La grande frattura. La disuguaglianza e i modi per sconfiggerla

per Gabriella
Autore originale del testo: Giovanni Magliaro
Fonte: lametasociale
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LA GRANDE FRATTURA – di JOSEPH STIGLITZ – ed. EINAUDI

di Giovanni Magliaro

E’ uscito in questi giorni in libreria l’ultimo lavoro di Joseph Stiglitz: La grande frattura. La disuguaglianza e i modi per sconfiggerla, editore Einaudi.

Per i pochi che ancora non lo conoscono ricordiamo che Stiglitz è uno dei massimi economisti contemporanei. Premio Nobel per l’economia nel 2001, ha ricoperto nel corso della sua carriera importanti cariche istituzionali nella Banca Mondiale e nel Fondo Monetario Internazionale ed è stato anche consigliere per gli affari economici del Presidente Clinton. E’ docente alla Columbia University. Tra i suoi libri più famosi vanno ricordati: La globalizzazione e i suoi oppositori; Bancarotta. L’economia globale in caduta libera; Il prezzo della disuguaglianza.

L’ultimo libro è particolarmente interessante perché raccoglie numerosi scritti destinati non a riviste accademiche ma a giornali di larga diffusione come New York Times o Vanity Fair. Si tratta quindi di lavori comprensibili ad un largo pubblico e anche a chi non ha alcuna preparazione specifica. Il leitmotiv che caratterizza il libro è la critica seria e documentata al neo liberismo contemporaneo e alla economia dominata dalla speculazione finanziaria. Collegati a questo leitmotiv vanno sottolineati spunti quanto mai significativi.

Spesso quando si affrontano i problemi legati alla economia e in particolare alle crisi ci si limita a discutere di cause contingenti e di fattori di natura prettamente economica. Il grande merito di Stiglitz è quello di mettere in luce la responsabilità primaria della classe politica nel determinare e nel creare il terreno adatto a consentire certi comportamenti che hanno poi condotto alle crisi. La politica – afferma Stiglitz – nella crisi c’entra eccome. Al posto di regolamentazioni che stabilizzassero l’economia e proteggessero i comuni cittadini abbiamo avuto la deregolamentazione che ha portato all’instabilità e ha lasciato la società in balia dei banchieri. La verità è che il settore finanziario non funziona bene da solo ma ha bisogno di una regolamentazione forte fatta rispettare con efficacia per impedirgli di danneggiare il resto della società.

Con la caduta del muro di Berlino e il collasso del comunismo sembrava che il libero mercato avesse vinto. Benché questa fosse la lezione sbagliata da trarne, gli Stati Uniti usarono la loro influenza in quanto unico superpotere rimasto per portare avanti gli interessi delle proprie grandi e potenti compagnie. Fra queste le più influenti appartenevano al settore finanziario. Gli Stati Uniti indussero gli altri paesi a liberalizzare i rispettivi mercati finanziari. Anche a casa loro misero in atto le politiche, interne ed estere, volute dalle lobbies finanziarie. Il settore finanziario e gli economisti ad esso organici hanno promosso l’idea secondo la quale i mercati, lasciati a se stessi, conducono a risultati efficienti e stabili e pertanto, in base a questo presupposto, i governi dovrebbero liberalizzare e privatizzare; hanno sostenuto l’opportunità di limitare la tassazione progressiva affermando che aveva effetti avversi sugli incentivi a produrre; hanno insistito a ripetere che la politica monetaria dovrebbe concentrarsi sulla inflazione e non sulla creazione di posti di lavoro. Tutto questo – sostiene Stiglitz – nonostante la lunga storia di fallimenti di mercati finanziari non regolamentati o sotto regolamentati e a dispetto degli importanti progressi del pensiero economico che hanno spiegato perché i mercati finanziari debbano essere regolamentati.

Stiglitz ricorda che quando era a capo dei consulenti economici durante l’amministrazione Clinton era chiara la pericolosità dei cosiddetti “derivati” bancari. Tuttavia, nonostante i rischi, le lobbies del sistema bancario riuscirono a impedire qualsiasi controllo. Nel 1999 il Congresso abrogò la legge Glass Steagall, nata dopo la grande depressione del 1929, che separava le banche commerciali (che prestano danaro) dalle banche d’investimento (che organizzano la vendita di obbligazioni e titoli). Questa legge era stata il baluardo per frenare gli eccessi della finanza. Con l’abrogazione della Glass Steagall si è cambiata un’intera cultura: riunendo le banche commerciali e le banche d’investimento divenne predominante la cultura delle banche d’investimento e si cominciò a pretendere il genere di rendimenti elevati ottenibili solo indebitandosi e rischiando molto. Si tratta, come è chiaro, di scelte politiche operate sotto la spinta della finanza. La verità è che la maggior parte dei singoli errori può essere ricondotta a uno: credere che i mercati si aggiustino da soli e che il ruolo della politica deve essere minimo o inesistente. L’abbraccio degli Stati Uniti e di gran parte del resto del mondo – afferma Stiglitz – a questa filosofia economica fallace ha reso inevitabile che alla fine arrivassimo al punto di crisi in cui ci troviamo.

Secondo Stiglitz c’è un colpevole importante che ha svolto un ruolo dietro le quinte della crisi: il sistema politico americano e la sua dipendenza dai contributi elettorali. Tale dipendenza ha consentito a Wall Street di esercitare un’enorme influenza, di indurre a strappare le regolamentazioni preesistenti e a nominare chi non voleva realmente nessuna regolamentazione. In ultima analisi questa è una crisi del sistema economico e politico americano. I banchieri hanno usato la loro influenza politica per permettere alle grandi compagnie che dirigevano di portare a casa la maggiore quantità di denaro possibile. I politici giocavano con le stesse regole: dovevano raccogliere danaro per essere eletti e per farlo dovevano compiacere elettori ricchi e potenti C’erano economisti che offrivano ai politici e ai banchieri un’ideologia conveniente.

Dice Stiglitz che il capitalismo può forse essere il migliore sistema economico inventato finora dall’uomo ma nessuno ha mai detto che avrebbe creato stabilità. Di fatto negli ultimi trent’anni le economie di mercato hanno affrontato più di cento crisi. Per questo lui e molti altri economisti credono che la regolamentazione e la vigilanza politica rappresentino una componente essenziale di un’economia di mercato ben funzionante. Il mercato da solo non basta. Serve che lo Stato faccia la sua parte.

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UN ESTRATTO DEL LIBRO

Questo libro apre con gli inizi della Grande recessione, diversi anni prima che cominciassi a scrivere la serie The Great Divideper il «New York Times». L’articolo scelto per introdurre la presente raccolta fu pubblicato su «Vanity Fair» nel dicembre 2007, proprio il mese in cui l’economia degli Stati Uniti scivolava in una flessione che si sarebbe rivelata la peggiore dai tempi della Grande depressione.
Nei tre anni precedenti, insieme a uno sparuto gruppo di altri economisti, avevo lanciato continui avvertimenti sul fatto che era incombente un’implosione. I segnali di allarme, in effetti, erano lí davanti a tutti, ma troppa gente stava facendo troppi soldi: conveniva di piú chiudere gli occhi. C’era una festa in corso e soltanto pochi eletti vi erano invitati, mentre al resto di noi sarebbe stato chiesto di saldare il conto. Purtroppo, coloro che avrebbero dovuto fare in modo che l’economia si mantenesse in equilibrio erano legati troppo strettamente ai partecipanti alla festa e si godevano tutto il divertimento (oltre a tutti i soldi). Questo è il motivo per cui i primi capitoli sono stati inclusi qui come Prologo. L’insieme di circostanze alla base della Grande recessione è intimamente legato a quello alla base della grande frattura.
Lo scenario, innanzitutto: c’era stata una significativa espansione economica durante gli anni Novanta, alimentata da una bolla tecnologica che aveva fatto schizzare alle stelle il prezzo azionario dell’high tech. Dopo l’esplosione di quella bolla, tuttavia, l’economia nel 2001 era scivolata in recessione. La panacea di George W. Bush per tutti i mali fu tagliare le tasse, soprattutto ai ricchi.
Agli occhi di coloro che durante l’amministrazione Clinton avevano lavorato duramente per ridurre il deficit fiscale, la decisione apparve preoccupante per vari motivi. Avrebbe significato un ritorno del deficit, rendendo nullo tutto il lavoro fatto negli otto anni precedenti. In nome della ristrutturazione del deficit, l’amministrazione Clinton aveva rinviato gli investimenti in infrastrutture e in istruzione e i programmi di aiuto ai poveri. Non ero stato d’accordo con alcune di queste decisioni, perché pensavo che indebitarsi per investire nel futuro del paese fosse ragionevole da un punto di vista economico, e temevo che un’amministrazione successiva potesse sprecare quei sudati guadagni per scopi meno nobili.
Mentre il paese sprofondava nella recessione del 2001, i decisori politici concordavano sul fatto che l’economia avesse bisogno di uno stimolo. In questa prospettiva sarebbe stato molto meglio realizzare gli investimenti che erano stati rimandati, invece di abbassare le tasse ai ricchi come fece Bush. Già allora ero preoccupato della disuguaglianza che cresceva nel paese e questi iniqui sgravi fiscali peggioravano soltanto le cose. Le prime parole del mio articolo sulla «New York Review of Books» del 13 marzo 2003, intitolato Bush’s Tax Plan. The Dangers, furono: «Raramente cosí pochi hanno ricevuto tanto da cosí tanti».
Quel che è peggio, pensavo che gli sgravi fiscali sarebbero stati relativamente inefficaci. Il timore era fondato. È un punto sul quale ritorno spesso in questo libro. La disuguaglianza indebolisce la domanda aggregata e l’economia.
La crescente disuguaglianza in America stava spostando il denaro dal fondo al vertice della piramide e, poiché coloro che erano in cima spendevano una parte inferiore del loro denaro rispetto a quanti si trovavano in basso, la domanda complessiva ne rimaneva indebolita. Nel corso degli anni Novanta avevamo mascherato l’insufficienza creando la bolla tecnologica, un boom di investimenti. Ma, con l’esplosione di quella bolla, l’economia era caduta in recessione.
Bush rispose con un taglio fiscale a beneficio dei ricchi. Con i consumatori preoccupati del loro futuro, lo stimolo economico auspicato dagli sgravi fiscali di Bush risultò debole. Un’ulteriore riduzione delle imposte sul capital gain – oltre a quella concessa qualche anno prima dal presidente Clinton – non fece che incoraggiare nuove speculazioni. Poiché tale provvedimento avvantaggiava in maniera schiacciante coloro che si trovavano al vertice della piramide, l’alleggerimento del carico fiscale sulle plusvalenze fu particolarmente inefficace e accrebbe fortemente la disuguaglianza.
Gli strumenti piú indicati per rafforzare la domanda e incrementare l’uguaglianza sono le politiche fiscali: le politiche di tassazione e di spesa decise dal Congresso e dal governo. Politiche fiscali inadeguate caricano di un onere eccessivo le politiche monetarie delle quali è responsabile la Federal Reserve.
La Fed può (a volte) stimolare l’economia abbassando i tassi di interesse e allentando la regolamentazione. Ma queste politiche monetarie sono pericolose. La loro prescrizione dovrebbe essere preceduta da un grande cartello: «Utilizzare con estrema cautela e sotto lo stretto controllo di adulti che ne comprendano pienamente i rischi». Purtroppo, i responsabili della politica monetaria non avevano letto avvisi del genere ed erano ingenui fondamentalisti del mercato, convinti che i mercati siano sempre efficienti e stabili.
Mentre sottovalutavano i rischi ai quali le loro politiche sottoponevano l’economia – e anche il budget della nazione – non sembravano preoccuparsi della disuguaglianza che aumentava di giorno in giorno. Il risultato oggi è ben noto: il gonfiarsi incontrollato di una bolla e una crescita della disuguaglianza senza precedenti.
La Fed permise all’economia di continuare a girare mantenendo una politica di tassi di interesse bassi e allentando la regolamentazione. Ma la cosa funzionò soltanto creando una bolla immobiliare. Avrebbe dovuto essere chiaro a tutti che la bolla immobiliare e la bolla dei consumi che ne conseguiva avrebbero potuto essere soltanto un palliativo temporaneo. Le bolle esplodono sempre. L’abbuffata di consumi portò l’80 per cento piú povero degli americani a spendere in media il 110 per cento del proprio reddito. Nel 2005, come paese, ci indebitavamo con l’estero di oltre due miliardi di dollari al giorno.
La cosa non era sostenibile e, citando uno dei miei predecessori alla presidenza del Consiglio dei consulenti economici, nei miei scritti e nei miei discorsi ricordai piú volte che ciò che non è sostenibile non sarebbe stato sostenuto.
Quando la Fed iniziò ad alzare i tassi di interesse nel 2004 e nel 2005, la mia previsione fu che la bolla immobiliare sarebbe esplosa. Non esplose, in parte perché beneficiammo di una sorta di tregua: i tassi di interesse a lungo termine non crebbero in Parallelo. Il 1° gennaio 2006 dichiarai che la cosa non avrebbe potuto continuare. Non passò molto tempo che la bolla esplose, ma ci sarebbe voluto un anno e mezzo, se non due, perché le conseguenze si manifestassero appieno. Ne scrissi poco dopo: «Proprio come il collasso della bolla immobiliare era prevedibile, cosí lo sono le sue conseguenze». Visto che «secondo alcune stime piú di due terzi dell’aumento della produzione e dell’occupazione nel corso degli [ultimi] sei anni [erano] legati all’immobiliare, riflettendo sia l’acquisto di nuove abitazioni sia l’abbuffata di consumi alimentata dall’indebitamento delle famiglie sul capitale casa», non avremmo dovuto stupirci se la successiva flessione sarebbe stata lunga e profonda.
Gli articoli inclusi in questa prima parte del volume descrivono le politiche che prepararono il terreno alla Grande recessione. Dove abbiamo sbagliato? Di chi è la colpa? Mentre coloro che operavano nel settore finanziario, i funzionari della Fed e del Tesoro vorrebbero fingere che sia semplicemente andata cosí – che sia stato come un cataclisma imprevedibile, di quelli che si verificano una volta ogni cento anni – credevo, mentre scrivevo quei pezzi, che la crisi fosse opera dell’uomo e lo credo con convinzione ancora maggiore oggi. Fu qualcosa che l’1 per cento (o meglio, una scheggia di quell’1 per cento) causò al resto di noi. Il fatto stesso che sia potuto accadere era un riflesso della grande frattura.
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