di Alfredo Morganti – 12 luglio 2016
L’Espresso ha dedicato una copertina alla ‘fine delle élite’. Per molti la coppia ‘destra-sinistra’ sarebbe oramai stata sostituita da quella ‘sistema-antisistema’. Nel mondo vi sarebbe uno scontro aperto tra centro e periferie, tra impero e colonie. L’1% di ricchi possiederebbe la metà del mondo, contro un 99% sempre più sofferente. Una distanza incolmabile separerebbe la crema umana da chi vive ai bordi, i pochi vincenti dal numero sempre maggiore di perdenti. Questa rappresentazione, non priva di verità, è divenuto il filtro principale attraverso cui interpretare le ultime vicende mondiali, lo stato della terra e quello dell’umanità, in special modo la più dolente. È giusto, è sbagliato? È uno schema troppo riduttivo o manicheo? Vi sono più sfumature e meno contrasti secchi? Non lo so. So per certo che il mondo globalizzato, quello che avrebbe dovuto garantire interrelazioni, scambio, comunicazione, chance ha prodotto invece conflitti sempre più esasperati, ingigantito le distanze sociali, alimentato le disuguaglianze, accresciuto il numero dei ‘perdenti’.
Cos’è stata la Brexit, in fondo? Se non l’espressione di un risentimento dei perdenti verso i vincenti, dei localizzati contro i ‘cosmopoliti’, dei ‘brutti sporchi e cattivi’ contro i fighetti? E la sinistra? Che fine ha fatto? L’ha capita questa cosa o continua a rincorrere la generazione Erasmus? È stata davvero sostituita dalla protesta antisistema, è stata davvero identificata in toto con l’apparato, con i vincenti, oppure la sua anima è ancora salva? Quanta speranza ancora nutriamo che essa sappia dare voce e sia interlocutore attivo e credibile anche del sociale più periferico? Del mondo disadorno dei perdenti? Che futuro ha una sinistra che riscuote successi dove l’aspettativa di vita è di 81 anni ed è dimenticata, e ha fatto di tutto per farsi dimenticare, dove invece questa aspettativa è scesa a 75? E parliamo della stessa città, della stessa metropoli, della stessa Capitale d’Italia. È su questo crinale che il riformismo illuminato (e anche quello meno illuminato) fa a capocciate con una realtà dura, scontrosa, che non si lascia racchiudere nel marketing di Palazzo Chigi.
Sono in troppi a credere che vi sia una stanza dei bottoni da cui il mondo sia davvero (tecnicamente!) a portata di mano. Pochi ricordano (ah la memoria!) quando i comunisti facevano porta a porta nelle borgate e nei borghetti, tra le case abusive e le baracche. E venivano accolti. Pochi ricordano quando il sociale dei perdenti era vicino agli operai, quando le élite imparavano anche in strada, quando la lingua non era l’italiano forbito (anzi il semi-inglese) dei social e dei bordo piscina. Ma la lingua rude, spesso indecifrabile, che nasceva dal misto di calabrese, marchigiano, romanesco, slang periferico che si parlava nell’80% di periferia di cui si compone Roma. Oggi siamo così poveri di cultura viva, così lontani da quella civiltà di perdenti che assedia il fortino dorato dei cosmopoliti, che la semplice notizia secondo la quale un rappresentante della élite romana, un segmento di classe dirigente cittadina decida di gettarsi a corpo morto nelle piaghe della periferia è già una buona novella, è già un conforto. In troppi ormai guardano Roma soltanto dal buco della serratura dei loro portoncini di casa in centro città. In troppi sanno solo schermirsi. Indignarsi. Oppure giudicare la povertà, il disagio, la distanza. Per questo allungare lo sguardo, aprire quella porta, tentare di nuovo un contatto e fare un bagno sociale senza rete, da pari a pari, è già un segnale che non ti aspettavi più di sentire e che ti piace. Per il resto si vedrà.


