini di prevenzione della recidiva.
Ampia dovrebbe essere poi l’utilizzazione di sanzioni “di comunità”, ovvero di prestazioni lavorative e attività riparatorie in favore della collettività, che realizzano, meglio di ogni altra, quel reinserimento sociale cui la pena deve tendere secondo Costituzione e che, prevenendo la recidiva, garantisce davvero la sicurezza dei cittadini. Come si vede già da questa prima disamina, il carcere può perdere la sua centralità e venire sostituito – non solo agevolmente, ma anche assai più efficacemente – da sanzioni diverse dalla detenzione in una cella chiusa.
In sintesi le dieci proposte contenute nel libro.
Quello che proponiamo è un decalogo per arrivare progressivamente e in modo efficace all’abolizione del carcere:
1) salvo per le violazioni più gravi di diritti e interessi fondamentali, depenalizzare tutto ciò che è possibile;
2) cancellare la “pena di morte occulta” (come Papa Bergoglio ha definito l’ergastolo) e ridurre le pene detentive.
3) diversificare il sistema delle pene, rendendo il carcere un’extrema ratio cui ricorrere solo nei casi di eccezionale gravità;
4) concentrare il processo penale su fatti realmente meritevoli di sanzione, anche attribuendo la capacità di estinguere il reato ad azioni (riparative, risarcitorie, ecc.) prestate dall’imputato in favore della vittima o della collettività;
5) ammettere la custodia cautelare solo in presenza di spiccata pericolosità dell’imputato, imponendo negli altri casi misure non detentive, di natura interdittiva, prescrittiva, pecuniaria;
6) potenziare al massimo le alternative al carcere, così da offrire a ogni detenuto una reale opportunità di reinserimento sociale;
7) garantire i diritti fondamentali dei detenuti e superare il “carcere duro” e i vari circuiti penitenziari differenziati;
8) umanizzare il carcere per quanto riguarda i luoghi e le funzioni che sopravviveranno alla sua abolizione;
9) mai più bimbi e minori in carcere: per questo alle madri di bambini sotto i 10 anni vanno riconosciuti sempre i domiciliari o l’assegnazione a case-famiglia e istituti analoghi;
10) dopo l’effettivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, si deve garantire che nei confronti degli autori di reato affetti da disagio psichico, le misure di sicurezza detentive siano sostituite con altre finalizzate alla riabilitazione e alla cura.
La prigione, questa sconosciuta…
Il carcere è un lungo e minuzioso processo di spoliazione, dal primo ingresso fino al momento dell’uscita (se uscita vi sarà). Il benvenuto te lo danno il freddo-umido o il caldo torrido del cellulare o della portineria. E il rumore metallico delle porte blindate, di cui non ti libererai più, in galera e poi fuori. La prima tappa in matricola, dove vieni letteralmente spogliato e perquisito fino in fondo all’ano, uno dei migliori ripostigli per piccoli, ma ricercati generi stupefacenti. Ora puoi rivestirti, ma non completamente: lacci, collane, oggetti di qualche valore restano lì, in matricola, insieme con i tuoi documenti e i tuoi soldi (se ne avevi). Declinate le generalità puoi andare alla casella successiva: visita medica e colloquio psicologico di primo ingresso. Se hai segni di violenza sul corpo, sarà bene refertarli subito, così che nessuno ne chieda conto, poi, al personale penitenziario.
Terminato il colloquio con lo psicologo sei pronto per la tua cella, se c’è un letto libero nei reparti ordinari. Altrimenti te ne stai al transito per un po’, insieme con gli altri arrestati, in un camerone generalmente sovraffollato, vociante e lercio quanto solo può essere una cella provvisoria di tutti e di nessuno. La cella, la tua cella, quando ci arrivi, è il confino. Ti ci scortano successioni di poliziotti, che ti si scambiano di sezione in sezione, di piano in piano, come fossi un pacco, tal quale i pochi effetti personali che riesci a portare con te. Alla fine del tour c’è una porta blindata, una grata e un comitato d’accoglienza (i tuoi compagni di cella), con i loro volti, i loro corpi, i loro odori.
La cella si chiude e questa è la tua nuova e improbabile famiglia, che non tarderà a farti conoscere le regole della sua casa dentro le regole del condominio penitenziario. La tua vita d’ora in poi, nella maggior parte dei casi, si svolgerà tutta lì. Tra quelle quattro piccole mura circondate da mura più grandi. Con poco o niente da fare tutto il giorni, per tutti i giorni della tua pena. Per questo pensiamo, molto semplicemente, che se si conosce davvero la realtà del carcere, risulti molto difficile augurarsi che altri ne facciano esperienza. Sta tutta qui, forse, la prima e più profonda ragione della nostra volontà di fare a meno dell’istituzione penitenziaria.
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ESTRATTO DAL LIBRO “ABOLIRE IL CARCERE”, per gentile concessione di Chiarelettere
È stata Belén, all’anagrafe María Belén Rodríguez, a esprimere le considerazioni più pertinenti a proposito della condanna a tredici anni e due mesi di carcere inflitta a Fabrizio Corona. La donna, a quanto si sa, non viene da severi studi giuridici ma è evidentemente dotata di buon senso e, soprattutto, conosce la personalità del condannato, col quale ha avuto una lunga relazione, e la sua particolare patologia.
«Lui ha un problema, ha fatto degli errori, ma in realtà l’unico problema che ha sono i soldi.» E ancora: «Secondo me la condanna che dovevano dargli è una grandissima multa salata e basta. Lui è in galera perché ha una malattia per i soldi» afferma Belén in una intervista al settimanale «Oggi», il 22 dicembre 2014. Nelle parole della donna c’è l’eco (poco importa se inconsapevole) della più avanzata dottrina penalistica e della più ragionevole pedagogia per l’età adulta. Entrambe le ispirazioni tengono conto, nel ponderare qualità ed entità della sanzione per chi infrange le regole, della personalità del reo e dell’esigenza di rendere la pena effettivamente deterrente – dunque utile alla società – oltre che non inutilmente vessatoria nei confronti del condannato. Ed entrambe intendono sottrarre la misura punitiva al cupo e ottuso automatismo del «chiudere la cella» per tot anni o per sempre e “gettare via la chiave”. E, infatti, nel caso di Corona, solo un tipo di sanzione capace di intervenire efficacemente sulla sua “patologia”, la dipendenza dal denaro, può rispondere a quanto previsto dalla Carta costituzionale e dal nostro ordinamento.
Può, cioe, sia svolgere una funzione preventiva – ovvero dissuaderlo dall’acquisire illegalmente risorse economiche – sia perseguire una finalità rieducativa, inducendolo a riflettere criticamente sulle conseguenze della propria dipendenza dal denaro. Le parole di Belen aggiungono, quindi, un’ulteriore motivazione, se mai ve ne fosse stato bisogno, alla pertinenza e alla urgenza dell’interrogativo: possiamo fare a meno del carcere? Questo libro ambisce a dimostrare l’opportunità di una simile domanda e la fondatezza della nostra risposta positiva. Si, abolire il carcere e possibile, innanzitutto nell’interesse della collettività, di quella maggioranza di persone che pensano di non essere destinate mai a finirci e che, con lo stesso, mai avranno alcun rapporto nel corso della intera esistenza.
L’abolizione del carcere e, insomma, una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, che ne avrebbero tutto da guadagnare. Perché, dunque, fare a meno del carcere? Semplice: perché a dispetto delle sue promesse non dissuade nessuno dal compiere delitti, rieduca molto raramente e assai più spesso riproduce all’infinito crimini e criminali, e rovina vite in bilico tra marginalità sociale e illegalità, perdendole definitivamente. E perche mette frequentemente a rischio la vita dei condannati, violando il primo degli obblighi morali di una comunità civile, che e quello di riconoscere la natura sacra della vita umana anche in chi abbia commesso dei reati, anche in chi a quella vita umana abbia recato intollerabili offese. E sia per questo sottoposto alla custodia e alla funzione punitiva degli apparati statali. Sono passati più di trent’anni da quando, prudentemente, si cercava una strada per «liberarsi dalla necessità del carcere».


