Cos’è il carcere

per Gabriella
Autore originale del testo: Giancarlo Capozzoli
Fonte: huffingtonpost.it
Url fonte: http://www.huffingtonpost.it/giancarlo-capozzoli/monotonia-attese-sospensioni-cose-davvero-il-carcere_b_7451016.html

COS’E’ IL CARCERE – di SALVATORE RICCIARDI – ed. DERIVEAPPRODI

recensione di Giancarlo Capozzoli

Abolire il carcere il libro edito solo da qualche settimana, da Luigi Manconi e Stefano Anastasia, ha aperto un’importante discussione sul tema delle carceri, anche su questo giornale.

Abolire il carcere. Ma cosa è il carcere, e cos’è il carcere oggi? Che cos’è l’essere stesso del carcere. Le ragioni sulla sua esistenza, sulla sua esistenza stessa, ci sarà modo di parlarne. La prima domanda che mi è sorta è, pertanto, che cosa sia il carcere, nella realtà. Per avere un’idea sulla realtà ontica ed empirica del carcere, bisognerebbe parlare con chi questa datità la vive quotidianamente, la subisce, la respira. Potrebbe dire cosa “è” il carcere chi l’ha vissuta, chi l’ha subita, chi l’ha respirata.

Cosa è il carcere è un libricino scritto da Salvatore Ricciardi, un ex brigatista, che ha finito di scontare la sua pena ed ora, finalmente, in libertà. Cosa è il carcere, vademecum di resistenza è importante per capire come funziona (o come “non” funziona) il sistema penitenziario, in Italia. Il merito di Salvatore Ricciardi, al netto dell’idelogia e delle idee politiche, condivisibili o meno, è di far sentire davvero il sapore amaro e le sensazioni reali, i “giorni immobili di una lunga detenzione”, che un uomo, privato della libertà, ha sofferto. Ciò che emerge con violenza da questa lettura è che il carcere è i detenuti che lo abitano (loro malgrado).

“Tu li riconosci quelli che vengono dalla galera, lo portano scritto in faccia. I segni della galera che solcano il viso sono indelebili come la salsedine che scolpisce i volti dei marinai”, scrive Ricciardi. Cosa è il carcere è una lettura utile per avere un’opinione diretta sull’argomento, senza la mediazione di chi ne scrive piuttosto, entrando ma con la consapevolezza di uscirne quando vuole. Ricciardi parla di se stesso quando scrive di “quelle persone che ho visto trascinare i piedi lentamente con i volti rivolti a terra, agitati ma passivi, come un esercito vinto”. Anche se lui non si è rassegnato, e ne è uscito. Li ha visti davvero, ed era in mezzo a loro.

Uno dei concetti fondamentali che emerge da questo libro è quello di tempo, di un tempo che è declinato in maniera diversa da chi è fuori, libero. Il detenuto emerge come un essere-senza-tempo. Per comprendere realmente cosa sia il carcere, si deve comprendere questa assenza di tempo. “Dentro il carcere […] il tempo non c’è. Nel carcere non c’è questo tempo, il tempo delle cose che succedono, dei cambiamenti che avvengono. È tutto sempre uguale”, scrive. Il tempo quindi, in carcere, è in questo senso, assenza-di-tempo. Il tempo è scandito da altri ritmi e soprattutto, dice Ricciardi, dai rumori del carcere.

“È l’udito il senso più importante”, il rumore del secondino che la mattina urla la conta, il rumore degli scarponi delle guardie che attraversano i corridoi, il rumore delle porte di ferro che sbattono. Delle chiavi che aprono e chiudono. Il rumore del carrello della colazione. Ogni giornata è uguale all’altra. Dalla mattina alla sera. Questa monotonia del tempo dell’assenza-di-tempo-che-non-cambia è interrotta dal tempo destinato ai colloqui. Quest’ora segna lo scorrere dei giorni, e la distanza temporale alla successiva giornata di incontri e colloqui.

Inoltre la giornata dei colloqui ha in sé un ulteriore tempo/ritmo che è condizionato dai rituali in vista dell’ incontro con i familiari. “Innanzitutto deve cercare di togliersi di dosso la puzza del carcere”, scrive Ricciardi. Puzza che in realtà sentono su di sé solo i carcerati, perché la associano allo squallore che stanno vivendo. In questo senso è da intendere quello sradicamento sociale e affettivo e quell’annientamento della identità che il carcere rappresenta. L’interruzione delle amicizie, degli affetti, delle relazioni.

Eppure i detenuti sono uomini e come tali devono essere considerati, come “sentieri interrotti” degni di essere visitati, e raccontati, e non dimenticati. Si è detto: il carcere come assenza-di-tempo-che-non-cambia con questo sapore/odore di squallore quotidiano. Scrive l’autore: “Ti assale un senso di spossatezza, non hai più energia, senti malessere in ogni parte del corpo, il sonno è interrotto continuamente. L’odore ti si infila nelle narici, la vista si appanna e vedi con difficoltà e senti sempre freddo. Oppure caldo”. L’udito stando a quanto raccontato nel libro è il senso che si sviluppa di più. Il tatto al contrario è, tra gli altri, il primo ad anestetizzarsi. Mancano d’altra parte gli stimoli e le superfici per le mani sono sempre le stesse: gli stipetti, le brande, i tavoli, gli sgabelli, le sbarre. “Tre, quattro, cinque, sei, sette… ecco il muro. Non posso misurare la larghezza, c’è di mezzo la branda, oltre la branda c’è la tazza del cesso”.

Questa assenza-di-tempo-che-non-cambia con gli odori del carcere senza tatto e con l’udito iper stimolato è lo spaesamento. Facile a capire lo smarrimento causato dai sensi fuori registro, e la mancanza di senso che assale molti detenuti. “Lo spioncino è l’elemento più importante per un detenuto. È infatti il punto di collegamento tra la cella e il corridoio, è il legame con l’oltre-cella”. Lo spioncino serve a mantenere un rapporto almeno con chi vive quella medesima situazione. Lo spioncino chiuso è il primo sintomo che l’isolamento e la disperazione stanno prendendo piede, nella testa e nella vita di un detenuto. Il carcere è e resta comunque solitudine.

Questa sofferenza ognuno la vive sulla propria pelle e ciò la rende diversa da quella di ogni altro. “Sofferenza, distruzione, annichilimento della personalità, prostrazione, infantilizzazione (…), la voglia di morire in carcere, di suicidarsi, viene da questa semplice ragione”, scrive Ricciardi. Solo a leggere queste parole dovremmo stupirci che il numero dei suicidi “dentro” non sia maggiore. Ma rende l’idea di come la mancanza di senso e l’assenza di tempo siano i motivi del maggior numero di suicidi tra i carcerati.

L’assenza-di-tempo-che-non-cambia è scandito anche dal tempo-trascorso-con-gli-altri.. Le chiacchiere fatte dei racconti esaltati, esasperati e inventati servono a solleticare l’ amor proprio, in realtà. L’assenza di tempo-che-non-cambia è scandito anche dallo sport che aiuta a sentirsi ancora vivi, e padroni del proprio corpo, costretto. Le relazioni con gli altri e lo sport sono pertanto altre interruzioni a questo tempo, ma non solo. “Scrivere dal carcere non è utile a chi riceve, è indispensabile a chi scrive. È il tentativo di sentirsi vivi, di urlare ‘sono ancora’!”.

È la monotonia infranta. “Il detenuto si innamora di chiunque gli scriva una lettera affettiva, di chiunque gli mandi una fotografia, il detenuto scrive poesie d’amore in continuazione. Tutto viene passato al vaglio dell’ ironia”. Questa riscoperta, per così dire, di relazioni tenere e ironiche e di cura del sé, sono le uniche armi contro quella chiusura e quello stato d’ animo di abbandono e incuria a cui prima facevamo cenno. La lettura di questo libricino è pertanto indispensabile se si vuole realmente comprendere cosa si intenda con sospensione-del-tempo. La mutilazione temporale.

C’è ancora un tempo che Ricciardi affronta nella descrizione di questo inferno vissuto da molti e da comprendere di questo tempo-che-non scorre della sua lettura, ed è “il-tempo-per-diventare-detenuto. Detenuto si diventa dopo”. Accade con l’ elaborazione della separazione dal proprio mondo di affetti, di impegni, di relazioni, e lo sradicamento “che riduce la tua identità a poco più che nulla, è solo la prima fase”. Il tempo-per-diventare-detenuto è il tempo di cui necessita l’ uomo per costruirsi una nuova identità, di detenuto appunto, “ed è il tempo scandito dalle crepe nei muri che si sono allargate”.

da glianni70.it

Cos’è il carcere – Vademecum di resistenza

di Salvatore Ricciardi

Da troppo tempo ormai ho questo articolo in bozza e non mi decido mai di pubblicarlo: non va mai bene, troppo conivolto personalmente e quindi è una continua correzione, aggiunte, cancellazioni . Prima mi perdo troppo nel mio “personale” poi mi perdo troppo nelle riflessioni, nei ricordi e in tutto quello che questo libro ha risvegliato e che sembrava ormai sepolto nel passato.

Chi è stato in carcere  per lungo tempo, che lo voglia o no, sa che ha una partita aperta.

E’ proprio vero, ha ragione Salvatore Ricciardi: l’esperienza coatta ti entra nella carne, nel dna e anche se credi dopo molti anni dopo che è solo un brutto ricordo, tale non è.

E’ la violenza più forte, più complessa e più subdola che si possa fare ad un uomo, ed è talmente radicata nel nostro essere e nel nostro inconscio, nell’inconscio collettivo che alla fine abbiamo accettato il carcere non solo come una cosa normale, ma addirittura necessaria alla società.

Senza entrare nel tema della punizione e della necessità di punire coloro che commettono reato, del dovere dello Stato di salvaguardare l’incolumità dei propri cittadini, del fatto che da che mondo è mondo i crimini sono stati sempre puniti, poiché in caso contrario la vita in società non sarebbe possibile. Su questo terreno vale il principio “fiat iustitia, pereat mundus“. E’ il concetto dell’insignificanza della pena privativa della libertà da un punto di vista esistenziale, inteso in senso di rapporto dell’essere umano con se stesso, il punto focale: La pena privativa della libertà non può essere una pena per il semplice fatto che non punisce ma priva di qualcosa senza la quale non si può realizzare le più recondite possibilità, blocca il potere di crescita dell’individuo escludendolo dalla società. E’ privazione di libertà senza condizioni, senza remore e senza vergogna. E’ privazione del tempo: Il tempo viene impedito dall’essere vissuto poiché solo nella libertà il tempo presente acquista significato e creatività esistenziale per il singolo individuo.

Questo ci racconta Salvatore nel suo libro:

La lotta contro il carcere è parte della partita infinita per  la conquista della libertà.

e non ce lo racconta come farebbe un sociologo, piuttosto che uno scrittore navigato che sa catturare l’attenzione del lettore, no, ce lo fa vivere, rivivere. Ti accompagna in questo viaggio nella disperazione, ti fa sentire il battere dei ferri, la conta, la fine dell’ora d’aria.

Un grande momento di riflessione e di condivisione, per tutti: sia per chi in carcere c’è stato, sia per chi l’ha visto solo nei film.

Salvatore Ricciardi (Roma, 1940) dopo gli studi tecnici e il lavoro in un cantiere edile è assunto in qualità di tecnico nelle ferrovie dello Stato. Svolge attività sindacale nella Cgil e politica nel Partito socialista di unità proletaria. Partecipa al movimento del ’68 studentesco e del ’69 operaio. Negli anni successivi è tra i protagonisti dell’autorganizzazione nelle realtà di fabbrica e dei ferrovieri. Dopo aver militato dell’area dell’autonomia operaia nel ’77 entra a far parte della Brigate rosse. Viene arrestato nell’80. Alla fine di quell’anno con altri prigionieri organizza la rivolta nel carcere speciale di Trani. Condannato all’ergastolo, alla fine degli anni Novanta usufruisce della semilibertà. Dopo trent’anni di detenzione, recentemente ha riacquistato la libertà. Lavora presso una libreria ed è redattore di Radio onda rossa, a Roma.

Salvatore Ricciardi, Cos’è il carcere. Vademecum di resistenza, DeriveApprodi 2015, pp.128, euro 12,00

E’ qui in galera che l’ordine ti si rivela «per quello che è: violenza quotidiana che ti si abitua ad accettare come ordine»” (Lettera dal carcere di Torino, autunno 1969)

la trasmissione Fahrenheit  di  RadioTre  lo  ha  invitato a parlare del libro “Cos’è il carcere“ potete ascoltare la registrazione qui:

 

Che cosa succede in carcere? Te lo domandano le persone sensibili che seguono ciò che avviene dietro quelle mura, oppure chi vede portarsi via e chiudere dietro le sbarre una persona cara. Come si troverà? Reggerà la situazione? Te lo domandano e aspettano con ansia una risposta. Che tu non sia più rinchiuso in quelle celle non importa, tu sei comunque la galera e puoi sapere, puoi capire le vicissitudini di un corpo rinchiuso là dentro: cosa può servirgli, cosa gli si può mandare, cosa viene ammesso e cosa rifiutato, quali accortezze occorrono. Tenerti aggiornato sulla galera non è facile.

da deriveapprodi.org

Un Assaggio del libro

Tornare in carcere. Perché? Ci puoi tornare per caso, per un accidente in agguato che ti può balzare addosso d’un tratto. Un inconveniente dovuto al marchio che ti porti stampato in fronte. L’ex detenuto, si sa, in ogni occasione è il sospettato principale. Ci puoi tornare volontariamente, per constatare i cambiamenti avvenuti e confrontare la nuova realtà con quella di qualche decennio fa. Ci puoi tornare con la fantasia, per ripercorrere quello spazio e quel tempo annullato, violentato. Ci puoi tornare perché hai la forte sensazione che lì dentro hai lasciato qualcosa che devi recuperare. Rientrare con la fantasia non è difficile per noi, «detenuti di lungo corso», che la galera ce l’abbiamo cucita addosso e non riusciamo a strapparcela via, perché è qualcosa che ci accompagna sempre e ovunque. Capita che persone amiche che non vedi da tempo ti chiedano se hai davvero finito tutto, oppure se stai ancora in uno di quei maledetti «gironi» che accompagnano l’ultima fase della detenzione: la semilibertà, la libertà condizionale eccetera. Si stupiscono quando con un po’ di esitazione gli dici che sì, hai veramente finito tutto, che puoi muoverti con libertà, che hai addirittura di nuovo il passaporto. Li scopri contenti ma sorpresi, perché per loro tu sei la galera personificata, una galera che nell’immaginario non finisce mai. Hai voglia a dire a tutti che finalmente hai scontato tutta la condanna, che ti sei lasciato la galera alle spalle, che quei giorni immobili ormai sono solo un ricordo. Anche se quasi ti vergogni a sottolineare il tuo allontanamento dal carcere. Perché là altri corpi hanno preso il tuo posto, e per questo ti senti in colpa. Tu sei la galera che cammina a cui chiedere notizie su particolari nascosti che può sapere solo chi ha avuto lunga dimestichezza con quel luogo spregevole. Non si tratta di richieste bislacche, hanno un loro senso. Pelé, Maradona rappresentano il gioco del calcio anche quando hanno smesso di giocare, così come tu rappresenti la galera anche quando una parte di te ne è uscita. Una parte, appunto. Perché anche se le carte giudiziarie attestano che tu sei libero a tutti gli effetti, una parte di te rimane comunque dentro e non riesci a farla uscire. Infatti, tutti se ne accorgono. È questa la ragione per rientrarci: rintracciare quella parte di te che si sono tenuti, riprendersela e provare di nuovo a essere te stesso per intero. Il carcere è cambiato, ma non nella sua sostanza. I cambiamenti, quelli proposti e i pochi realizzati da ministri e parlamentari, non ne hanno modificato l’essenza. Perché qualcosa può davvero modificarsi solo quando i cambiamenti vengono imposti dalla volontà collettiva dei carcerati che lottano in forma organizzata. Che cosa succede in carcere? Te lo domandano le persone sensibili che seguono ciò che avviene dietro quelle mura, oppure chi vede portarsi via e chiudere dietro le sbarre una persona cara. Come si troverà? Reggerà la situazione? Te lo domandano e aspettano con ansia una risposta. Che tu non sia più rinchiuso in quelle celle non importa, tu sei comunque la galera e puoi sapere, puoi capire le vicissitudini di un corpo rinchiuso là dentro: cosa può servirgli, cosa gli si può mandare, cosa viene ammesso e cosa rifiutato, quali accortezze occorrono. Tenerti aggiornato sulla galera non è facile. Non basta leggere le circolari, le nuove leggi, le notizie che affiorano, spesso travisate, sui giornali e sugli altri media. Ci rientri con la fantasia e ti accorgi che è vero che dentro la prigione il tempo non passa. Anche se qualche segno lo trovi: quella macchia di umidità sul muro si è allargata, ha contagiato la parete adiacente, è arrivata al soffitto. Ci rientri per ripercorrere quel tempo sospeso e quello spazio annullato, per non dimenticare le atrocità, per farle conoscere. È il tempo del carcere che cammina sui muri delle celle Tu li riconosci al volo quelli che vengono dalla galera. Li conosci all’impronta. Chi ha fatto la galera, e ne ha fatta tanta, lo porta scritto in faccia. I segni della galera che solcano il viso sono diversi dal graffio del passare degli anni, sono indelebili come la salsedine che scolpisce i volti marinari. Il solco della galera sul viso, immobile come il tempo carcerato, è un profondo spartiacque tra speranza e paura. Molti conoscono le perversioni del sistema carcerario, ma il problema è che non vengono raccontate con le parole giuste, con i toni adeguati. Chi ostenta una presunta conoscenza del carcere spesso ondeggia tra leggende di aragoste e champagne degli ambienti della «mala pesante» e i lamenti penosi di un luogo oscuro, tenebroso, impenetrabile, terrorizzante. Un tempo i prigionieri avevano un loro linguaggio per comunicare e tramandare, dai vecchi ai giovani, la conoscenza delle infamie del carcere attraverso metafore, racconti, parabole. Parole che si diffondevano nella cerchia delle persone con loro solidali, ambienti un tempo numerosi e schierati dalla parte di chi il carcere lo subiva.

Babelezon bookstore leggi che ti passa

Articoli correlati

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.